Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

28. L'Assassino e il Tartaro


«Ogni fiume, come un essere umano, ha una voce tutta sua. Nasce dal fondo della terra, dove ci sono il mistero e il tremore, e ha la malinconia delle cose che non tornano.»
- Fabrizio Caramagna


Da quando il lago di Morfeo mi aveva inghiottito non riuscivo a liberarmi dalla sensazione di claustrofobia e paura che albergava dentro di me: ricordavo fin troppo bene la mia esperienza nelle fogne di Skys Hollow. Ero quasi morto allora, intrappolato sotto un tombino sigillato. Ricordavo le mani sulle grate bloccate e la voce di Yul che mi imponeva di non mollare.

Stavolta, a differenza di allora, non avrei ceduto. Sapevo che Lui era lì fuori, da qualche parte: me lo aveva confermato mia madre e me lo aveva fatto intuire anche Morfeo. Perciò mi districai da quella bolla d'acqua palustre e arrancai fino a ritrovarmi carponi dentro a cunicoli scavati nella roccia. Il contatto fra i palmi delle mani e le ginocchia nude contro la sabbia iniziò a farmi sanguinare la pelle: non era vera e propria sabbia. Era vetro polverizzato.

«Ma che... Diavolo!» Forse pronunciare un nome simile nell'Oltretomba non era un'idea intelligente. Per fortuna ero solo: gli unici suoni udibili erano la mia eco, i miei sandali che gracchiavano nel vetro e lo scorrere incessante e perpetuo dell'acqua. Sentivo anche stalattiti gocciolare dall'alto, ogni tanto l'umidità mi picchiettava la pelle lasciando traccia sulla corta tunica.

Nonostante fosse un mondo di caverne sotterranee quello che mi si presentava dinnanzi, era molto diverso dalla Astrea sprofondata in cui avevo trovato molte risposte ai misteri della mia vita. Non c'era quell'aria di magia, segreti e cultura dimenticata che lì fioriva anche senza sole. L'Ade era un posto oscuro. Quel genere di posto in cui si soffriva di claustrofobia.

Tenebroso e angosciante, lamentoso e strisciante come una bestia acquattata che aspetta di colpirti quando sei distratto. Le uniche fonti di luce venivano da torce incagliate nella roccia, che ardevano di minacciose fiamme verdastre. A non troppa distanza riuscivo a vedere la palude Stigia di cui mi aveva parlato Morfeo: bisognava superare quella per arrivare ai fiumi. Da lì, avrei soltanto dovuto seguire la mappa. Sembrava maledettamente semplice.

Ma dovevo ancora affrontare il primo degli ostacoli: quell'orrenda bestia accovacciata fra me e la palude. Mastodontico e nero, si trattava di un tremendo mastino con tre teste canine. Cerbero, così l'aveva chiamato Morfeo. E dato che le fauci enormi non bastavano, tutto il suo corpo al posto d'essere coperto di pelo, lo era di serpenti. Si agitavano sul suo manto intrecciandosi e sibilando, facendo saettare le lingue. Deglutii.

L'uomo dei sogni aveva pensato anche a quello. Una boccetta del lago su cui era morbidamente accomodato il suo letto a baldacchino bastava per mettere a nanna il bestione. Dovevo solo trovare il modo per farglielo bere senza perdere un braccio o direttamente la testa. Volevo poter sfruttare l'invisibilità e volargli velocemente sopra, ma immaginai che potesse fiutare il mio odore. E poi, chissà quanto in alto poteva saltare un simile cagnolone.

Emisi un gemito soffocato, desiderando che Alaister mi avesse preparato anche a quello. Poi ricordai gli addestramenti intorno alla Fortezza dell'Assassino, a farmi rincorrere da cani feroci finché non trovavo un modo per vincerli o mi lasciavo sbranare. Ci si avvicinava, forse?

Interruppi quelle sciocche elucubrazioni per infilare una mano nella sacca e scegliere di sacrificare uno degli sfiziosi muffin al cioccolato partorito dall'albero dei sogni di Morfeo per versarci sopra il sonnifero. Poi mi avvicinai al Cerbero: cercavo di muovermi a passo felpato, ma il vetro scricchiolava sotto ai sandali. Drizzò le orecchie, prima di alzare contemporaneamente tutte e tre le teste. Una sola di quelle era grande quanto me. Snudò le zanne, ognuna grande e affilata quanto una spada, e istintivamente indietreggiai. Il ringhio di quella creatura assomigliava al rombo di un tuono e si fondeva a decine di sibili provenienti dai serpenti nel suo pelo. Non avevo bei ricordi dei serpenti, dopo quello che era successo nel Regno del Caos.

Eppure, non avevo altra scelta che affrontarlo. Anzi, se volevo riuscire a fargli aprire la bocca - correndo il rischio di essere divorato - dovevo farlo arrabbiare.

Ruotai una perlina dal bracciale intorno al polso e una palla di fuoco crepitò dentro al palmo della mia mano. Senza esitazione mirai ad una testa e lanciai: le fiamme non attecchirono, ma svamparono in uno sbuffo di fumo nero che quando si dissipò mi mostrò l'enorme faccione del Cerbero che si slanciava verso di me con una delle enorme bocche spalancata con l'intenzione di divorarmi con un solo morso. Il bersaglio era tanto grande e vicino che era impossibile sbagliare: il muffin centrò in pieno la bocca del mostro e venne inghiottito.

Prima che le zanne mi raggiungessero scartai di lato e rotolai nella sabbia di vetri. Il muso del cagnaccio colpì il punto dove io mi trovavo prima e la testa restò lì, bassa. Si era addormentato immediatamente. Esalai un sospiro di sollievo, riprendendo a respirare, il cuore che tornava al suo normale battito e i gomiti tutti scorticati. Era stato facile.

Ma il mio viaggio nell'Ade era appena all'inizio. E non avevo ancora idea di dove fosse finito Ezra, di nuovo. Avrei dovuto tenerlo ben stretto mentre superavamo il varco, ma ero ancora scosso dal combattimento con il serpente del Caos e troppo occupato a fuggire da Osiride e i suoi sgherri.

«Accoglimi Stige.» sussurrai, come mi aveva detto di fare Morfeo, fermo sul ciglio della palude Stigia, ancor prima dei fiumi che si diramavano in varie zone di quel regno d'Oltretomba. L'acqua era nera come la pece, sembrava fatta di liquame scuro, catrame bollente. Appena dopo le mie parole, una serie di bolle scoppiettarono sulla superficie e mani scheletriche fuoriuscirono dalla palude per trascinare verso di me una barchetta a remi dall'aria instabile.

Deglutii, sistemandomi la sacca in spalla prima di salirci sopra, stando attento a non cadere. Non volevo scoprire cosa accadeva a chi si tuffava nella palude. Le mani degli scheletri erano tornate ad immergersi sott'acqua ed io affondai i remi in quella consistenza densa e melmosa, iniziando a pogare con difficoltà. Non avevo fatto nemmeno un metro, che lo sentii:

«Guardami.»

Quella voce. L'avrei riconosciuta anche in mezzo ad una folla, anche fra una cacofonia e una mescolanza di milioni di voci. «G u a r d a m i.» ripeté.

Veniva dalla palude. Strinsi con forza le estremità dei remi, ficcando le unghie nel legno, fino a farmi sbiancare le nocche. Era la sua voce. La voce del Re di Darlan. La voce del Redivivo. La voce di mio padre. Ma non poteva essere davvero lui. Sentii la paura, l'orrore e la rabbia mescolarsi in un'unica spirale di disgusto e odio. Quando il terrore sembrava prevalere, immediatamente arrivava il furore a sostituirlo.

«Se è una morte facile ciò che desideri, Sfavillo, non te la darò di certo.» sibilò, mentre il senso di nausea mi assaliva e mi sovrastava che lasciandomi preda di quel sentimento crudele. Odio puro. Terribile. Mi inghiottiva e si propagava come uno sfogo rosso sulla pelle, che grattato e scorticato giorno dopo giorno si allargava finché non ti ritrovavi senza più carne addosso. «Non fin quando non avrai sofferto come si deve.»

No, non come uno sfogo. Come un livido. Il foro di una pugnalata. Cavità, distorsione. Distruzione.

Digrignai i denti e mi affacciai oltre il bordo della barca: forse mi aspettavo di vedere il Re in persona ricambiare lo sguardo. Come aveva fatto solo in due occasioni della mia vita: quando aveva ucciso mia madre e quando mi aveva condannato ad una morte lenta e torturante ad Ender. Forse mi aspettavo di vedere sotto al pelo nero dell'acqua occhi speculari ai miei, due iridi gemelle color ghiaccio, gelate quanto l'infinita cattiveria del mondo.

Invece due paia di braccia da scheletro scattarono fuori dall'acqua e mi afferrarono il collo, circondandomi la trachea con le dita d'ossa, bianche e appiccicose per via della melma. Imprecai e annaspai, aggrappandomi ai bordi della barca per non essere trascinato giù, nella palude.Quelle mani mostruose ed invasive continuavano a strangolarmi e a fare forza per spingermi fuori dall'unico mezzo che mi teneva lontano da quelle acque infestate di morte. E io non avevo armi con cui combattere.

All'improvviso, ricordai ciò che mi aveva riferivo Morfeo: le acque che scorrono nell'Ade corrompono l'anima delle persone. Tutti i fiumi lo fanno. Il Cocito, il fiume del pianto; l'Acheronte il fiume del dolore; il Flegetonte, il fiume del fuoco; il Lete, il fiume dell'Oblio. E poi c'era lo Stige, che dava vita ad ognuno di loro e che nasceva dalla palude che stavo solcando. "Non lasciarti corrompere. Vai avanti. Sei determinato, mio Bello".

Non è reale, pensai. Non è reale, non è reale, non è reale.

Cercai di liberarmi da quella sensazione invasiva e malvagia. «Tu, Sfavillo, sei condannato ai lavori forzati nelle miniere di sale di Ender.» Serrai gli occhi, respirando ferocemente dalle narici nel complesso tentativo di calmarmi, di sbarazzarmi di quell'odio cieco e furioso. Era difficile. Era troppo difficile. Poi mi venne alla memoria un vecchio detto che avevo sentito fra la gente di Astrea, durante quella permanenza breve ma intensa.

La madre di tutte le vendette è una sola: la Pazienza.

La calma tornò, gelida e lapidaria. Le mani scheletriche mi mollarono immediatamente, lasciandomi libero di tossire e respirare, cadendo frettolosamente di schiena dentro alla barca, al riparo da quelle mire pericolose. Non era il momento di lasciarsi trascinare. Avrei trovato tutti i pezzi della dannata spada. Avrei trovato Yul. E poi avrei massacrato tutti quelli che ci avevano fatto del male. Dal primo all'ultimo.

La barca toccò l'altro capo della riva, incagliandosi sulla sabbia di vetro. Mi tirai frettolosamente a sedere, ansioso di abbandonare quelle acque impervie: quando abbandonai il mio piccolo mezzo dondolante, quello venne risucchiato dalla melma nerastra della palude, come se non fosse mai esistito. Scossi la testa per scacciare un brivido ed andai avanti, recuperando la mappa che Morfeo aveva abbellito di consigli sugli spazi a margine.

Diceva di lasciar perdere l'Acheronte, perché non era ancora il momento di incontrare il traghettatore dell'Ade: a quanto pare, avrei dovuto vincere un obolo speciale nell'Arena del Tartaro con cui pagare Caronte, per un passaggio fino ai Campi Elisi, lì dove Ade organizzava le sue feste e i suoi simposi. Dovevo lasciar perdere anche il Flegetonte: il fiume di lava luccicava ardente, lo vedevo anche da lontano, ma quella a quanto appreso era la via per l'Erebo. La nostra via di fuga, se fossimo riusciti a rubare l'elmo dell'oscurità di Ade.

Avevo calcolato mosse e contromosse insieme a Morfeo, come facevo ai vecchi tempi quando si trattava della missione. Sapevo quale fosse il mio obiettivo e l'avrei perseguito fino alla fine. Quindi mi voltai verso il Cocito: l'acqua luccicava di un bagliore bluastro che mi dava una sensazione di infinita tristezza. Camminai lungo la riva con le mani strette sulle cinghie della sacca e gli occhi intenti a scandagliare ogni angolo alla ricerca di minacce. Era tutto talmente silenzioso che l'impressione era che potesse accadere qualcosa di terribile da un momento all'altro. La calma prima della tempesta.

Invece non successe niente. 

Almeno, non all'esterno. Dentro di me, qualcosa si stava smuovendo, come un serpente che ti striscia sottopelle. Cercai di fare finta di niente. La sensazione somigliava allo stendere delle assi su delle sabbie mobili. Cercavo stabilità mentre tutto tremava. Un brivido mi sconquassò dalla testa ai piedi e in un attimo caddi ginocchia a terra, piegato su me stesso, in posizione fetale.

A piangere.

L'imminenza improvvisa di quei ricordi dolorosi mi stordì, come un colpo al cuore, una pugnalata, una stilettata fino all'elsa. Ricordavo il giorno in cui era morta mia madre: il suo bel vestito rosa. I suoi boccoli biondi e il suo dolce profumo di vaniglia che si mescolava alla puzza del sangue mentre la macchia sul tappeto dove era riversa senza vita continuava ad allargarsi. Ed allargarsi. Ancora e ancora.

Ricordavo la disperazione pura. Ma mai era così forte e così devastante di ricordare l'attimo in cui avevo realizzato, sul patibolo, che la luce aveva lasciato gli occhi di Yul. E che io non l'avrei mai più rivisto. Non ci saremmo più risvegliati in tarda mattinata a litigarci una stupida fetta di crostata. Niente più giornate ad oziare davanti al camino. Niente passeggiate lungo le vie di Skys Hollow o quelle cene nel nostro locale preferito. Niente risate e niente baci, che ci permettevano l'uno di respirare fra le labbra dell'altro, come se ci sorseggiassimo l'anima a vicenda.

Quando avevo capito che era tutto finito ero rimasto spezzato. Frantumato. Come un vaso che non riesci a capire da che punto iniziare a rimetterlo insieme. Ad un certo punto ci rinunci. Non si può riparare quello che è distrutto.

Ed io mi sentivo così: distrutto. Mentre piangevo tutte le mie lacrime e urlavo singhiozzi, abbracciandomi la pancia e poggiando la fronte contro le ginocchia bagnate di pianto. Eppure sapevo che il Cocito mi stava corrompendo, ma la ferita - la perdita di Yul - era ancora fresca, sebbene fossero passati quasi due anni. Tirai su col naso e su gambe tremanti ed instabili mi misi in piedi, proseguendo con difficoltà, anche se non riuscivo a smettere di piangere.

Il fiume si nutriva della mia tristezza ed io mi sentivo debole e spossato, ma non mi sarei arreso. Con gli occhi appannati, diedi uno sguardo alla mappa: gli ultimi metri del Cocito si esaurivano fra poco. Ben presto avrei raggiunto il Lete. Oltre quello, mi aspettava una voragine gigantesca: l'ingresso per il Tartaro.

Finalmente le lacrime smisero di solcarmi le guance. Me le asciugai con il dorso della mano libera e proseguii a passo svelto. Quel silenzio era come la quiete prima della tempesta: covava un futuro angosciante, temibile. Perciò affrettai la camminata e mi accostai al fiume dell'Oblio, incapace di sapere in che cosa questo oblio consistesse. Semplicemente dovevo darmi una mossa, perché...

Io non lo sapevo il perché. Dovevo solo andare di fretta. E verso... Verso dove? Dove ero diretto? Rallentai, molto lentamente, guardandomi intorno. Le rocce frastagliate della caverna erano scure, nere, come tutto il resto. Le acque trasparenti grigie come una pozzanghera e le fiaccole sempre più fioche, man mano che si guardava avanti. Allora perché andare verso quella tenebra? Ero stanco, insanguinato su più punti del corpo per via di quella stupida sabbia.

Così mi lasciai cadere sulla riva, morbidamente seduto. Ma l'acqua, il suono dell'acqua, era talmente rilassante che ben presto mi stesi, posando la testa sulla mia sacca, gli occhi dolcemente socchiusi. Perché stavo piangendo, prima? Non c'era niente di meglio che quella sensazione melliflua, che era come nuotare in una vasca di miele. Non avevo bisogno di obiettivi.

Pian piano, lasciai fluire via da me ogni sensazione negativa. I ricordi della mia vita diventavano sempre più fiochi, come le luci nelle caverne. Non necessitavo nemmeno di conoscere il passato, se potevo restare lì a godermi quegli infiniti attimi di pace. Né il mio nome. A che servono i nomi? Solo per essere chiamati dagli altri.

E io stavo bene da solo. Benissimo anzi.

Perciò chiusi gli occhi, allungando una mano verso il fiume che scorreva gentile come una canzone al piano. Stavo quasi per toccarlo. Quasi. Poi qualcosa appeso al mio collo s'impigliò nella mia tunica, attirando la mia attenzione. Una chiave. Avevo sempre avuto una chiave attaccata al collo? Non lo ricordavo.

Poi mi resi conto che non ricordavo niente di niente.

Mi drizzai bruscamente a sedere, afferrandomi la testa fra le mani. Era pesante, come dopo un'esagerata bevuta. Avrei voluto soltanto capire perché avevo quella chiave, perché sembrava essenziale, qualcosa da dover ricordare... Qualcosa che avevo stretto in momenti difficili. Come la stavo stringendo ora. Ricordai brevi lampi. Piccoli sprazzi di qualcosa... Rumore di fruste. Urla di paura e di dolore. Lo sferruzzare metallico delle catene.

Un nome mi balzò alla mente, così veloce che quasi mi sfuggì di mano. Ender. Ender. Paura. Chiave da stringere. Mamma. Morte di mamma. E poi vita di strada, ladruncoli, schiavitù, omicidio, Treblin, Alaister, Lysandro. E Yul. Come potevo dimenticarmi di Yul?

I miei occhi abbandonarono la vista del Lete e si spostarono verso la riva opposta. A molti metri di fronte a me, un uomo dai capelli d'argento e occhi color ametista aveva immerso le mani a coppa dentro l'acqua e se la stava portando alle labbra per bere. Sussultai.

«FERMO, EZRA!» urlai, tendendo il braccio verso di lui. Aprì le dita come un ventaglio e l'acqua cadde pesantemente sulla sabbia. Le sue magnifiche iridi color malva si fissarono su di me, coperte dalle palpebre che sbattevano lentamente per mettermi a fuoco.

«Tu...» sussurrò, vedendo riaccendersi la scintilla della ragione dentro ai suoi occhi. «Helias.» Sentir pronunciare il mio nome fu la scossa che mi serviva per ricordarmi perché ero lì. Non davanti al fiume, ma nell'Ade. Nell'Oltretomba. Lo straeliano si alzò lentamente in piedi, in tutta la sua statuaria altezza. «Helias!» ripeté, capendo che c'eravamo appena ritrovati anche se eravamo ancora divisi dal fiume.

«Non ci fermiamo, andiamo avanti, ci sono ancora tanti metri da fare!» incoraggiai, facendo un cenno verso il sentiero davanti a noi. Secondo la mappa, alla fine del Lete avremmo potuto finalmente incrociarci per raggiungere il Tartaro. Ora, però, restavamo divisi dal letto acquoso ed insidioso del fiume, che prometteva un oblio davvero pericoloso.

«Come sei arrivato qui?! Cos'è quella mappa? E quei vestiti?» aggrottò la fronte, alzando la voce per farsi sentire dal suo lato della riva. «Nell'Oltretomba non riesco tanto facilmente a guardare quello che ti accade.» esclamò, nervosamente. Forse preoccupato, per quanto Ezrael riuscisse tanto orgogliosamente a nascondere simili sentimenti dietro la sua facciata da "uomo accigliato delle caverne". Ora era proprio nel suo habitat naturale.

«Tu piuttosto! Come ci sei arrivato qui senza sapere dove andare e cosa dobbiamo fare?» esclamai, cosa che lo fece scuotere la testa.

«Io... Credo di essere apparso nelle vicinanze. Poi sono finito qui e non ricordo per quanto tempo ci sono rimasto.» Io dovevo combattere contro cani a tre teste immense e lui compariva già vicino alla destinazione. Un po' come essere diventato facilmente lo scriba di Thot nella Duat. Ero sfortunato io, o era lui? C'era qualcosa che non quadrava. Schioccai la lingua.

«Stavolta sono stato io a scoprire tutto.» Sventolai la mappa e in breve gli raccontai - saltando la parte in cui Morfeo mi trascinava nel suo vortice erotico e da Yul si trasformava in lui - quello che avevo appreso e ciò che dovevamo fare.

Si grattò una guancia, turbato da qualcosa che dopo qualche minuto di silenzio esternò. «Perché questo Morfeo ti avrebbe aiutato?» Strinse le palpebre. «Pensaci. Potrebbe essere una trappola.»

«Sesto senso. Certe cose un assassino le capisce.» replicai, alzando le spalle. Lui mi rivolse un lungo sguardo, corrucciando leggermente la fronte. A primo acchito, avrei detto che sembrasse semplicemente turbato. Poteva aver capito la verità? Poteva aver afferrato quello che era successo fra me e Morfeo? Storsi le labbra.

«Sicuro?» Uno sbuffo. «... Se lo dici tu.» concluse, continuando a camminare. Indossava ancora i vestiti provenienti dalla Duat, ma si era del tutto asciugato dal nostro bagno nel lago in cui riposava il serpente. A torso nudo, con il collo circondato da numerose collane di pietre azzurre, verdi e rosse, sembrava il personaggio di un libro fantasy. La chioma color mercurio gli arrivava alle spalle e le orecchie a punta ogni tanto sporgevano dalle ciocche scompigliate.

Per un attimo, mentre camminavamo senza fermarci, nessuno disse nulla. Poi mi resi conto che il silenzio favoriva la sonnolenza e quel dolce, sinuoso oblio, per cui immediatamente intervenni: «Ezra, continuiamo a parlare. Il Lete mi incasina la testa.» Gli lanciai uno sguardo speranzoso dal mio lato della riva. «Raccontami qualche tuo ricordo.» Lui sapeva tanto, troppo di me. E io di lui non sapevo quasi nulla. Forse non aveva grandi avventure da raccontare, visto che era sempre stato chiuso nelle viscere della terra, nascosto da tutto e da tutti insieme al resto di Astrea. Di quello che ne era rimasto. Eppure, volevo comunque sapere.

Il mio guardiano era parecchio riservato. Ricordai quando perfino la sua gemella, Kleira, mi aveva detto che a volte aveva la sensazione di non conoscerlo. Io ero riuscito a malapena a scalfire la sua scorza dura. Sospirò. «Che cosa vuoi sapere?»

«Qualsiasi cosa.» risposi, facendo spallucce. «Anzi, il tuo ricordo più bello di Astrea.»

Increspò le labbra in un leggerissimo sorriso. «Quando ero piccolo, ho vinto la gara di baci nel festival d'inverno.»

Strabuzzai gli occhi. «Chi, tu?» Lo stesso tizio che mi aveva dato del ragazzo facile? Lo stesso scorbutico e scostante?

«E' così incredibile?»

«Eccome se lo è! Voglio dire, è normale che possa vincerlo io... » gli indirizzai un sorrisino vanesio ed ironico. «... Ma tu?» L'altro schioccò la lingua con esasperazione.

«Be', comunque ho vinto una fornitura gratis di gelati per tutto l'anno. Per sei mesi non ho fatto altro che mangiare solo gelato. Poi sono stato talmente male che mi ci sono voluti molti guaritori per rimettermi in sesto.» scosse la testa, malcelando il divertimento che luccicava negli occhi lilla. «Da allora non ho mai più mangiato gelato. Ho un rigetto naturale.»

Scoppiai a ridere e il suono doveva sembrare in qualche modo alieno, lì nelle profondità dell'Ade, in un mondo saturo di morte. «E questo dovrebbe essere un bel ricordo?» ridacchiai. «Non ricordavo avessi senso dell'umorismo, Ez.» Lo presi in giro e lui incrociò le braccia, inarcando le sopracciglia.

«Almeno è divertente.» borbottò.

«Oh, non stavo giudicando la tua storia, guardiano! Raccontarmi altro, dai.» lo incoraggiai, dimenticandomi ormai della presenza del Lete e del dolce richiamo del suo oblio in grado di regalare la più beata delle amnesie. «E' un ordine del tuo principe!» mi pavoneggiai, usando quel titolone che non mi si addiceva per niente, anche se a tutti gli effetti lo ero.

Aprì la bocca per aggiungere qualcosa, ma poi si bloccò e i suoi occhi si spostarono da me alla scena di fronte ai nostri occhi: il Lete sprofondava a cascata in un abisso nero e buio, circondato da pietre quasi fosse l'orlo di un pozzo dentro al quale buttare una moneta. O direttamente buttarsi. Cosa che avremmo dovuto fare. Alzai gli occhi dalla voragine a quelli viola dell'albino, che ricambiò lo sguardo, eloquente. Assottigliai le labbra e mi affacciai oltre il bordo di pietra cercando di scorgere qualcosa nel buio. Niente. Sentivo solo la puzza di zolfo che si sollevava dal basso in effluvi di uova marce, una puzza che mi aggredì le narici quasi facendomi lacrimare gli occhi.

«Promettimi che non farai niente di stupido, Helias.» disse Ezra, con la mascella serrata e lo sguardo severo. Increspai le labbra in un sorriso ribelle e mi sedetti sul ciglio della voragine, mettendo le gambe a penzolare nel vuoto.

«Niente che non sia necessario per la causa.» Poi lo afferrai a tradimento per una mano e mi buttai nel vuoto. 


Nove giorni e nove notti, diamine.

Avevo pensato che fosse un'iperbole, invece Morfeo non mentiva. Almeno così credevo, perché avevo smesso di tenere il conto del tempo che passava mentre precipitavamo. Sembrava che stessimo cadendo da un'eternità, in un buio così oscuro che avevo paura fossi diventato cieco. Ezra all'inizio mi teneva per mano, ma poi mi attirò a sé per stringermi mentre continuavamo a sprofondare nel vuoto. Il vento ci fischiava nelle orecchie e ci frustava i capelli.

Era così tanto che ci rovesciavamo verso il Tartaro che quasi avevo perso la cognizione delle ore, così come avevo smesso di preoccuparmi del nostro arrivo. Cosa ci avrebbe accolto? Dove saremmo atterrati? Volare sarebbe bastato per frenare una caduta libera alla velocità di una meteora? L'aria attorno poi si era fatta sulfurea, disgustosa, puzzolente. Ogni volta che la respiravo avevo voglia di vomitare, mentre i polmoni restavano doloranti, come se il vetro polverizzato fosse disperso anche intorno a noi, oltre che nella sabbia.

Poi, finalmente il buio si diradò. Una nebbia rossastra iniziò a pulsare dal basso e strattonai leggermente le braccia con cui lo straeliano mi avvolgeva per avvisarlo, visto che lui teneva gli occhi chiusi, forse per evitare che il vento in picchiata glieli facesse lacrimare. Forse per tenere a bada la nausea. Io però riuscivo, dall'alto, a vedere la terra. E quello che stavo osservando non mi piaceva affatto.

Pozze di lava fumante sfrigolavano e scoppiettavano: ogni tanto vomitavano gigantesche bolle infuocate che, esplodendo come se fossero bolle di sapone, partorivano un mostro dalle sembianze agghiaccianti. Proprio in quel momento, una specie di gigantesco lumacone verde moccolo stava strisciando sui vetri, aprendo e chiudendo a scatti una decina di bocche che gli decoravano la "faccia". Radi alberi carbonizzati e spogli ogni tanto spuntavano dalla sabbia e sui rami affilati c'erano appese... Non riuscivo a capirlo da così lontano.

Ma man mano che ci avvicinavamo lo scenario diventava man mano più chiaro. Erano teste. Conficcate ai ramoscelli come tante palline di Natale. Mugolai un verso d'angoscia ed Ezra serrò la presa sul mio corpo. «Non atterriamo. E' troppo pericoloso. Continuiamo in volo.»

«Penso che sia peggio...» sussurrai, accennando col dito alla volta immensa della caverna: era coperta di nuvole verde acido, come un cielo avvelenato e tossico. In mezzo alle nubi s'intravedevano stormi scuri di creature volanti armate di tridenti e con gli occhi rossi che scintillavano anche a distanza. La Duat, rispetto al Tartaro, sembrava una tranquilla saletta da tè. «Atterriamo.» decisi io.

Non controbatté: attivammo insieme il potere e la presa del vento intorno a noi si allentò, mentre i nostri corpi iniziavano a gravitare dolcemente verso il basso, finché non toccammo la sabbia coi piedi. Nascosti dietro ad un grande masso, consumammo frugalmente un dolcetto ma bevemmo avidamente, con le labbra asciutte e riarse da quell'aria puzzolente e afosa.

«Hai armi con te?» chiesi, esaminandolo velocemente con gli occhi: a meno che non avesse pugnali molto piccoli nelle tasche del gonnellino, dubitavo che potessi riporci grandi speranze. Infatti scosse la testa, scrollando le spalle.

«Come la troviamo l'arena?» domandò di rimando, grattandosi la nuca, lo sguardo che si disperdeva verso l'orizzonte oltre il masso. La caverna era talmente grande che era impossibile capire dove finisse o dove cominciasse.

«Pensavo che, essendo un'arena, fosse ben visibile...» La mappa di Morfeo non mi aiutava in quello. C'era segnata solo la strada verso il Tartaro. Ora stava a noi cavarcela. «Evidentemente ci tocca cercarla.» Il fatto che mi stessi infilando in quel gigantesco guaio mortale con le mie stesse mani era assurdo, ma non c'era altro modo per arrivare ad Ade e rubargli l'Elmo dell'Oscurità. Ovvero un altro pezzo della spada. Mi guardai la mano dove il primo frammento si era conficcato e mi morsi un labbro.

All'improvviso, delle voci non troppo lontane da noi ci misero in allarme. Ci acquattammo dietro al masso ed Ezra si mise un dito sulle labbra per farmi cenno di fare silenzio. «Piazziamolo qua! Sta bene qua! E' bellissimo qua! Qua qua qua!»

«Cosa sseeei? Una papera??»

«Tu sei una papera!»

Io ed Ezra ci scambiammo uno sguardo perplesso. Le voci erano gracchianti e gutturali, facevano pensare a qualcosa di tutt'altro che piccolo e carino. Quando mi sporsi oltre il masso per spiare a chi appartenessero, per poco non lasciai andare un grido, che soffocai dietro alla mano ritornando nascosto.

C'erano due orrendi omaccioni col cranio calvo e deforme, con un solo grosso occhio al centro della fronte, che trasportavano un palo di legno uno ad un capo e uno all'altro. Al centro, una persona brutalmente impalata. Chiusi gli occhi strizzando le palpebre, nel tentativo di scacciare via il brivido che mi aveva trapassato dalla punta dei capelli a quella dei sandali.

«Ho deciso. Qui starà a meraviglia. E muoviamoci, che ho fame.» sogghignò uno dei due, fin troppo vicino al nostro masso. Si sentì il suono dei vetri che scricchiolavano sulla sabbia. Ezra si era irrigidito al mio fianco e potei sentire la presa della sua mano intorno alla mia serrarsi.

Questo è il momento di usare l'invisibilità. Poi ci allontaniamo lentamente. Se voliamo non lasciamo impronte.

Mi parlò nel pensiero la voce dell'albino. Annuii, un solo cenno del capo, prima di roteare la perlina del braccialetto e vedermi sparire. In quel momento potevo anche non esistere. L'unico segno della mia presenza era la mano che teneva forte la mia, calda e grande, che inglobava quasi del tutto le mie dita. Sapevo che la mia stava sudando per via della tensione, ma non volli arrischiarmi ad asciugarmela addosso per paura di perdere Ezra dal mio fianco.

Dopo, più che volare si trattò di fluttuare. Pochi centimetri che ci permettevano di muoverci senza lasciare tracce sulla sabbia di vetri polverizzati. Uscimmo fuori dalla conca del masso, costretti però a passare vicino al duo di ciclopi. Il palo era stato ficcato nella terra e i due mostri stavano strappando via la pelle all'uomo impalato che... In quell'istante mosse gli occhi.

Mi bloccai, agghiacciato e terrificato. Non sapevo come fosse minimamente possibile, ma quel poveraccio era ancora vivo!

Non ci pensare nemmeno. Non siamo venuti quaggiù per salvare qualcuno.

Disse il mio guardiano, evidentemente credendo che mi fossi fermato perché riflettevo su qualche eroico intervento. Certo, non sapeva quanto si sbagliava su quell'affermazione: facevo tutto quello che facevo, nell'Aldilà, per salvare Yul. Ma in questo caso aveva ragione. Non sarei intervenuto. Quel tipo era già spacciato. Mi dispiacque solo non potergli regalare una morte rapida.

«Ehi, non lo senti anche tu questo buon profumo?» disse un ciclope all'altro, guardandosi intorno. Verso di me. Annusò profondamente l'aria ed Ezrael mi strattonò per il braccio. «Sa di bulbi oculari alla vaniglia!»

Tirato dalla presa dell'albino, sfrecciai lontano dai due mostri, infiltrandomi in quel bosco di alberi carbonizzati e teste mozzate: c'erano molte altre persone o creature impalate. Per non parlare di semplici resti rosicchiati fino all'osso. I laghi di lava esplodevano e rilasciavano enormi bubboni infuocati che partorivano mostri a profusione. E durava ancora per metri e metri: sperai che l'invisibilità reggesse finché non avremmo trovato ciò che stavamo cercando.

E così fu. Intravedemmo una lunga fila di creature sparire all'interno di un cunicolo stretto, buio e angusto. Alcune di loro erano sole, tutte massicce, nerborute, con l'aspetto di chi è stato partorito da un incubo davvero sgradevole.

La maggior parte però erano affiancate da altri: portavano con sé essere umani o mostri pesti, legati da lacci o catene e asserviti alla loro volontà. Da dove ci trovavamo non potevamo sapere dove portasse la fila, ma il mio sesto senso mi diceva che valeva la pena scoprirlo. Che eravamo sulla strada giusta.

«Pensi che vada verso l'arena?» mi sussurrò lo straeliano, senza lasciarmi la mano, mentre osservavamo a debita distanza la scena.

«Forse. Quasi sicuramente.» bisbigliai, pensoso. «E ho un'idea.»

Una decina di minuti dopo, perfettamente visibili dal resto dei mostri, ci mettemmo in fila. Io ero in ginocchio: avevamo usato la cintura che mi legava la tunica corta in vita per stringermi la cinghia intorno al collo come un collare. Il resto della cintura la teneva Ezra nella mano, che funzionava da guinzaglio della misura perfetta per costringermi a stargli attaccato, in una posizione fastidiosa abbastanza da far pensare che avesse parecchio potere su di me.

Lui, invece, aveva un'impalcatura di corna da diavolo, dritte e nerissime come la palude Stigia, che gli uscivano dalla fronte e puntavano verso l'alto. Tutti i denti erano affilati come quelli di uno squalo e sulle braccia gli si distendevano una serie di squame viola che erano perfettamente uguali al colore dei suoi occhi. Era ancora più alieno del solito. E ancora più sconvolgente: le corna lunghe lo facevano sembrare più imponente, più autoritario e decisamente più pericoloso. In un modo affascinante però, per via di un certo carisma mostruoso a cui attingeva la nostra recita.

Perché lui si era trasformato in una creatura del Tartaro, grazie alla magia di trasmutazione che aveva permesso a me di essere l'ordinario e mediocre Archibald nella Casa della Sapienza. E io ero la sua vittima, il suo schiavo. La situazione era talmente ridicola - un assassino, ex schiavo e presunto principe che camminava a gattoni ai piedi della sua guardia - che poteva perfino funzionare.

«Ptff, perché non te lo mangi?» Un'arpia alata con tre lingue sibilanti si era messa in fila dietro di noi e ora mi fissava con un'espressione vorace. «Ne varrà sicuramente la pena!»

Ezra schioccò la lingua contro i denti affilati. «L'hai visto?» Il tono era seccato, come se stesse dicendo un'ovvietà e fosse un'assoluta perdita di tempo continuare a parlarne. «Mangiarlo è uno spreco. Si può fare di meglio.» Ero impressionato dal fatto che recitasse così bene. Forse nemmeno lo stava facendo: il tono era quello brusco che aveva la maggior parte delle volte. Dovetti impegnarmi per non arrossire: certo che sapevo di essere bello, di una bellezza che mi aveva sempre consentito di fare tutte le conquiste che volevo. Ma sentirselo dire così era davvero piacevole.

Comunque, non era nella parte. E dato che, oltre che bello, ero anche talentuoso, proseguii con le mie doti attoriali spiccate. Squittii un verso basso e spaventato, chinando la testa. L'arpia si leccò le labbra.

«Hai intenzione di venderlo ai recinti del piacere?» Mi irrigidii. Eravamo in fila per quello? In fondo, c'eravamo messi in mezzo alla folla sulla base di una mia intuizione. L'albino comunque non batté ciglio.

«No. All'arena.» disse, asciutto. Il mostro scoppiò a ridere, una risata sganasciata e stridula che fece roteare tutte e tre le lingue nella grande bocca zannuta dell'arpia. Il suono era tanto brutto che volevo tapparmi le orecchie, invece incassai ancora di più la testa fra le spalle, timoroso.

«Quel ramoscello ossuto con la faccina da fottere?» Rise ancora più forte. Dovetti trattenermi dal lanciarle uno sguardo omicida attraverso lo spazio creatosi fra i miei riccioli biondi, che mi cadevano sugli occhi.

Sta' calmo.

Mi invitò Ezra, senza distogliere lo sguardo dalla creatura. Provava quello che provavo io: il mio lampo di irritazione doveva averlo investito bruscamente. Eppure, continuò la farsa in maniera impeccabile. Fece un passo avanti, sovrastando con la sua ombra l'arpia, che aveva grandi ali da pipistrello ma era decisamente più bassa del mio guardiano.

«Stai per caso insinuando che stia facendo uno sbaglio?» sibilò. «Le mie intuizioni funzionano sempre. Chiaro?»

Il mostro sibilò con le lingue quasi fosse un serpente a sonagli. «Tanto nessuno pagherà per vedere quella cosina combattere, a meno che non si tratti di farlo scopare a turno da una banda di centauri!» Un'ombra scura passò veloce sulla faccia di Ezra.

Adesso sei tu che devi stare calmo. Mantieni il piano.

Gli dissi nella testa, respirando piano, come se stessi camminando sulle uova. In realtà gattonavo su sabbia di vetro, quindi non era una metafora poi così astratta. Lo straeliano allentò la mascella serrata, batté le palpebre un paio di volte e tirò corto: «Meglio. Non mi interessa quale spettacolo serve per avere i miei guadagni.» Quindi si voltò dando le spalle all'arpia e mi tirò per il guinzaglio, spronandomi a camminare per seguire la fila.

File interminabili perfino nell'Oltretomba. Probabilmente le avevano inventate proprio qui come metodo di tortura, non ne sarei stato stupito. Quando finalmente arrivò il nostro turno e venimmo fuori dal cunicolo angusto, ci ritrovammo davanti ad un cancello massiccio e spaventoso, immenso e puntuto, che si estendeva fino alle nuvole verde acido, con dei gargoyle che volteggiavano in alto. Murature merlate partivano dalle porte e disegnavano un immenso semicerchio all'interno della caverna, fin dove il mio occhio giungeva. Si trattava senza dubbio dell'arena.

Davanti alle porte, lì dove la fila si fermava, c'era un banchetto di pietra. Una bella ma inquietante donna era seduta lì dietro, a scrivere su una pergamena. La pelle pallidissima, i canini affilati, i capelli color neve e gli occhi rosso sangue. Mi ricordava un po' una versione femminile di Alucard, il vampiro che avevo affrontato in Transilvania. Lei però, sotto alla gonna lunga del peplo, nascondeva una gamba da asina e una fatta di bronzo: era facile da vedere, visto che ero a gattoni.

Riuscii a leggere da una targhetta appuntata sulla veste, all'altezza del petto: "Empusa n.5". Drizzò la faccia da dietro al bancone e si curvò verso di me, storcendo le labbra in un orribile ghigno. Poi sollevò il pennino con cui stava scrivendo.

«Recinti del piacere?» ammiccò lei verso Ezra, già prendendo appunti.

«No.» Sbuffò. «Lo vendo per combattere nell'arena.» Ci fu un breve attimo di silenzio. Poi lei e i mostri dietro di noi si misero a ridere di gusto. «Non potete certo impedirmi di farlo.» sbottò l'albino, che iniziava a spazientirsi.

«Oh, no. Ma tanto nessuno dei Titani deciderà di comprarlo e investire su quello là come combattente.» L'empusa si puntellò i canini con la punta della lingua, divertita. «I nostri editori sono piuttosto pretenziosi quando si tratta dell'Arena del Tartaro.» Lanciai uno sguardo ad Ezrael, che non poté ricambiare, sebbene fui certo stessimo pensando alla stessa cosa.

Stavamo scoprendo molte cose e molto in fretta, bisognava adattarsi alla situazione mentre la vivevamo. Era quella l'arte dell'improvvisazione.

«E dimmi, qual è l'editore più pretenzioso di tutti?» disse il mio "padrone", affilando gli occhi.

L'empusa stava ancora ridacchiando, quando rispose: «Crono.»

Ezra fece spallucce. «Allora lo venderò a lui.» L'addetta invece strappò un pezzo di pergamena e gliela schiaffò nella mano, sempre con l'espressione piena di un divertimento oscuro.

«Non vedo l'ora di vederlo morire di una morte lenta e dolorosa.» cinguettò, guardandomi. «Oh, fossato numero sette.» Accennò ai cancelli immensi dietro di lei. «Buona fortuna con l'esame! Visto che morirà subito, ricordati di ripassare per vendere la sua carne! Sono interessata!» Le rivolsi un solo sguardo mentre, senza aggiungere altro, l'aggiravamo.

Sembravo esile e dimesso, col guinzaglio, la testa bassa e le ginocchia sanguinanti per via della sabbia di vetri che mi strisciava contro la carne mentre gattonavo. Eppure, quando le rivolsi quell'occhiata da assassino, il sorriso dell'empusa si storse in una smorfia. Poi i cancelli davanti a noi cigolarono e si aprirono quel tanto per permetterci di passare.

«Pronto?» sussurrò l'uomo dai capelli d'argento, travestito da demone, guardando ciò che ci aspettava, proprio lì oltre le porte.

«Pronto.» risposi. E, mentre superavamo l'ingresso dell'Arena, mi promisi di non fallire. 





*NDA - Le note mitologiche di un'autrice appassionata*

Hola a tutti!
Quanto mi piace la mitologia greca, c'è veramente da sbizzarrirsi! Avrei voluto pubblicare prima questo capitolo, ma ho avuto tempo di scriverlo solo in questi ultimi tre giorni. Devo ammettere che questo è stato un po' di descrizione/transizione, ma spero che vi sia piaciuto lo stesso! Il prossimo capitolo sarà pieno di azione, alla Helias maniera, come lo conosciamo noi. Quindi tenetevi pronti a tante botte, tanti guai e i casini che di solito accompagnano il protagonista. Aggiornerò presto!
Alla prossima ~

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro