3. L'Assassino e il ricordo
«Il ricordo è l'unico paradiso dal quale non possiamo venir cacciati.»
- Jean Paul
Era una di quelle solite giornate nella Fortezza dell'Assassino, una di quelle in cui allenarsi non era mai abbastanza. Non finché Alaister Noir era nei paraggi. In effetti, non ero troppo cosciente che lui fosse lì, nelle mie vicinanze, ma si trovava sicuramente dentro all'enorme sala allenamenti.
Tuttavia, ero talmente preso dal mio, di allenamento, che in quell'istante non ascoltavo niente se non il suono minaccioso del vento. Sembrava ricordarmi che in qualsiasi momento correvo il rischio di cadere, pur non volendolo, non ancora. La verità? Era una questione mentale. Era piuttosto improbabile che cadessi davvero. La cadute che temevo, erano altre. Come ad esempio quelle della mia reputazione: essere Sfavillo richiedeva una preparazione totale su tutto. Non mi sarei permesso di essere fuori allenamento, ovviamente.
Nonostante fossi in una posizione complessa, le gambe non tremavano, anzi, erano perfettamente tese, con i piedi puntati come un infallibile atleta o ballerino, divaricate, mentre mi reggevo su una sbarra di ferro piazzata circa due metri e mezzo dal suolo, tenendomi con tutti i polpastrelli, cercando di non tremare e di restare perfettamente immobile, gli addominali ovviamente contratti, il volto imperturbabile se non per le sopracciglia appena aggrottate dallo sforzo. Il respiro però iniziava pian piano ad accelerare, perdendo il suo ritmo regolare ed impercettibile man mano che i secondi scorrevano.
Eppure, avrebbe potuto benissimo passare qualcuno sotto di me e non gli sarebbe capitato nulla: mi reggevo ancora, saldo, fermo. Non c'era da sorprendersi troppo che fossi in grado di tali sforzi, dato che negli anni precedenti il Re degli Assassini stesso si era premurato di darmi delle adeguate lezioni.
Se si pensava poi che erano già passati sei anni, diventava tutto ammissibile ed intuibile.
Ma più i minuti passavano, più le braccia iniziavano a tremare, le dita coperte da un velo di sudore a scivolare dall'appiglio troppo liscio, le gambe a perdere la loro compostezza. Così, dovetti soccombere alla fatica e richiusi le gambe, molleggiandole un paio di volte prima di atterrare sul morbido tappetino steso sotto di me, in piedi.
Rimasi in quella posizione per qualche minuto, intento a sgranchirmi le braccia indolenzite e affaticate - nonostante non pesassi poi questo granché -, giusto il tempo di riprendermi prima di sentire una voce inconfondibile alle mie spalle, verso le grandi finestre verticali che si distendevano ampie sulla parete di pietra. Ed eccolo lì, Alaister Noir, terrore di tutti i suoi nemici, oscura fiducia di tutti i suoi alleati.
Sembrava che avesse finito anche lui di allenarsi, o meglio, di insegnare tecniche piuttosto faticose a qualche assassino sparso per la stanza, perché non indossava la solita casacca morbida infilata nei pantaloni, ma se ne stava a torso nudo, un velo giustificatissimo di sudore a rendergli la pelle diafana appena traslucida, la linea perfetta dei muscoli scolpiti dal tempo e miscelati a qualche sporadica cicatrice che si distendeva lungo il corpo non troppo maturo, ma neanche tanto giovane quanto il mio.
I capelli corvini, solitamente raccolti in quell'elegante e preciso codino basso, impreziosito giusto da qualche ciocca ad incorniciargli un lato del volto, oggi non c'era: solo i capelli sciolti, morbidi, scarmigliati come a simulare la fatica di una battaglia, non per forza qualcosa che riguardasse una guerra. Meglio, la fatica di un assassinio, di quelli che come obiettivo avevano qualcuno di preparato, difficile da fare fuori.
I pantaloni aderenti alle gambe slanciate e tornite, gli stivali pratici per questo tipo di situazione, e poi il viso sempre attento ad ogni dettaglio. Ad ogni cosa che quei paralizzanti occhi gialli da alligatore fissavano, o forse più come quelli di un'aquila, capaci di vedere fin troppo lontano, benché la pupilla stretta facesse pensare più ad un rettile velenoso.
