3. POV ???
«La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda. E' un presente che non finisce mai di passare.»
- Octavio Paz
Un tempo
Il Caos della Grande Foresta.
Così ineluttabile, così disumano, così agghiacciante. L'orrore che provavano davanti a quella bestia dagli occhi di ghiaccio non era esprimibile. A tratti era un mostro immenso che schiacciava interi boschi, che rovesciava mari, che spazzava via interi villaggi con la sua mostruosa grandezza, e poi in altri momenti era un uomo bellissimo dal viso d'angelo e la pelle d'avorio, dal sorriso irresistibile - sorrideva? Si poteva chiamare sorriso, quel ghigno inquietante che gli apriva la faccia in due? - e dai capelli d'oro come il leggendario e antico sole che ormai non esisteva più. Coperto dalle nebbie e dall'oscurità che il caos primordiale aveva creato nel mondo.
Ma a guardare la sua lunga chioma splendente ti saresti sicuramente ricordato dei raggi dell'astro del mattino, anche se eri nato senza averlo mai visto. Lui te ne offriva un pezzettino, prima di rubartelo, strappandoti i bulbi oculari dalle orbite. Era il genere di creatura capace di farlo. No, era il genere di creatura che adorava farlo.
Quello e molto, molto di più.
Yaakov e Qiana lo sapevano. Lo sapevano, lo percepivano, fin dentro all'epidermide, e le loro mani si stringevano forte avvertendo le dita sudate e appiccicose contro ai vicendevoli palmi. Sentendo gli arti tremare, e le ginocchia dondolare, e lo stomaco contorcersi, e la paura cantare. Si può cantare anche nei tempi oscuri? Sì. Si cantava per mostrare la tenebra nelle bocche. Si poteva ballare anche nei tempi oscuri? Sì. Si ballava grazie al tremore che faceva danzare le instancabili gambe. E la musica... La musica... Non si sentiva? Erano i ringhi, i grugniti, erano le urla e i lamenti, le oscenità e le bestemmie.
La splendida bestia - quella che nel futuro sarebbe stata conosciuta come il Redivivo - portava con sé le sue creature dagli occhi rossi, mostri che con le zanne snudate li fissavano entrambi, lasciando gocciolare la bava fino al suolo. Nel punto in cui la loro saliva toccava la terra brulla, altri esseri orribili ne uscivano, generati semplicemente da quella fame. Non era una fame umana. Era la fame di straziare, distruggere, depredare, dilaniare, stuprare qualsiasi umanità girasse ancora sulla loro terra.
Così le mostruosità nascevano, generate da se stesse, senza fine. Non avevano sempre un aspetto animale, neanche umanoide. A volte erano gli alberi, a volte la nebbia, a volte il cielo, a volte anche la terra sul quale camminavano. Era il mondo che avevano attorno, che li voleva divorare, che aveva zanne, artigli e il gusto dell'efferatezza. E i due gemelli sapevano che presto sarebbe toccato a loro.
Così Yaakov si girò a guardare Qiana, la sua bella sorella, un punto di riferimento solido in mezzo a tutto quel Caos, come una rupe alta e frastagliata al di là della tempesta, ad arginare ed impedire che l'uragano si diffondesse nel resto del mondo. Era bella con quelle sue lunghe onde corvine e quei suoi brucianti occhi giallo topazio. Sapeva di miele e acqua marina. Miele, acqua marina e castagne. Infruttescenza, campanelle e pelo di gatto. Sapeva di racconto di ninfe. Di ragazze-usignolo all'alba. Latte sulla punta della lingua di un gatto.
Sapeva di speranza.
Così si avvicinò a lei e la strinse fra le braccia. Se qualcuno li avesse guardati in quell'attimo tragico, avrebbe pensato a quanto potere, a quanto dolore, potesse avere un addio fraterno. Un'ultima stretta per ricordarsi di come era bello svegliarsi al mattino, uniti nella promessa di vivere in un mondo migliore, un mondo che non sarebbe mai venuto. Ma in un solo abbraccio c'era molto altro. Una tacita promessa, obnubilata dalla violenza che li circondava e che, poco dopo, li costrinse a fronteggiarsi con le armi alla mano, divisi dalla lotta alla sopravvivenza.
Un'ascia per lei, un pugnale per lui. Alla fine dei giochi, nessuno dei due fu il vincitore. E all'inizio degli orrori, il ragazzo era rimasto da solo, che camminava lungo un sentiero d'ossa verso il grande altare del mangia-uomini, del Redivivo, armato solo del suo coraggio e di una mano. Una mano amputata, che gocciolava sangue e seminava un sentiero cremisi dietro di lui, lungo e profondo, intenso e scarlatto, come la promessa che lui e sua sorella si erano fatti.
«Ho vinto, mio signore.» sussurrò una menzogna, la voce sottile come lo scroscio dell'acqua dentro ad una caverna. Si inginocchiò al suo cospetto, sentendo i mucchi d'ossa sotto alle sue gambe scricchiolare e spezzarsi in maniera inquietante. Piegò la testa verso il basso, non osando guardarlo, mentre al contrario le sue braccia s'innalzavano, porgendo all'essere, al sovrano di quel Caos, la mano di sua sorella, tagliata fino al polso. Ancora calda. Aveva l'impressione che si muovesse ancora dentro al suo palmo.
«A l z a g l i o c c h i , Y a a k o v .»
Non era nemmeno sicuro che avesse parlato. Lo aveva sentito dentro alla testa, oppure dentro al sangue, come un'antica malvagia pulsazione, un prolungamento del suo corpo. Non erano stati creati tutti da lui, in fondo? Sentii il corpo tremare spasmodicamente, ma fece come gli era stato detto. Alzò strenuamente gli occhi. E, immediatamente dopo, se ne pentì.
Era nella sua versione più bella. I lunghi capelli dorati, i paralizzanti occhi di ghiaccio. Gli sorrise, con un fare incoraggiante che invece di spingerlo a rilassarsi, lo preoccupò terribilmente. Non sapeva cosa aspettarsi, Yaakov, finché non vide il mostro spalancare la bocca. Ora mi mangia, pensò all'improvviso, col cuore in procinto di esplodere per la paura e il viso cianotico.
«A f f a t t o.» rispose al suo pensiero, mentre la bocca del Redivivo si allargava in maniera tanto grottesca che la mascella aveva raggiunto il suolo, allungandosi per almeno un metro. Una voragine nera e gigantesca incorniciata da labbra e denti. E dal buio della sua gola emersero una ventina di mani nere che afferrarono Yaakov con la forza e lo spinsero dentro alla bocca del mostro dagli occhi di diamante, che richiuse poi le labbra con scioltezza, come quando si chiude un tappeto, arrotolandolo. Di quel ragazzo dagli occhi di topazio non era rimasto niente.
O almeno, così vorreste credere, sperare in una morte semplice e pulita.
Invece il sovrano del Caos spirò dalle labbra una boccata di fumo pecioso, come se avesse inalato le ombre in una sigaretta e poi le espirasse lentamente. Il fumo si consolidò nella sagoma di un uomo fatto di tenebre, che pian piano riacquistava carnalità, forma, colore. E quando il suo ritorno nel mondo fu completo, ancora con le palpebre chiuse, si riempì i polmoni di buio, caos, fame. E seppe che era esattamente nel posto in cui voleva essere. Seppe che apparteneva a qualcuno.
Seppe, mentre apriva gli occhi dorati, che non avrebbe mai più avuto paura, perché aveva rimosso cosa fosse l'amore e non aveva più nulla da perdere.
***
Regno di Red Mask, qualche secolo prima
«C'è qualcosa che non va, Signor Hēi?» si limitò a mormorare Herminia per la terza volta, mentre sedevano insieme ai Signori dell'Oltretomba all'immenso tavolo sul pontile di Sangue. La luce del tramonto scintillava sul legno laccato color cremisi, disegnando sfumature rossastre sui volti di quegli esseri tanto potenti da farlo sentire un minuscolo granello di sale in mezzo al mare.
Lo sguardo della creatura dagli occhi di ghiaccio, insaziabile, possessivo, caotico, trafisse Hēi, posizionato proprio sulla sedia di fronte a lui, come se fosse il loro destino: fronteggiarsi sempre, in un amoroso odio collaborativo. Alleanze di lussuria e di sangue, di fame e di pazzia. L'imperatore, sotto al tavolo, sentì il piede dell'uomo sfiorargli il polpaccio superando l'orlo lungo del changshan di seta vermiglio. E salire, strofinandosi sulla sua coscia nuda e liscia in una lenta e lasciva carezza.
«... Niente.»
«C'è qualcosa che non va, Imperatore Hēi?» la quarta volta fu la Volpe a domandarlo, il ragazzino-negoziante che in realtà, bambino, non lo era affatto; era il proprietario della Pagoda Incantata, procacciatore di tesori e astutissima creatura. Lui quasi quanto Herminia avrebbe potuto notare la sregolatezza dei suoi comportamenti, negli ultimi tempi.
Fu spontaneo chiederlo per la Volpe, quando vide l'imperatore far scorrere le mani sull'impugnatura delle armi senza nemmeno estrarle per verificare e saggiare la lama.
Dentro alla sua testa, Hēi riviveva ancora quell'incontro. Aveva volontariamente inarcato il bacino la notte precedente, quando l'uomo dagli occhi di ghiaccio...
«Va tutto benissimo.» rispose meccanicamente, estraendo una katana dal fodero. Non si era nemmeno accorto di essersi ferito un dito.
***
Ora
La gondola dondolava gentilmente seguendo il corso del fiume, che grazie alle luci del perenne tramonto sembrava caramello fuso. Un movimento del polso e il remo affondava in acqua, facendo virare dolcemente l'imbarcazione lungo i canali svettanti e sinuosi, circoscritti da una rete di pagode galleggianti e minuscoli isolotti ospitanti ciliegi in fiore. Da lontano si intravedeva l'immenso palazzo di Red Mask, una pagoda a più piani, larga in basso che andava a restringersi fino all'ultimo piano a mo' di piramide, con una serie di carrucole laterali che pompavano e spostavano acqua come avrebbe potuto fare un mulino.
Lei era una delle poche che sapeva che cosa si nascondeva all'interno della pagoda, oltre all'ultimo piano conosciuto da tutti. Una delle uniche a custodire il segreto del castello di Red Mask. Era una di loro, perché un tempo era così vicina all'Imperatore Hēi da poter contare ogni battito delle sue palpebre e conoscere ogni piccolo pensiero. Eppure, ad un certo punto, aveva smesso di comprenderlo. Qualcuno si era messo in mezzo a loro, esattamente come quando erano stati divisi di nuovo molto tempo prima. Sembrava che quella sventura antica li perseguitasse. Anzi, era esattamente così. E poi lui se n'era andato, lasciandola lì, abbandonandola.
Non era giusto.
L'acredine che accompagnava quei ricordi si ritirò quando la Pagoda Incantata spuntò da un nugolo di case tutte con lo stesso stile architettonico, intinte di quel gusto orientaleggiante immerse nelle sfumature calde del rosso e dell'arancio. Il negozio magico verso cui era diretta lei si spalancava esattamente oltre il punto in cui il fiume sfociava in un piccolo bacino acquatico, spalancandosi a cerchio. Come un'unica zattera in mezzo all'acqua, dondolava leggermente senza però perdere la sua solidità come edificio.
Lei ormeggiò la gondola al pontile che proseguiva verso l'ingresso della pagoda, le cui scalette sprofondavano nell'acqua, allacciando la corda intorno ad uno sperone di legno lungo il sentiero che emergeva dal mare dorato-arancio, lentamente accarezzato dalle onde e quasi del tutto coperto in presenza dell'alta marea. Non c'era mai stato, però, l'odore di alghe o il sentore acquatico dell'umidità, quasi il paesaggio fosse fittizio, lo scenario di un teatro: c'era il leggero profumo di fiori di ciliegio e alberi di mandarino, miscelato a qualcosa di metallico simile al sangue. E' tutto rosso in questo mondo, tutto rosso, pensò. Come un'orribile prigione eterna di sangue.
Si aggrappò allo sperone del pontile e venne fuori dalla piccola imbarcazione che dondolava pericolosamente nell'acqua. Poi i suoi sandaletti di legno ticchettarono contro le scivolose scalette e proseguirono sul sentiero dello stesso materiale delle sue scarpe, solo più ammuffito. Non dimenticando di portare con sé la lanterna di carta piena di anime, che baluginavano all'interno come lucciole intrappolate in un barattolo. A volte le facevano pena... E a volte pensava che sarebbe stato meglio uccidere di più per averne. Le anime le servivano per arrivare dove voleva. Anime, merci di scambio, soldi... In qualsiasi modo potessero essere chiamate, le volevano tutti.
Si fermò dinnanzi alla porta tempestata di coralli rossi e poi impugnò la maniglia a forma di mano insanguinata - sembrava quasi che per aprire l'ingresso dovessi presentarti ogni volta a qualcuno, con le tue dita strette in quelle finte di marmo - e la girò. Spalancato l'uscio, l'odore di incenso al sandalo le colpì le narici come tutte le volte, piacevolmente stordente. Ignorò i cuscini ricamati d'oro che tappezzavano il pavimento d'ingresso per fungere a sala d'aspetto; fece lo stesso con le gabbiette appese al soffitto e coperte da stoffe, che nascondevano silenziose anime inquiete, come anche la scaffalatura che esibiva una serie di maschere rosse di varie forme e stili.
Si tolse i sandali lasciandoli davanti alla porta chiusa e poi, scalza, proseguì fino al bancone, dietro cui si trovava un ragazzino con una maschera scarlatta da volpe a celargli l'intero volto, da cui spuntavano capelli bianchi come la neve. Sicuramente era in piedi su uno sgabello, altrimenti non sarebbe mai arrivato all'altezza del bancone. Calpestando un tappeto dopo l'altro, gettando solo una brevissima occhiata alle rastrelliere colme di katane, wakizashi e dao, raggiunse finalmente il negoziante.
«Bentornata, Heminia.» esordì lui, il tono piatto quanto astuto, per nulla innocente o puro come avrebbe potuto esserlo quello di un bambino.
«Sssh. Lo sai che non mi piace quando dici quel nome. Non è mio. E' solo una copertura.» si corrucciò lei, guardandosi intorno come temendo di essere sentita da qualcuno, qualcuno che temeva. Volpe si limitò ad un sorriso criptico da dietro alla maschera. «Hai tutto quello che ti ho chiesto?»
«E anche di più.» disse lui, accucciandosi sotto al bancone per recuperare un involucro di carta marrone, simile a quella che persone normali avrebbero usato per avvolgerci il pane, poi lo allungò alla ragazza, che si sollevò le maniche a campana dell'abito per scoprirsi il braccio destro.
«Ti conviene che sia della mia misura, stavolta...» bofonchiò lei, afferrandosi la mano destra con la sinistra per tirarsela via. Letteralmente. Ma tanto quella che aveva al braccio era solo una mano finta... Con la magia riusciva a muoverla quasi fosse vera, ma non aveva sensazioni legate al tatto, perché non le apparteneva. E poi, stava incominciando a dondolare e cigolare in maniera strana, come se si fosse rotta. Insomma, le serviva una nuova mano. Per cui, quando srotolò il pacco che Volpe le aveva consegnato, si ritrovò davanti una mano del suo stesso colore di pelle, morbida al tatto ma cava all'interno, grazie al quale poterci infilare il polso e far unire i lembi di carne. La magia avrebbe fatto il resto.
Saggiò quindi l'arto nuovo di zecca muovendo le dita, chiudendo e aprendo un pugno. «Mmh.»
«Come ti sembra?»
«Passabile.» Molto più che passabile, ma se avesse mostrato più soddisfazione sicuramente la Volpe avrebbe infierito sul prezzo. «E il resto?»
Un breve attimo di silenzio, enfatico quasi, prima che il ragazzino recuperasse dal magazzino tutto ciò che la sua cliente aveva richiesto, molto tempo prima. «Non sai...» disse dalla stanzetta vicina, prima di emergere dalla porta del magazzino. «... Quanto sia pericoloso recuperare l'acqua del Lete senza dimenticarsi ogni volta il motivo per cui si è arrivati lì... Come il proprio ruolo nel mondo o il senso della nostra non-vita.» Appoggiò una boccetta al centro del bancone, tappata alla perfezione. Nemmeno una goccia avrebbe dovuto uscire, o chissà cosa sarebbe successo. «Mi dovrai un bel po' di anime per questo.»
L'altra alzò gli occhi al cielo. «Ti pagherò quanto ti devo non appena avrò tutto.»
Ma Volpe non si fece pregare. «Ecco.» Un ultimo, minuscolo barattolo di vetro, che conteneva qualche frammento di piuma. «Direttamente dalla bilancia di Thot.» si accarezzò il collo, lì dove i lembi di un morso rossastro andavano cicatrizzandosi. «Ammit se n'è accorta e mi ha fatto male.» borbottò con tono lamentoso, massaggiandosi la pelle ferita. «Per un soffio non mi sono trasformato in anima...»
«Bando alle ciance, funzionerà?» domandò Herminia, del tutto insensibile alle lamentele del negoziante, che erano solo l'ennesima strategia per fregarle denaro. Era perfettamente capace di essersi disegnato da solo il morso, o magari aver ordinato a qualcuno di farlo. Il ragazzino era esattamente quel genere di negoziante, lo conosceva da troppo tempo per non saperlo.
«Esattamente come ha funzionato su di te un tempo!» esclamò, fin troppo pimpante nel sapere che i suoi intrugli magici funzionavano ad arte.
«Sì, il mio nuovo aspetto è rimasto invariato da allora, ma... C'è il rischio che torni com'era prima?» domandò lei, sinceramente preoccupata per l'evenienza. Non poteva sbagliare di nuovo.
«Mmhh» il bambino fece per pensarci. «Con l'acqua del Lete? No. C'è solo una minuscola possibilità...»
«Quale?!» per poco Herminia non gli saltò al collo.
«E' molto, molto raro. Quasi impossibile.» si affrettò a risponderle. «Ma se qualcuno della sua vecchia vita dovesse tornare e provocargli un impulso forte...» Rabbia, odio, amore. «... Tutto tornerà esattamente come prima.» Una breve pausa prolungò l'attesa verso il resto della frase. «Ma sappiamo benissimo entrambi che l'Oltretomba tiene sempre lontano chi era unito nella vita.» Sospirò. «Puoi stare tranquilla, Herminia.»
«Mphf.» lo fulminò per un brevissimo istante. «Bene, ora è arrivato il momento che aspettavi tanto.» Per pagarlo, finì per svuotarsi la lanterna fino all'ultima anima. Ma non le importava. Presto il suo piano sarebbe stato completo e tutto ciò per cui aveva lottato, tutto il dolore e il senso d'abbandono, se ne sarebbe andato per sempre. Si voltò verso l'uscita, con una busta piena dei nuovi acquisti e la mano nuova di zecca già indossata, finché la voce di Volpe non la fermò.
«Perché sei così ossessionata dall'ex Imperatore Hēi? Che bisogno hai di creare un suo duplicato?» chiese, sinceramente incuriosito dagli intenti fin troppo chiari dell'altra. «Non è molto giusto, sai?»
Herminia si voltò a guardarlo da sopra una spalla, con un sorriso sarcastico e sprezzante. «Siamo tutti morti, e ti chiedi ancora cos'è giusto e cosa sbagliato?» soffiò una risata bassa e acidula.
«Non fraintendermi. Puoi fare quello che vuoi con quel tipo.» disse, assolutamente senza scrupoli. «E' per il regno che mi preoccupo. Vuoi sperare che a guidarlo sia un fantoccio. Che succederà se l'acqua del Lete smetterà di funzionare e ricorderà? Ti abbandonerà e mollerà il regno.» fu facile parlarle con franchezza, ora che aveva intascato il suo compenso.
«Ti sbagli. Ho tutto sotto controllo.» Ne era certa. «E ciò che è successo fra me ed Hēi non ti riguarda affatto.» fu l'ultima cosa che la ragazza disse alla volpe, sbattendosi la porta alle spalle. In ogni caso, per avere tutto sotto controllo, pensò subito ad una cosa: avrebbe dovuto far sparire tutti quei ragazzini biondi che infestavano gli appartamenti di quel tizio. Non voleva certo rischiare che gli ricordassero qualcosa del passato.
***
Letto cigolante, lenzuola scomposte, cuscino sgualcito.
Una matassa di capelli biondi si confondeva fra la seta rossa del mio baldacchino, il viso semi-nascosto dai lembi della coperta come gli avevo ordinato di fare, mentre il resto del corpo nudo si intrecciava intorno al mio bacino. Le cosce toniche mi serravano la vita e i suoi glutei si aprivano a ventaglio per ospitare ogni mia singola spinta, ancora e ancora, irrefrenabilmente.
«Mmhh.. Aah sì..» ansimò, ma io dopo poco gli tappai la bocca, pur con delicatezza, senza nessuna esagerata violenza che non fosse quella per cui l'altro era stato pagato.
Sospirai di piacere, gli occhi chiusi e colpi di reni martellanti che si muovevano, ancora e ancora, mentre con la mano libera gli tenevo sollevata una coscia reggendogli un ginocchio. Era appagante per il mio fisico, ma c'era qualcosa... Qualcosa... Che non mi piaceva. Qualcosa che mi lasciava scontento. Qualcosa che mi innervosiva, mi rabbuiava, mi incattiviva.
All'improvviso sentii il desiderio di scaraventare quel tizio fuori dalle mie stanze, anche se ero prossimo a raggiungere l'orgasmo, mentre l'altro era già venuto sporcandosi il petto e macchiando le lenzuola. Strinsi i denti, costringendomi ancora a qualche altra spinta. E chiusi gli occhi, immaginandomi di avere fra le mani un corpo diverso da quello: sinuoso, con la pelle di velluto e le zone più sensibili rese rosa come caramelle da leccare. I capelli biondi che profumavano di zucchero e il collo sottile come un giunco. La sua voce... le sue mani... Immaginai di averle addosso e, un breve istante dopo, riversai tutto il mio piacere all'interno del corpo di quel gigolò che sembrava apprezzare la situazione molto più di me.
Non ero ancora scivolato fuori che la porta si spalancò all'improvviso.
«Ma che cazzo?!» Mi coprii le parti basse con le lenzuola, lanciando uno sguardo furioso verso l'uscio aperto, da cui spuntò l'odiosissima ed inconfondibile figura di Herminia, con tanto di vassoio in mano. «Porco...» soffocai un'imprecazione mordendomi la lingua. «Ma devi venire sempre a rovinarmi la festa tu?!» sospirai pesantemente, cercando di calmare la mia ira. «Herminia... Esci subito o giuro che ti scaravento giù dalla finestra.»
Lei fece uno dei suoi sorrisi scaltri e si infiltrò nella mia stanza, lasciando il vassoio su un comodino mentre tirava con forza il gigolò che avevo già pagato in anticipo per il braccio, strattonandolo fino all'uscita. «Vattene di qui e non farti mai più rivedere.» sibilò lei al ragazzo, che impallidì e sgusciò via. Sospirai, sconsolato. Lui non avrebbe mai fatto così, comunque... Era fallimentare sin dall'inizio.
«Non ho detto che avevamo finito.» ringhiai verso la donna, che chiuse la porta dei miei appartamenti con un tonfo appena percettibile.
«Io dico di sì.» cinguettò lei, mentre io già mi alzavo infilandomi un paio di pantaloni a sbuffo, all'infastidita ricerca di un altro mezzo di distrazione: cercai nei comodini, sugli scaffali, nell'armadio, sotto al letto, perfino fra il materasso e la rete. Niente di niente. «Se stai cercando l'oppio, l'ho fatto sparire.» Oh, stavolta era realmente la sua fine. Mi voltai verso di lei, petto nudo e un velo di sudore per l'attività frenetica che stavo facendo fino a qualche secondo prima. «Ehi ehi, prima di arrabbiarti, ascoltami... Lo sto facendo per te, d'accordo? Devi almeno impegnarti per condurre un'esistenza de-»
Scaraventai un comodino a terra, frantumandolo in mille pezzi. «QUESTA NON E' ESISTENZA!» urlai, con tutto il fiato che avevo in corpo, mentre lei allontanava il vassoio per evitare che distruggessi anche quello.
«LO SO!» mi urlò in risposta, con altrettanta rabbia. Che io però non capii. Cosa aveva perso lei? Non poteva capire. Non avrebbe mai potuto. «E' per questo che ti sto dicendo di diventare imperatore! Potresti fare qualcosa di migliore che distruggerti fino a morire di nuovo!» Stavo per ridurre in trucioli anche qualcos'altro, ma poi mi fermai all'improvviso quando continuò: «Se avessi tutto quel potere, potresti perfino riuscire a raggiungerlo!»
Potresti perfino riuscire a raggiungerlo. Raggiungerlo.
La frase riecheggiò mille volte dentro alla mia testa, martellandomi da un lato all'altro del cranio. Caddi a sedere pesantemente sul letto, riprendendo fiato, ancora scosso per tutta la rabbia che mi aveva consumato fino ad un attimo prima. Il bisogno dell'oppio, però, restava.
«... Dimmi cosa devo fare.» Non ero ancora convinto, ma se c'era anche solo una possibilità... Non era nemmeno detto che riuscissi a diventarlo come sperava lei. Quindi avrei potuto fare un tentativo. Non avevo più nulla da perdere, ormai. Nessun altra carta da giocarmi.
Herminia, finalmente, sorrise. «Ti spiegherò tutto ciò che devi sapere sul labirinto del Fengdu.»
«Fengdu...?» Aggrottai la fronte.
«Pensavi che questo regno si chiamasse sul serio Red Mask?» emise un risolino, davanti al quale assottigliai gli occhi. «E' solo gergo. Questo mondo... questo.. Altrove.. si chiama Fengdu.» Si alzò, appoggiando il vassoio sul letto nello spazio creatosi fra me e lei. Solllevò una campana di rame rossa, mostrando sotto di essa due calici di vino frizzante. Osservai la scena, palesemente confuso. «Prima però, beviamo.» La scrutai scettico. «Non è solo per festeggiare... Il tuo calice ha un piccolo bonus.» Sorrise. «Ti fortificherà per la prova. Non sai quanto l'ho pagato dalla Volpe.» Quindi il piccoletto poteva garantire?
Afferrai lo stelo di vetro del bicchiere, facendo roteare il liquido vermiglio sotto al mio naso, un po' stranito. «Se non sapessi che vuoi farmi diventare Imperatore a tutti i costi, penserei che tu stia provando ad avvelenarmi.» osservai, sospettoso, eppure con un ghigno sardonico stampato sulla faccia.
«Ptff, certo, come se ci guadagnassi qualcosa ad avvelenare un tipo come te.» commentò con un sorrisetto, facendo scontrare i calici per portarsi il proprio alla bocca. Sull'onda di quel pensiero - potresti perfino riuscire a raggiungerlo - mi portai l'orlo alle labbra e trangugiai il contenuto. Un attimo dopo, il calice mi cadde dalla mano, frantumandosi a terra in una miriade di pezzettini.
Caddi carponi sul pavimento, afferrandomi la gola, che pungeva come se avessi inghiottito una spina di salmone. L'aveva fatto sul serio. Mi aveva realmente avvelenato. «S..tro..nza.» mugolai, sudando freddo mentre mi accucciavo in posizione fetale, il volto piegato verso la donna che ora mi guardava dall'alto del letto con un sorriso di malevolo trionfo stampato in faccia.
Oh. Non l'avrei mai piu rivisto.
L'orribile realizzazione precedette il buio. Avrebbe potuto essere passato un attimo. Un secondo, un minuto o forse un mese intero. Eppure, quando mi risvegliai, tutto era cambiato. C'era un bicchiere frantumato a terra e una donna seduta sul letto che mi fissava con uno sguardo addolorato sul viso, che si catapultò per aiutarmi a sollevarmi dal pavimento.
«Ohi... Stai bene? Dimmi che stai bene...» sussurrò, il tono di voce allarmato, che io ignorai, mentre barcollavo per stare in piedi e camminare. La sconosciuta mi accompagnò verso una grande specchiera a muro, circondata da dragoni a sbalzi e bassorilievi.
«Chi sei tu..?» biascicai, stupito dal fatto stesso di saper parlare. Le parole si formavano da sole da dentro alla mia bocca, in una maniera scioccante ed incantevole. Sapevo parlare, sapevo camminare: ma che altro sapevo fare? E soprattutto, c'era ancora una domanda che mi crucciava. «Chi sono io?»
Poi mi guardai allo specchio e le cose mi sembrarono almeno un po' più chiare. Dall'altro lato del riflesso mi guardavano un paio di occhi gialli come topazi, resi penetrati da lunghe ciglia nere. Un naso dritto e labbra carnose erano incorniciate da capelli neri come la notte, lunghi abbastanza da poter essere chiusi con un codino sulla nuca.
Ecco... Ecco chi ero. Non l'avrei più dimenticato.
***
*NDA - Un angolo stranamente puntuale*
Hola!
Come sempre, se non sono le cinque di mattina non finisco mai di scrivere un capitolo. E' tipo... un prerequisito obbligato per le mie pubblicazioni XD però ci tenevo davvero a pubblicare, perché avevo veramente tutto il capitolo sulla "punta della lingua" (delle dita diciamo) e andava veramente scritto, prima di dimenticarmene! Sì, sono stupita anche io dalla mia velocità... In ogni caso, immagino che questo capitolo avrà confuso un sacco di gente. Yay! Presto o tardi ci sarà una spiegazione a tutto quanto, non temete.
Ma A-PROPOSITO! Ho scritto anche un annuncio nella mia bacheca, ma visto che non spesso vengono notati, lo chiedo anche qui: preferite le vecchie copertine, oppure quelle nuove? Perché io sono molto indecisa, ma se scelgo di rimettere le vecchie di sicuro faccio qualche miglioramento a livello di scrittura del titolo. Oppure tengo queste? Mi servono pareri!
Dopo questo inutile sproloquio, non posso che salutarvi e dirvi che ci becchiamo al prossimo capitolo, bye <3
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