«Sei minuti.» esordì, con quel solito timbro di voce profondo, misurato, come se non andasse sprecata una parola in più o una in meno. Un certo gelo traspariva da quell'unica e secca frase mentre, con le braccia incrociate, scandiva ogni suo respiro ticchettando lentamente su di esse. Le dita lunghe e affusolate ogni tanto si fermavano, si serravano attorno all'avambraccio, indugiavano in un'attesa che dava la parziale illusione di calma, una calma apparente.
Non si poteva mai sapere con Alaister Noir.
«Hai idea di quanto siano pochi...» continuò, mentre la postura apparentemente rilassata, con la spalla destra poggiata all'incavo della finestra per rendere sbilenco il suo corpo, si scomponeva per farlo tornare dritto. Come uno di quei teatranti che per stare perfettamente tesi si immaginavano di essere tirati dalla testa grazie ad un filo invisibile. Ecco, mi aspettavo ogni tanto che un filo gli si palesasse dalla testa. «... sei minuti?»
Ripeterlo non faceva che rendere più dura quella che aveva tutta l'aria di essere una critica. Ma non c'era bisogno che me lo rendesse chiaro e conciso: si capiva benissimo anche così. Dal solito gelo con cui fissava ogni cosa che lo circondava, ed in particolare me. Mi aspettavo che crescessero stalattiti sui muri, e non osai muovere nemmeno un muscolo quando iniziò a camminare nella mia direzione con la stessa eleganza di una pantera, con lo stesso sguardo letale di un predatore.
«Dovresti sapere piuttosto bene che un assassino deve essere capace di rimanere appostato a fissare il suo obiettivo per ore.» disse, fermandosi alle mie spalle, ed anche se non potevo vedere i suoi occhi, sentivo la sua presenza in modo terribilmente vivido. Comunque, non avevo alcun dubbio sul fatto che Alaister fosse capace di rimanere appeso ad un cornicione per oltre due ore a fissare qualcuno.
«Lo so, infatti.» ribattei, alzando il mento col mio solito cipiglio arrogante, benché facessi sempre molta attenzione al modo in cui mi esprimevo, col Re degli Assassini. C'era ben poco per cui fare i saccenti, con lui.
Specialmente perché, quando iniziò a far scivolare le mani lungo la mia pelle, avvertii in maniera brutale un lungo brivido elettrico che mi attraversò da capo a piedi: le dita tastavano gli addominali, saggiandoli attentamente, scorrendo sul ventre con un'aria meticolosa che decisamente non annoverava il rossore sulle mie guance. Sperai che non lo notasse. Ma ogni cosa che faceva Alaister, specialmente quando mi guardava dritto come se mi scrutasse nell'anima, o quando mi toccava con una tale concentrazione, mi faceva venire la pelle d'oca ed una specie di lungo brivido fin dentro alle scarpe. Era una fortuna che fosse di spalle: per lo meno non avrei visto quel fisico scolpito che sfoggiava piuttosto di rado.
«Dovresti insistere sugli addominali.» Le mani scivolarono via, mentre con un paio di singoli passi tornò di fronte a me, che ingoiavo un groppo bloccatomi in gola.
«C-certo. Ovviamente.» mi posai le mani sui fianchi, con una finta aria di nonchalance. «Lo faccio già parecchio.» cercai di giustificarmi, sollevando appena le sopracciglia, ricevendo in tutta risposta un'occhiata gelida, tipica di lui.
«Allora devi farlo molto di più.»
Quelle furono le sue ultime parole, prima di vederlo allontanarsi, e di seguire con uno sguardo vagamente languido il tratto netto delle sue scapole, finché qualche altro assassino non mi coprì la visuale, agitando un paio di sciabole. Sospirai, piano, senza neanche accorgermene. Qualcuno lo fece al posto mio.
«Hai bisogno del fazzolettino per pulirti la bava?» Ovviamente, l'ultima persona che avevo intenzione di incontrare era proprio lì ad osservare tutto come un maledetto spione. Non seppi dire se mi dava più fastidio il suo tono beffardo, la frase di per sé, o semplicemente quella bellezza che ostentava attraverso il paio di fossette sulle guance ogni santa volta che sogghignava.
«Yul Pevensie!» ringhiai, voltandomi a guardarlo con le palpebre strette. Lo sapevo benissimo quanto fosse invidioso di me, del mio primo posto come protetto di Alaister, della mia fama. Non faceva che palesarmelo con tutte le sue inutili battutine idiote. «Perché non lo usi tu il fazzolettino, così te lo ficchi in bocca e stai zitto?» Mi premurai di lanciargli un'occhiataccia, facendo assoluta attenzione a non guardare il suo corpo.
Forse era perfino peggio che col Re degli Assassini. Non sapevo quale fosse il problema, ma il modo in cui i suoi profondi occhi blu, scuri come la notte più intensa eppure accesi come se fossero popolati da milioni di stelle, mi scrutavano, era più profondo. Più intenso, più coinvolto. Era tutto di più. E per questo lo odiavo. Odiavo quella fila perfetta di denti bianchi come perle che si palesavano fra le sue labbra carnose ad ogni ghigno. Odiavo quelle stesse labbra carnose. Odiavo lui perché... Perché non riuscivo ad odiarlo fino in fondo. Nonostante i mille modi che usava per farmi arrabbiare, indispettire, per indebolirmi e mostrarmi ridicolo agli occhi di Alaister.
«Scusa, forse preferisci un dipinto autografato.» Si avvicinò abbastanza da inclinarsi verso il basso per colmare la differenza d'altezza. Poi, mi rivolse un occhiolino scaltro ed insopportabile, che mi permise di osservare le ciglia rosse e cupe come i suoi capelli. «Se vuoi vado a chiederglielo, sono sicuro che per il caro Sfavillo farà questo ed altro.»
Allungai svogliatamente il braccio in avanti, deciso a dargli una sberla alla testa, ma come ci si sarebbe aspettato schivò con un guizzo rapido del corpo. Così veloce da non lasciare dubbi sulla sua bravura, e sulla nostra carriera. Certo, non eguagliava la mia velocità. Era riuscito a schivare soltanto perché non volevo colpirlo per davvero.
«Ma fatti gli affaracci tuoi, stronzo.» sbraitai, alzando il mento pur di guardarlo dritto negli occhi: i miei, di ghiaccio, e i suoi, del blu più oscuro. Due perfetti estremi dello stesso colore. E a quel punto si raddrizzò. Il ghigno sulla faccia scomparve rapidamente, quasi sul volto gli fosse calato un velo torvo ad incupire tutta la sua espressione.
«Non posso.» Inclinò il capo di lato, stringendo appena quelle labbra perfette, e guardandomi con un'espressione strana. Disarmante, avrei detto, come se fosse stato sconfortato da qualcosa. Ed ecco che m'afferrò per il polso, con un guizzo abbastanza inaspettato che non fui capace di prevederlo: se c'era un'abilità in cui mi superava senza alcuna via di mezzo, era la forza. Indubbiamente quella.
Ecco perché quando mi sbatté contro il muro della sala addestramenti, non potei far altro che subire la cosa, ma non senza guardarlo nella maniera peggiore possibile. Eppure, lui sbattè una mano contro il muro. «Dev'essere perché ti amo.»
Strabuzzai gli occhi, sfarfallando le lunghe ciglia d'oro completamente colto di sorpresa. E poi, all'improvviso mi accorsi che non eravamo affatto nella sala addestramenti. Non eravamo neppure nella Fortezza dell'Assassino. Eravamo... Altrove. No, in un posto migliore che un semplice ed indefinito "altrove".
Eravamo a casa.
Casa nostra. Riconoscevo in lontananza il nostro divano imbottito, il nostro tavolo rotondo di legno di quercia, il nostro camino che rendeva tutto accogliente. Riconoscevo perfino i banconi della cucina contro cui mi aveva sbattuto, appoggiando le mani ai lati dei miei fianchi per evitare che sfuggissi dalla presa. Ma non volevo sfuggire. Non c'era altro luogo dove mi volessi trovare o altre braccia al mondo da cui voler venir strette. Yul era... Il posto perfetto e il momento perfetto, in un mondo perfetto.
«Al diavolo quel bastardo di Alaister...» Sussurrò, vicino al mio viso, strofinando piano il naso contro al mio, morbidamente, come due gatti che si fanno vicendevolmente le fusa. «Non pensarci più.» Mi sussurrò, vicino alle labbra, soffiando il fiato morbido e caldo che ricordava tanto il sapore delle sue labbra, quell'inconfondibile ed improbabile mistura di menta e caramello, abbastanza lento da farmi scorrere un brivido su tutto il viso. E il collo. E poi giù, su tutto il corpo, a rivivere il ricordo di ogni suo bacio, di ogni suo tocco, di ogni movimento della sua lingua. Di ogni volta che entravamo in simbiosi col fisico, con l'anima, con il ritmo dei respiri, col battito dei cuori. Dio, quanto lo amavo.
Non ne feci un mistero quando le mie labbra incontrarono le sue, o quando le mie gambe s'incastrarono un poco fra le sue. Nello schiudere la bocca, o forse nel sentire il lezioso incedere delle sue dita sulla spina dorsale, lasciai andare un lungo sospiro: ma poi mi concentrai solo in quel bacio, e non potei che arpionarmi alle sue spalle, che far intrecciare le nostre lingue in qualcosa che non aveva nulla di volgare. C'era solo... Amore. Desiderio intenso e puro l'uno per l'altro. Completamente diverso da qualsiasi cosa avessi mai provato per chiunque altro. «Hel...» Si separò per qualche istante, mormorandomi quelle parole contro al mento, alle guance lisce.
«Io... Voglio rimanere per sempre con te.» Un vago sorriso ad arricciargli le labbra, che mi riscaldò il petto. «Proprio come ora.» Non so per quale ragione, ma una sincera e dolce risata mi partì da dentro al petto, delicata.
«E' facile...» Abbassai le palpebre in uno sguardo rilassato, posando la fronte contro la sua «Finché rimaniamo insieme.» Era davvero così semplice. Mi bastava che fosse sempre con me, e nulla sarebbe andato storto. Non ci sarebbe stato alcun Re a metterci i bastoni fra le ruote: non temevo né quello di Darlan, né quello degli Assassini, finché lui era con me.
«Hai ragione.» rispose, esibendo il solito ghigno spassionato, divertito, compiaciuto. E se all'inizio mi dava fastidio perché pensavo che lo usasse per irritarmi apposta, avevo finito per innamorarmi anche di quello. «Per sempre.»
Le mie labbra formarono lentamente quella parola, declinando le lettere del "Per Sempre" mentre le luci nella cucina si spegnevano, in un decrescendo d'oscurità. E poi si spensero anche quella della città, fuori dalla finestra. E il fuoco dentro al camino. Finché non rimase soltanto un buio tenebroso ed opprimente, ed il vuoto fra le mie mani.
Eh? Mi guardai intorno, confuso, ma mi resi velocemente conto che ero solo, in quella nerastra coltre di vuoto. Non c'è nessuno qui. Soltanto io.
Eppure, aguzzando lo sguardo, m'accorsi di un'inconfondibile macchia rossa, capelli scuri, una figura alta e ben piazzata, le spalle larghe. «Yul!» Allargai un sorriso, mentre lui se ne stava di spalle a guardare qualcosa che, probabilmente a causa del buio, io non riuscivo a vedere. «Yul...?» Mi bastò avvicinarmi un poco. Mi bastò poggiare una mano sulla sua spalla, e lui si voltò molto lentamente.
Fino a crollare fra le mie braccia, collassando, con gli occhi spalancati e vuoti e le labbra schizzate di sangue. E la camicia intrisa di rosso.
Rimasi a fissarlo con gli occhi spalancati, sgranati, il sorriso ormai morto sulle labbra. E poi il viso sollevato quel tanto per incrociare degli occhi cupi e spiritati, di un ghiaccio profondissimo e paralizzante. Talmente disumani e spietati da mozzarmi il fiato. Gli occhi del Re di Darlan.
«Ah!»
Spalancai gli occhi all'improvviso, tutto d'un colpo, con un respiro intensissimo. Come se mi avessero appena riportato in vita da una morte lenta eppure pacifica. Attorno a me c'era il bosco, enorme, rigoglioso, silenzioso se non per i costanti versi degli animali notturni. Eppure così terribilmente solitario da sembrarmi agghiacciante, spettrale, come quel buio che mi aveva sopraffatto in sogno.
Scattai rapidamente in piedi, ignorando il profondo capogiro che mi colse all'improvviso, accorgendomi passivamente del mantello caldo che mi era stato avvolto tutt'intorno, un mantello che non m'apparteneva. Immediatamente investito da un senso di angosciante paura nello stomaco, di ansia, mi guardai intorno in cerca di qualcuno. Qualcosa. Qualsiasi cosa mi potesse ancorare in questo mondo, in questo momento. Qualsiasi cosa che reprimesse il mio urlo lacerante intrappolato dentro allo stomaco.
Tanto che mi guardai a destra, a sinistra, supplicante, dolorante, provato da un profondo male fisico ma soprattutto mentale. Ogni cosa, in me, faceva male. Ogni arto. Ogni ricordo.
Poi, finalmente, un fruscio fra le foglie che mise in allarme il mio istinto d'assassino: la testa scattò verso quel punto, gli occhi stretti in due fessure micidiali, come a prepararmi mentalmente per l'arrivo di una guardia di Ender, pronta a portarmi via verso il palo della fustigazione.
Invece non era nulla di tutto ciò. Il misterioso uomo dai capelli argentei, terribilmente alto, scostò delicatamente i rami di un albero e avanzò verso di me quasi con cautela, sbattendo lentamente le ciglia candide per la sorpresa nel guardarmi.
«Oh, ti sei svegliato.» Forse avrebbe dovuto avere paura di Sfavillo, nonostante fosse stato proprio lui ad avermi salvato. Invece... Dal viso non sembrava affatto. «Sei svenuto per un po'.» spiegò, mentre si avvicinava tenendo nella mano una grossa foglia, in equilibrio. «Scusa, ero andato a cercare dell'acqua.»
Quando lo fissai dritto negli occhi violacei, non mi chiesi chi fosse. Non mi domandai quale fosse il suo nome, come conosceva il mio, perché mi avesse salvato, né come avesse fatto a fare quella strana magia per trasportarmi in un lampo fuori dai cancelli di Ender. «Così potrai bere.» Mi venne soltanto in mente una frase che mi tolse il fiato, che mi penetrò nella mente e mi colpì forte, duramente, schiacciandomi il cuore in una morsa di ferro, come se fossi stato appena pugnalato. Come se fossi appena stato rinchiuso ad Ender, invece che liberato.
Yul è morto, devi accettarlo!
Le lacrime mi scoppiarono inaspettate sul viso, distorcendo la mia faccia in una smorfia di dolore così intensa che spalancai la bocca. Eppure non riuscivo neppure a singhiozzare, perché era difficile respirare. Non ci riuscivo.
Perché la consapevolezza di non avere più niente era più forte di qualsiasi altra cosa. Quella casa con quel tavolo di quercia rotondo, quel camino accogliente, quel divano azzurro, quelle pareti su cui spuntavano ogni tanto piccoli "non ti scordar di me", quella vasca di porcellana con le zampe di leone in ferro battuto. La nostra casa. E quel futuro che avevamo tanto narrato nelle nostre fantasie. Quella speranza divertente di diventare un pianista. E di avere tutto il futuro davanti per vivere assieme a lui.
Il mio Yul. E il cielo che guardavamo al mattino sulla vecchia terrazza, con la luce che scintillava sul fiume Tibor luccicando sui miei capelli, dentro ai suoi occhi.
Non esisteva più niente. Non ne restava più nulla.
Perciò mi appoggiai stancamente alla corteccia dell'albero dietro di me, con la schiena che ululava dal dolore per i colpi di frusta nuovi, misti a quelli vecchi, terribilmente brucianti anche solo a contatto con la stoffa del mantello che premeva contro le ferite. Lasciai che le lacrime scorressero lungo le guance e che il mio sguardo si fissasse nel vuoto vacuo e oscuro della foresta.
«Tanti anni passati ad odiarlo mentre lui subiva... E mi amava... E non gli ho detto nemmeno grazie...» Un filo di voce, qualcosa di spezzato dentro alla mia gola che faceva pensare avessi le corde vocali intrecciate fra di loro. «Se lui è morto... Cosa ne sarà di me?»
Non c'era più nessuna Skys Hollow senza Yul. Non c'era più nessuna Darlan. Non c'era più nessun posto al mondo che andasse bene senza di lui. Non volevo tornare alla Fortezza dell'Assassino, Alaister non era così magnanimo da coprire un fuggiasco direttamente sputato da Ender, anche se si trattava di me, che una volta ero il suo protetto. E non avrei mai fatto un torto simile a Yul, ben sapendo quanto lui odiava quell'ambiente, quanto non sopportava il Re degli Assassini e il modo in cui ci aveva umiliati.
«Dove andrò?» Il mio sussurro si perse nel vento, riecheggiò fra gli alberi e divenne una eco storta e confusa che sparì nel silenzio. Non sapevo neppure a chi stavo parlando. Nonostante ciò, il misterioso uomo mi guardo con le sopracciglia inarcate in un'espressione intensa, rabbiosa, disperata. E sapevo che non era rivolta a me, ma a tutto, a tutto quanto.
Lo sentivo, perché sentivo anche che lui mi capiva. Lo percepivo. Come se fossi stato connesso a lui, in qualche strano modo.
E poi all'improvviso mi afferrò per le spalle e mi spinse contro al suo petto, tenendomi stretto, forte. Un abbraccio. Un vero, reale, autentico abbraccio. Ed io mi accorsi che era tanto tempo che non sentivo il calore umano, quello vero, quello che non era solo uno stringersi di corpi in uno spazio ristretto ed angusto.
«Puoi andare ovunque...» Sussurrò, lentamente, vicino al mio orecchio, con i capelli argentei che mi sfioravano una guancia. «...Finché ti tieni stretta la vita.» Le lacrime non smisero di scendere, ma questa volta incontrarono la sua spalla, la chiazzarono di macchie umide e si nutrirono del suo calore, asciugandosi appena.
«Perché?» Non lo strinsi di rimando, ma non mi ribellai. Lasciai semplicemente che restasse così, mentre lo sporco sulle parti scoperte del mio corpo gli insozzava i vestiti. «Perché mi hai portato via?» Non era una domanda, ma un'affermazione. Non volevo. Dovevo restare ad Ender. Dovevo restare lì, ed aspettare il momento in cui tutto sarebbe finito. Per sempre. Per tornare dal mio Yul. «Volevo soltanto morire.»
Era il mio unico desiderio.
«No, Helias.» La sua stretta si fece più forte, ma senza stringere sulle sferzate inflitte sulla schiena. La sua mano prese ad accarezzarmi lentamente i capelli sudici, piano. «La libertà è il modo migliore per ripagare Yul.»
Era davvero il modo migliore per ripagarlo di tutto quello che aveva fatto? Di tutto il suo amore, di tutte le sue carezze, e i suoi baci, e di quei battibecchi, dei momenti in cui mi aveva protetto, e preso in giro, o delle litigate, di quando sperava in qualcosa che io non condividevo, di quando osava sognare più di me? Sarebbe mai bastato?
Sarebbe mai davvero bastato?
❖ ❖ ❖
*NDA - L'angolo ormai conosciuto come ritardatario e notturno*
E anche qui son riuscita a fare la mia comparsa, di nuovo dopo tanto tempo. Lo so, lo so, non ci son parole per descrivermi ç_ç ma sono felice di essere riuscita a scrivere questo capitolo. Per una volta sono soddisfatta, nel senso che era esattamente l'idea che mi ero fatta in testa per il capitolo. Devo ammettere che ho provato una certa nostalgia nello scrivere le vecchie litigate, il vecchio Hel che ancora sbavava come uno sgualdrino(???) su Alaister... Ah. (Sono certa che qualcuno sarà molto felice della comparsa di Alaister. E da una parte sono ironica, da un'altra per niente ahah). In ogni caso, come sempre non rileggo una briciola di quel che scrivo, e so che a quest'oraccia mi sfuggirebbe qualsiasi cosa, ma confido nel fatto che non ci siano troppi refusi xD Che altro? Spero sempre di essere meno lenta ed anche che il capitolo vi sia piaciuto! Non vi preoccupate, presto il nostro Hel tornerà ad essere meno piagnucolone (ma poverino...) e di nuovo lui! ewe
Alla prossima! ^^
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro