26. L'Assassino e il serpente
«I serpenti sono gli abitatori del mondo sotterraneo. Vivono nelle viscere della terra e ne conoscono i segreti.»
- Alain Daniélou
Non molto a lungo. Tuttavia, "non molto" era comunque a lungo, una lunghezza di tempo non specificata e per questo intollerabile. Non ero rimasto molto a lungo su quel letto, incatenato, nudo e ferito, ma era difficile stabilirlo con precisione. Il sole non tramontava mai e stavo iniziando ad odiare quella luce sempre splendente, che entrava dalla parete mancante nella stanza e faceva piovere i suoi raggi d'oro sul mio corpo, sulla spalliera di bambù e sulle lenzuola.
Fortunatamente, a differenza del Deserto Rosso, questo sole non mi stava bruciando la pelle e non avevo bisogno di chili di crema protettiva per preservare l'incarnato color perla che mi vantavo a sfoggiare, dimostrandomi che c'era una netta differenza nel modo in cui io e il mio fisico percepivamo ciò che il mondo circostante mostrava.
Comunque, gli unici modi che avevo per capire che il tempo passava era tenere il conto dei momenti in cui sentivo il sonno che mi reclamava, mi addormentavo e poi tornavo alla veglia. Oppure vedere lo stato di guarigione delle mie ferite lì dove le garze avevano ceduto, rivelando lembi di pelle prima straziata ed ora piena di linee rosate che andavano via via a schiarire. Il problema era che non avevo nulla per calcolare quanto tempo dormissi e la mia abilità di guarigione aveva un modo tutto suo per funzionare.
Quindi, in pratica, non sapevo quanto tempo fosse passato. Non molto a lungo. Ma abbastanza da sapere che non mangiavo o bevevo da quando avevo vomitato come un pazzo nell'hotel spaventoso nel Regno del Caos. Mi faceva talmente male lo stomaco, un dolore così familiare, davvero simile a quello che provavo ad Ender, mentre la gola serrata implorava di avere almeno un goccino d'acqua.
Il Re della Duat, il bello e folle Dio Osiride, era tornato a farmi visita molte altre volte. In tutte le precedenti mi aveva preso con violenza e aveva fatto di me tutto ciò che desiderava, come il suo trastullo personale, sotto alla minaccia dei rovi, benché io avessi smesso completamente di opporre resistenza.
«Ti sei piegato finalmente alla realtà?» aveva detto, suscitando in me un'ondata di bruciante e sferzante disprezzo, che si era sollevato come un'onda di tempesta e aveva cercato di travolgermi, prima che nascondessi tutto dietro ad uno sguardo da angioletto innocente. Ti ammazzerò, era questo il pensiero che avevo in mente, senza poter affermare se effettivamente gli Dei morissero o meno. Ammesso che fosse veramente ciò che sosteneva di essere. Non sentivo di poterlo mettere in dubbio, però: i suoi poteri mi avevano già dimostrato, davvero dolorosamente, di che pasta fosse fatta una divinità.
Chissà se anche il Redivivo si riteneva tale. Io lo avrei ritenuto più un Demonio, che qualsiasi altra creatura.
«Sì, padrone.» avevo cinguettato in risposta, sfarfallando le ciglia più scure dell'oro, mentre la mia pelle di porcellana si strofinava a quella bruna di lui. Adesso, dopo tutto il tempo - i giorni? - passati a lavorarmelo, era arrivato il momento di godermi il mio premio.
Si infilò un chicco d'uva fra i denti e mi imboccò con una lentezza straziante, mentre io avrei solo voluto azzuffarmi su delle costine di maiale speziate, o qualcosa di altrettanto sostanzioso e saporito. Mugolai un lamento, mentre usavo la lingua e i denti per strappargli via dalla bocca quel singolo frammento di frutta, masticando lentamente per ricavarne acqua, e poi inghiottendo. Non bastava.
«Ancora?» soffiò, con un sorriso cattivo, desideroso di vedermi implorare, mentre io inarcavo le sopracciglia con un'espressione bisognosa e bramosa, lamentandomi a denti stretti. «Ancora?» ripeté, con uno sguardo meno paziente, aspettandosi una mia risposta. Il chicco che stringeva nella mano venne strizzato dentro al palmo e distrutto, mentre il succo gli gocciolava lungo le dita ruvide e massicce.
«Sì, per favore...» sussurrai, staccando la testa dal cuscino per protendere il collo e avvicinare il volto così da leccargli il polpastrello, avviluppandolo fra le labbra carnose prima di inseguire quella goccia con la lingua e succhiare, ad occhi chiusi. Strinse la mascella e il suo sguardo si fece liquido di lussuria. «Ti prego...» infierii, andando esattamente dove volevo andare a parare, mentre seminavo una piccola scia di osceni baci lascivi lungo il suo indice.
Emise un verso basso, di gola, un suono simile a quello che avrebbe potuto produrre un animale selvatico nella stagione della caccia, famelico e rabbioso, prima di avvicinare i fianchi ai cuscini e svelare la durezza nascosta dal tessuto di lino ricamato e riccamente decorato di pietre preziose e fili d'oro. Mi afferrò i capelli, riccioli folti dello stesso colore del sole intrappolati dentro al suo pugno prepotente.
L'erezione, umida e calda e pulsante, mi premette contro la guancia, prima che io girassi il viso e facessi combaciare la punta liscia contro alle labbra, schiudendole per scivolare con la lingua a lappare quella salinità virile. Con uno scatto improvviso intorno ai capelli, mi spinse la faccia in avanti, scattando nello stesso momento con i fianchi per venirmi incontro, mentre io sgranavo gli occhi e stringevo forte i pugni per resistere a quell'invasione improvvisa.
«Mmphf!» mugolai, respirando con forza dalle narici, la bocca troppo occupata mentre lui si muoveva, togliendomi il fiato. Strizzai gli occhi, cercando di resistere alla sensazione di averlo fino alla gola, ma lui rinvigorì la presa.
«Guardami.» ordinò, la voce bassa e prepotente, imperativa, oscena. Spalancai gli occhi, cercando di non fissarlo con uno sguardo carico d'odio. Avrei vanificato tutti i miei sforzi precedenti. Eppure, mi chiesi che cosa sarebbe potuto succedere se avessi usato i denti. Se addentando glielo avessi strappato via di netto. «Non ci pensare nemmeno.» ringhiò, un verso minaccioso che tuttavia sembrava perfino divertito, indovinando i miei pensieri.
No, non potevo permettermi di fare una cosa del genere. Mi avrebbe ammazzato senza ombra di dubbio. Perciò emisi un flebile sospiro dal naso e mi abbandonai all'atto, usando la bocca e la lingua come meglio potevo, incapace di toccarlo visto che le braccia erano ancora tirate verso la spalliera del letto ed incatenate. Non le muovevo da fin troppo tempo, tanto che avevo perso la sensibilità e non mi sentivo più le spalle.
«Ngh-» un gemito roco, poi si spinse contro la mia bocca fino a farmi toccare i suoi fianchi muscolosi col viso, raggiungendo l'orgasmo e riversandosi dentro di me fino all'ultima goccia. Inghiottii a fatica, tossendo quando finalmente mi liberò le labbra sporche del suo seme. Stavo ancora riprendendo fiato - e chi aveva il tempo di inalare, mentre veniva? - mentre faceva strisciare accanto al mio cuscino una scodella piena di frutta. Avevo vinto. Una grama vittoria, ma mi accontentavo di mangiare, finalmente, azzuffandomi sulla ciotola tutto incurvato di lato, a fatica, usando la lingua e i denti e mordendo senza ritegno.
Lui mi fissava, quasi affascinato da quella fame selvaggia, anche se io gli avrei volentieri sputato in un occhio. Non mi sarei ridotto come un cane se lui mi avesse dato da mangiare prima. Inghiottii gli acini d'uva e morsi i dolci frutti tropicali già sbucciati e fatti a dadini. Per uno stupido, improvviso attimo, mi chiesi chi lavorasse lì e facesse una cosa sciocca come tagliare la frutta per lo schiavo del Re. Bel destino che abbiamo avuto, io e te.
«Padrone...» chiamai, ora con le labbra sporche non solo del suo nettare, ma anche di quello della frutta, appiccicoso e zuccherino. «... Devo andare in bagno.» cinguettai, drammaticamente punto dai miei bisogni fisiologici. Non ne avevo avuto bisogno, fino ad ora, solo perché non avevo niente nella pancia. Non che fosse diverso adesso - e non che mi stessi preoccupando anticipatamente della cosa - avevo solo bisogno di capire se, almeno per quel motivo, mi avrebbe liberato. E dove mi avrebbe condotto. Magari c'era un enorme bagno con teste di leoni d'oro che sputavano acqua. Me lo sarei aspettato.
Lui però si alzò dal letto, risistemandosi sulla testa il lungo copricapo bianco, che nascose le lunghe ciocche scure. Mi rivolse uno sguardo di lieta perfidia, poi scrollò le spalle e disse, lasciandomi completamente di stucco: «Fattela addosso.» Per un attimo, credetti di aver sentito male, tanto che sbattei le palpebre. «Qualcuno passerà presto a pulirti.» E se ne andò.
Ecco, mi sbagliavo. Avevo perso io.
Quel bastardo malato aveva del tutto cancellato i miei diritti umani, in favore della più pura umiliazione. Piuttosto che accettare di farmela addosso mi sarei suicidato mordendomi la lingua. E non era il problema peggiore: la consapevolezza che non mi avrebbe tolto le catene, per nessun motivo, rendeva impossibile capire come uscire di lì o intuire che cosa ci fosse oltre la porta della camera da letto. Che frustrazione.
Interminabili minuti dopo, la porta si aprì e, colui che entrò, non fu l'unico uomo con cui avevo avuto contatti e rapporti fino ad allora. Una maschera nera e canina con le orecchie a punta mostrava solo un paio di occhi d'onice che mi puntarono senza mostrare alcuna pietà per lo stato in cui mi trovavo. Non disse una parola: si richiuse la porta alle spalle, trascinando con sé un secchiello di bronzo e uno straccio.
«Ciao.» esordii, senza ricevere risposta, mentre lo stesso uomo-cane della pesatura del cuore toglieva la ciotola di frutta vuota dal letto e la sistemava sul pavimento, con l'intenzione di portarla via. «Tu saresti?» incalzai, ma ottenni solo il rumore dell'acqua, mentre immergeva il panno bagnato e lo strizzava fra le mani scure come l'ebano. Muscoloso e avvolto in un gonnellino grigio, la sua pelle sembrava scolpita nell'ardesia.
«Quindi non hai un nome.» borbottai, guardandolo sedersi al bordo del letto, al mio fianco. Poi premette lo straccio sul mio corpo, iniziando a strofinare con forza. «Ahia! Mi fai male!» Nei punti su cui strofinava la mia pelle diventava rossa. Si bloccò all'improvviso, scrutandomi immobile attraverso la maschera. All'improvviso mi tornò in mente quello che aveva detto mia madre prima di entrare nell'Oltretomba.
Ricorda, tutti indossano una maschera. E tu non devi mai, mai fidarti delle maschere.
Parlava di gente come lui o l'uomo-uccello? Avevo la sensazione che si trattasse di qualcosa di ben più complesso ed intricato di così. Come tutti i racconti che mia madre aveva narrato quando ero piccolo, c'era sempre qualcosa di più grosso dietro. Il pensiero del suo profumo, della saldezza delle sue braccia e del suono della sua voce, che avevo appena lambito, solo per pochi minuti, in quella carrozza fittizia, mi riempì di tristezza.
La mano dell'uomo-cane mi accarezzò uno zigomo, così delicatamente ed inaspettatamente che spalancai le palpebre. Quasi ne fosse stupito anche lui, ritrasse la mano, scottato. Nessuno disse altro, mentre ricominciava a pulirmi, inumidendo la pezza per passarla intorno alle mie labbra. Arrossii, sapendo di essere ancora sporco di sperma, ma lui non battè ciglio, quasi fosse perfettamente consapevole di quello che accadeva qui dentro.
«Ehi!» sussultai, quando la sua mano fu fra le mie gambe. Era solo per pulirmi, ma la cosa mi indispettì lo stesso. I suoi occhi, fissi sulle mie nudità, si sollevarono lentamente sul mio viso, alla ricerca di qualche permesso che non gli stavo dando ma di cui si accontentò, riprendendo il suo operato. Mi morsi le labbra, imponendomi di fare finta di niente, anche se ero imbarazzato a morte. Poi concluse, sollevandosi ed infilando la ciotola sporca dentro al secchio, pronto ad andare via. Gli fissai la schiena, con le palpebre affilate.
«Anubi.» disse, e la sua voce risuonò echeggiando da sotto alla maschera. Poi oltrepassò velocemente la porta, impedendomi di vedere cosa ci fosse nel corridoio, e sparì. Così ributtai la testa all'indietro sul cuscino e sospirai.
❖ ❖ ❖
Il sole stava iniziando a darmi seriamente sui nervi.
Dopo l'anno ad Ender passato senza poterlo mai vedere, costretto dentro alle miniere da prima dell'alba e fin dopo il tramonto, questa inverosimile, prolungata, infinita continuità di raggi luminosi mi stava facendo venir voglia di cavarmi gli occhi. Lo stomaco continuava a dolere e a richiedere cibo, la lingua impastata avrebbe ucciso per un goccio d'acqua e il mio corpo indolenzito avrebbe volentieri fatto carte false solo per sgranchirsi un po'. Anubi non era tornato a farmi visita, Osiride passava spesso negli intermezzi fra i miei sonnellini, schiacciati per scacciare la noia, risvegliandomi in modi sempre più creativi.
Non avevo ancora trovato una maniera per fuggire. E non ero ancora andato al bagno, tra l'altro. L'impellenza di lasciare quel maledetto letto, svincolandomi dalle catene, si faceva sempre più urgente man mano che passava il tempo. Finché arrivai ad un'unica conclusione possibile o immaginabile. Dovevo usare uno degli anelli. Ne avevo soltanto tre, tre da utilizzare per le emergenze che avrei affrontato in tutti i Regni dell'Otretomba. Sapevo di doverli usare con giudizio, ma questa era una di quelle occasioni che non lasciavano scelta.
Non conoscevo la differenza fra i poteri che avrei potuto scatenare, perciò sperai di scegliere quello giusto: allungai l'indice verso l'anello che avevo infilato sul pollice, il cristallo che scintillava di una luce smeraldo appena fioca. Spinsi il polpastrello con forza, ma non accadde nulla. Pigiai ancora più forte e, finalmente, sentii come uno scatto, susseguito dal crack del cristallo che si rompeva e diventava grigio spento, privo di magia.
Ciò che accadde non era nulla che potessi in alcun modo prevedere: fu come cadere dentro ad un pozzo, ma all'inverso. Cadere fuori. Come se fossi stato fino ad ora rinchiuso dentro ad un barattolo e qualcuno l'avesse stappato tanto velocemente da farmi schiantare all'esterno per via della pressione.
Mi sollevai dal mio corpo. Mi separai, sarebbe stato meglio dire. E fui in piedi, sul pavimento: dietro di me c'era ancora il letto e il mio fisico perlaceo, incatenato al letto, la testa ciondolante su una spalla, gli occhi chiusi, come se mi fossi addormentato. Io invece ero traslucido, riuscivo a vedere la stanza intorno a me attraverso la mia stessa pelle. Ero esattamente come avrebbe potuto essere un fantasma. Non sapevo come la cosa avrebbe potuto aiutarmi a fuggire, ma quando mi mossi verso la porta, quasi fluttuando, mi resi conto che la mia mano affondava dentro alla maniglia, passandoci oltre.
Così attraversai la parete, inconsistente come la nebbia, e l'impulso di nascondermi al passaggio di un servo che camminava a testa bassa fu soffocato, perché lui non diede nessun cenno di vedermi. Mi camminò accanto, la sua spalla mi sfiorò e invece che scontrarci, attraversò il mio corpo senza accorgersi di nulla. Era stupefacente. Del tutto inutile per la fuga, ma stupefacente.
Vagai per il corridoio opulento, le pareti decorate da iscrizioni d'oro e bassorilievi dipinti di rosso e azzurro, con piante di papiro situate ad ogni angolo in luccicanti vasi di bronzo.
Non seppi dire se ci fosse il famoso bagno con le teste di leone che mi ero immaginato, perché non lo trovai, imbattendomi invece in stanze stracolme di lettighe dove la gente era stesa con pigrizia ad imboccarsi vino e frutta a profusione - mentre io morivo di fame - ed altri si facevano bagni in vasche piene di latte e petali di rosa. Alligatori ingioiellati e piccoli quanto chihuahua passeggiavano fra la gente sbattendo le zampe a scaglie sul pavimento di marmo, rendendo il tutto follemente surreale. Passai attraverso le pareti, ancora una volta, oltrepassando magazzini con ceste piene di grano e provviste di ogni tipo.
Poi raggiunsi una sala che era perfino più lussuosa delle altre, se questo era possibile. Ed anche più affollata. Immediatamente notai che ad un capo della lunghissima tavola c'era Osiride, imperioso e regale col suo scettro nella destra e quel cappello conico che conteneva e nascondeva le anime della gente che aveva trucidato perché, secondo i suoi canoni, era indegna. Dal lato opposto del tavolo, a fronteggiarlo, un uomo dalla bellezza sfolgorante. Letteralmente. Avevo l'impressione che emanasse luce, dalla pelle dorata come i suoi capelli e i suoi occhi. Sembrava una statua fatta d'oro massiccio, solo che si muoveva, si adirava e sbatteva il pugno sul tavolo, come un qualsiasi essere dotato di raziocinio e motilità. Avrei potuto rimanere a fissarlo per l'eternità.
Invece, mi soffermai sugli altri componenti della tavolata. Uomini e donne, molti con indosso delle maschere animalesche e pochi con i volti scoperti. Tutti splendidi, tutti sfarzosamente ricoperti di gioielli, dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Nessuno di loro diede segno d'accorgersi della mia presenza. Ed inoltre, erano troppo preoccupati a litigare su un argomento che cercai di origliare, senza afferrarne l'interezza.
«Oh no, questa volta no.» esclamò una donna con la maschera da gatto, i gioielli dipinti che spiccavano sulla pelle scura, mentre lunghe treccine ondeggiavano quando scuoteva la testa. «Il mio turno è già avvenuto!» Schioccò la lingua. «Siamo sempre i soliti a dover proteggere la Mesketet.»
«Io dico che adesso è il vostro turno di venir divorati.» ringhiò la donna seduta subito accanto all'altra, una maschera da leonessa davanti alla faccia e i capelli nascosti da un velo blu notte che si univa alla tunica di spesso lino marrone. «A morte, a morte, a morte.» Batté il pugno sul tavolo a tempo con quella sua nenia inquietante.
«Calma, Sekhmet.» fu una delle poche donne col volto scoperto a parlare: la frangia dritta sulla fronte era cinta da un cerchietto d'oro, su cui sembrava sospeso un disco latteo simile ad una piccola riproduzione della luna. Vestita di bianco, lunghi capelli d'ebano le scivolavano fino alle scapole, riempiti di piume, mentre una collana spessa gli circondava spalle e collo.
«Non dirmi di stare calma!» sibilò la leonessa, facendosi ancora più rabbiosa.
«Perché non chiediamo al nostro Re di proteggere la barca della notte?» riprese la donna avvolta nel bianco, le labbra atteggiate in un sorrisetto di sfida verso Osiride. «O forse è troppo occupato a trastullarsi col suo nuovo schiavo?» Oh. Parlava di me.
«Non interpretare la parte della moglie gelosa, Iside.» rispose il Re della Duat, rivolgendo a quella che compresi fosse sua moglie un sorriso cattivo. «Sai anche tu come goderti gli schiavi.» Una coppia di perfetti schiavisti. Era assolutamente disgustoso. Iside rise, scuotendo la testa.
«Qualcuno dovrà pur assistere la Mesketet mentre io uccido la serpe.» esordì l'uomo completamente dorato dal fondo del tavolo, scintillando di una luce propria del tutto accecante. «Ed è meglio che scegliate in fretta.» La pericolosità nel tono lasciava intuire che fosse una minaccia.
«Padron Ra? Permette una domanda?» a chiedere era stato l'uomo-uccello che avevo visto anche durante la cerimonia di pesatura. Fu con grande sgomento, un pizzico di sollievo ed enorme incredulità che notai qualcuno alle sue spalle, dimesso come un semplice servitore e gli occhi bassi, fissi su un rotolo di papiro. Occhi color ametista.
Ezrael!
Urlai, ma il suono della mia voce spettrale si tramutò in un semplice pensiero dritto dentro alla sua testa. Nessuno, ancora una volta, parve rendersi conto di quello che stava succedendo intorno a loro. Eppure, il mio guardiano sollevò di scatto la testa dal papiro, sgranando leggermente gli occhi. Fu la reazione che mi serviva per capire che, finalmente, mi aveva sentito. Anzi no. A giudicare dal modo in cui fissava il punto dove mi trovavo, mi vedeva.
Non sapevo come, forse per via del nostro legame, forse per il sangue straeliano dentro alle sue vene. Mi vedeva eccome e, a giudicare dal suo sguardo scioccato, non capiva perché fossi una specie di fantasma nudo e ferito che fluttuava a qualche centimetro sopra il pavimento. Nemmeno io comprendevo come si ritrovasse a fare da assistente all'uomo-uccello, in una stanza affollatissima di creature che emanavano un potere oscenamente grande. Tutta quella gente lo faceva sembrare piccolo, anche se le sue ampie e muscolose spalle erano sensualmente esposte, indossando solo un gonnellino di lino come gli altri.
Helias?! Non riuscivo a trovarti! Come... Cosa è successo?
Mi stava squadrando sconvolto e la conversazione fra il luminosissimo Ra e l'uomo-uccello era passata in secondo piano, un brusio in sottofondo mentre dialogavamo nelle rispettive menti. Mossi le labbra per rispondergli, ma ancora una volta la mia voce gli arrivò direttamente dentro alla testa.
Nemmeno io, pensavo che non fossi riuscito ad entrare nell'Oltretomba! E' successo di tutto, ma sono vivo, devi aiutarmi.
Alzai i polsi semitrasparenti, ancora circondati dai ceppi dorati, che intrappolavano il mio vero corpo sul letto di bambù su cui Osiride piaceva tormentarmi.
Sono incatenato in una stanza non troppo lontano da qui. Osiride sostiene che io sia il suo schiavo. Devo scappare.
Quasi avessimo invocato la divinità attraverso il suo nome, il Re della Duat si alzò dal capotavola, lasciando il suo trono sgombro, mentre ancora Ra e i suoi seguaci dialogavano animosamente. Ezra lo seguì con gli occhi, il cui colore sembrava essersi fatto più cupo, minaccioso, carico di collera.
«Chi ti ha detto di smettere di scrivere!?» lo rimproverò l'uomo-uccello seduto davanti a lui, becchettandolo con l'estremità puntuta della maschera. L'albino abbassò la testa e riprese il suo lavoro, ma tornò a lanciarmi uno sguardo obliquo. Insieme stavamo notando che incominciavo lentamente a sparire, sbiadendo come una macchia su una camicia immersa nella candeggina.
Ascolta, so che cos'è la pelle del caos.
Mi schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. Capii immediatamente che si riferiva al primo verso della profezia per trovare i frammenti della spada capace di uccidere il Redivivo. La spada di Qiana. L'Osso. "La pelle del caos sventrare". Volevo chiedergli ulteriori spiegazioni, ma mancavano pochi secondi prima del mio totale dissolvimento.
Vengo a salvarti.
Fu l'ultima cosa che disse. Poi un portentoso ceffone mi riportò bruscamente alla realtà. Sbattei le palpebre, con le orecchie che mi fischiavano e la vista annerita che pian piano metteva a fuoco il mondo circostante. Ero ritornato dentro al mio corpo e venni sopraffatto dalla sensazione imprevedibile di pesantezza. Organi e muscoli e ossa e sangue. La leggerezza di pochi istanti prima era scomparsa e, al suo posto, erano tornati la fame e il dolore. Specialmente alla guancia schiaffeggiata, che aveva preso a pulsare.
Sollevai gli occhi azzurri sull'uomo che troneggiava su di me con lo sguardo di un avvoltoio che cala sulla carne ancora fresca e mi corrucciai, stringendo i pugni ed agitando le catene. «Be'? Cos'hai da guardare? Ora non posso neanche dormire?» sbuffai, intontito dal potere dell'anello abbastanza da dimenticarmi di rientrare nei panni dello schiavetto servizievole. Un altro schiaffo mi spinse la faccia di lato, alla guancia opposta rispetto a quella colpita subito prima. Adesso entrambi i lati della faccia mi dolevano.
«Ricordati di portarmi rispetto.» sibilò, facendo strisciare una mano sul mio corpo, le dita sul mio petto, sul mio ventre, lungo la curva del bacino e poi intorno alla mia virilità, stringendo tanto forte da farmi sussultare. Mi divincolai, aggrottando la fronte per via del fastidio crescente.
«Sme-smettetela...» mugolai, coi pugni serrati e le unghie che mi erano affondate fin dentro al palmo, scorticandomi la pelle. Lui mi separò le cosce con la mano libera grazie ad uno strattone furioso e i ceppi che mi incatenavano le caviglie tintinnarono con un lamento. «Oh fanculo... Bastardo!» ringhiai, incapace di stare buono come avevo fatto fino a poco tempo prima. Il lungo periodo che oscillava fra la Baia del Teschio e la permanenza sull'Idra Spinata come Capitano mi aveva reso molto più scurrile ed impaziente di quanto fossi. O forse, restare incatenato così a lungo iniziava a ledere perfino il mio autocontrollo, abituato a restare sotto copertura anche nei casi più assurdi, come quando avevo fatto parte dell'harem di Costantinopoli.
Essere lo schiavo di un Dio era molto meno spassoso.
Poi, proprio mentre si tirava via un lembo di lino dalla cintura preziosa aprendosi il gonnellino, accadde quello in cui avevo concentrato tutte le mie speranze in questi giorni. Un bagliore viola. Fu troppo veloce perché Osiride potesse fare qualcosa per impedirlo: un'ombra pallida calò sul letto alle sue spalle e gli tagliò la gola di netto.
Il sangue mi piovve addosso in schizzi cremisi proprio mentre l'uomo correva a toccarsi il collo, levandosi dalla carne il minuscolo coltellino che gli era rimasto incastrato nella carotide. Per un attimo, tutto quello che lessi sull'espressione del Re della Duat fu... Sussiego. Rigido, superbo nella propria regalità, come se trovasse troppo assurdo che qualcuno gli avesse appena aperto la gola con un coltellino così piccolo, specie mentre io ero ancora incatenato, apparendo dal nulla. Poi lo raggiunse la consapevolezza e lo sguardo d'ebano gli lampeggiò di rabbia.
Ma era troppo tardi. Cadde in avanti, il corpo ancora oscenamente esposto, accucciato sopra di me a riversarmi addosso tutto il suo sangue, mentre cercavo di scrollarmelo via con ginocchiate e spallate. Poi qualcuno mi aiutò, spostandolo con uno strattone per farlo cadere giù dal letto. Il volto del mio salvatore si palesò quando si mise ad armeggiare con le catene: avevo capito che fosse lui nell'esatto momento in cui si era teletrasportato nella stanza.
«Ezra!» ululai, felice come non mai di vederlo.
«E immaginare che eri così vicino...» sospirò, gli occhi pieni di collera mentre cercava di capire come liberarmi, prima di mettersi a cercare fra le pieghe del gonnellino di Osiride, trasformato in un bozzo di tessuto sul letto. Scosse la testa, non trovando niente. «Facciamo alla vecchia maniera, allora.» Strinse una mano sul mio corpo, l'altra armeggiava con un braccialetto intorno al suo polso. Capii immediatamente che voleva teletrasportarmi via insieme a lui.
«Aspetta!» Mi mossi incerto sul letto. «Il cappello! Prendiglielo!» Aggrottò la fronte ma non fece domande, afferrando il copricapo conico che era rotolato sul pavimento molto prima che il Re della Duat venisse sgozzato. Quando Ezra lo sollevò, riuscii ad intravedere all'interno del cono tanti puntini azzurri e luminosi. Anime.
«Muoviamoci. Non resterà così ancora per molto.» il mio guardiano accennò al corpo riverso sul pavimento e, senza ulteriori indugi, ci teletrasportammo lasciando il letto vuoto e i ceppi a penzolare dalle assi di bambù del letto.
Finalmente libero e finalmente in piedi, affondai i piedi nudi nella sabbia e mi incurvai in avanti, le mani strette sulle ginocchia e la faccia rivolta verso il basso, sputando il sangue di Osiride, che mi era colato in bocca. «Che vuol dire che non resterà in quel modo ancora per molto?» esclamai, mentre lo straeliano mi consegnava il gonnellino del mio schiavista perché potessi usarlo per coprirmi. Anche se avrei preferito dargli fuoco, me lo abbottonai intorno ai fianchi senza fare troppe storie.
«Pensi che un Re dell'Oltretomba morirebbe così facilmente?» sbuffò: in effetti avrebbe dovuto trasformarsi in un'anima come avevano fatto le persone che erano state sbranate da Ammit sotto ai miei occhi. Proprio quando iniziavo a capire il funzionamento del Regno dei Morti le mie idee venivano ulteriormente incasinate. Ezrael intercettò il mio sguardo confuso e si spazientì. «Sta a capo della Duat. Ovvio che non muore così. Probabilmente non muore affatto. Lo abbiamo solo rallentato.»
«Ma cazzo!» sbraitai, strofinandomi le mani sul petto per togliermi di dosso tutto quel sangue, con l'unico risultato di spalmarlo peggio sulla mia pelle e sugli ultimi residui di garze avviluppate intorno alle mie braccia. Me ne liberai in fretta, constatando che ero effettivamente guarito e gli unici segni rimasti erano quelli delle catene intorno ai polsi e caviglie e quelli delle mani di Osiride sulle guance per via dei ceffoni. «Allora sbrighiamoci.»
Mi guardai finalmente intorno. Ezra ci aveva teletrasportati non troppo lontano dal palazzo in cui io ero prigioniero, una specie di immenso tempio scavato nella bauxite con colonnati imponenti e sfingi dall'aria minacciosa appollaiate agli angoli dell'ingresso. Intorno a noi il deserto dorato si espandeva a vista d'occhio, interrotto da un singolo fiume intorno al quale s'affastellava la vegetazione, che spuntava dalle acque azzurre colorandole di verde. Alte palme smeraldo e spighe di grano ondeggiavano dolcemente al ritmo del vento e al suono lontano di tamburi che si innalzava sempre di più. Tamburi che assomigliavano in modo piuttosto chiaro a degli allarmi.
«Dove stiamo andando?» domandai, seguendo l'albino che mi tirava per il polso accostandosi al fiume, acquattato fra le fronde per cercare di spostarsi furtivamente. Ci teletrasportò diversi metri in avanti e il bagliore della magia, da lontano, poteva anche essere confuso con il riflesso dei raggi del sole sull'acqua. Una mossa intelligente, quella di Ezra.
«Dobbiamo salire sulla Mesketet prima che lo faccia qualcun altro.» rispose, guardandoci alle spalle per assicurarsi che non avessimo inseguitori alle calcagna. Per il momento, ancora niente.
«Sulla che?» Mi sembrava di averlo già sentito.
«La nave della notte!» strepitò come se fosse ovvio, poi scosse la testa, ricordandosi dov'ero stato io fino ad allora, mentre eravamo separati e lui stava a fare il servetto dell'uomo uccello.
«Mi spieghi cosa stavi facendo prima di trovarmi? Come sei arrivato nella Duat e cos'è successo?» Lo fissai esasperato.
«Dopo essere saltato insieme a te sono direttamente piombato vicino al fiume, non troppo lontano dal palazzo.» Indicò il punto da cui eravamo venuti. «Stavo per essere divorato da una mandria di coccodrilli, ma un gruppo di guardie mi ha tratto in salvo e portato nel castello. Mi hanno scambiato per un morto che scorrazzava liberamente per i campi ignorando i propri compiti e per questo mi hanno assegnato mansioni interne.» Non aveva senso: lo scheletro-lampo mi aveva assicurato che i vivi passavano per forza da lui, prima di arrivare in un Regno dell'Oltretomba. E poi, avevano dato per scontato che avesse oltrepassato la pesatura del suo cuore e fosse stato accettato, mentre io avevo patito tutti quei guai? Era semplicemente ingiusto.
«Perciò sono finito a fare l'aiutante scriba di Thot.» proseguì, aggiungendo affinché capissi di chi stava parlando: «L'individuo con la maschera da uccello.» Annuii. «Annota qualunque cosa e ha mappe di tutta la Duat. Così ho scoperto come andarcene da questo regno.» Mi raddrizzai, interessatissimo all'informazione. «Osiride non è l'unico a comando di questo mondo. Al di sopra di lui c'è Ra, ma è troppo occupato a tenere a bada il Caos per interessarsi delle faccende che riguardano i comuni mortali.» Ricordai l'uomo che pareva intagliato nell'oro, seduto dal lato opposto del tavolo, in perfetta opposizione ad Osiride.
«In che senso "tenere a bada il Caos"?» Le parole della profezia mi tornarono in mente. La pelle del Caos sventrare. «Che cos'è la pelle del caos?» incalzai, quando mi venne in mente che Ezra, dentro a quella specie di assemblea, mi aveva detto di averlo scoperto.
«E' letteralmente pelle.» Strinse gli occhi, mentre le fronde di un papiro gli frusciavano vicino al viso. A qualche metro da noi notammo un paio di coccodrilli nuotare pigramente sul pelo dell'acqua e ci teletrasportammo prima che ci fiutassero. «La pelle di Apophis, il serpente del Caos, il nemico della Duat che Ra combatte per evitare che il mostro ingoi il sole.»
«Be', ogni tanto potrebbe anche farlo, visto che tutta questa luce mi ha veramente stancato!» esclamai, innervosito, ma il ragazzo mi lanciò uno sguardo di biasimo. Sbuffai.
«Per andare ad affrontarlo sale sulla Mesketet accompagnato da un convoglio di guerrieri che lo aiutano a sconfiggere il serpente.» continuò a camminare quatto seguendo il corso del fiume mentre io gli stavo dietro, senza perdermi la spiegazione.
«A me nessuno di quei coraggiosi guerrieri sembrava disposto a partecipare.» dissi ironico, ricordando come litigavano per sottrarsi al loro compito.
«Tanto meglio. Dobbiamo arrivare prima noi.» affermò cupo, notando che parecchio più lontano, alle porte del palazzo, una lunga fila di soldati in gonnellino, sandali e lancia si stava muovendo per darci la caccia. Alla testa della spedizione c'era Osiride, senza il suo cappello, che teneva Ezra sotto braccio come bottino di guerra. A cavallo dell'enorme corpo da ippopotamo di Ammit, il coccodrillo faceva schioccare le fauci, sicuramente in ricordo di come lo avevo ridotto. Bramava vendetta? Possibile.
«Perciò rubiamo la barca, ammazziamo il serpente, gli prendiamo la pelle e scappiamo dalla Duat.» Lo facevo sembrare un gioco da ragazzi. Anche se, quanto poteva essere difficile uccidere un serpente? Ero abbastanza sicuro che non si trattasse di un comunissimo rettile. «Hai detto che sai come andarcene di qui. Anch'io so qualcosina.» Indicai il cappello e gli raccontai di quello che invece era successo a me, mentre proseguivamo a passo serrato ma furtivo costeggiando la vegetazione per restare nascosti, finché non ci venne in mente l'idea di renderci invisibili.
Gli raccontai di Xolotl, delle anime che valevano come moneta e che servivano per pagare un passaggio fra i regni. Quello sembrava saperlo, ma ovviamente non sapeva com'ero finito a fare lo schiavo di Osiride: man mano che gli spiegavo, sentivo il suo silenzio farsi più pesante.
«Sono sempre più felice di averlo sgozzato.» sibilò e anche se l'invisibilità mi impediva di guardarlo, avrei giurato fosse stravolto dalla rabbia. «Sbrighiamoci. Voglio lasciare molto spazio fra noi e questo regno, non voglio essere il responsabile del nostro fallimento e rovinare tutto solo perché voglio uccidere un'altra volta il Re della Duat.» La furia che gli invadeva la voce mi provocò una strana, piacevole sensazione, come se fosse una conferma: nonostante tutti gli screzi che c'erano stati fra noi, adesso eravamo più che mai una squadra. Anzi, le cose erano un po' più complesse di così, visto quello che avevamo fatto l'ultima notte sulla nave, o una seconda volta nell'hotel infestato.
Le mie riflessioni s'interruppero quando notai che il fiume ad un certo punto sembrava interrompersi: in realtà scendeva in una cascatella verso il basso, sparendo oltre un canyon stretto di roccia bruna-rossastra che copriva la luce del sole seminando un'ombra improvvisa. Proseguii lungo il sentiero scosceso facendo attenzione a non inciampare attirando l'attenzione di coccodrilli o inseguitori, che anche se lontano avrebbero sentito rumori perché amplificati centinaia di volte nel silenzio del deserto.
«Ezra!» sussurrai, tastando lo spazio davanti a me in cerca della spalla invisibile dello straeliano: a giudicare da ciò che avvertii al tatto, gli stavo toccando la nuca, strattonandogli una ciocca di capelli. «Guarda!»
In mezzo alle pareti strette dei canyon una grande zattera dorata era appena emersa dalle acque, dondolando fra i flutti con leggiadria, come se non avesse peso, in attesa che qualcuno ci salisse sopra. Con un balzo fluido ci saltammo su, tenendoci stretti per mano per non caderci addosso, essendo ancora invisibili. Poi Ezra afferrò un remo ed io presi quello all'angolo opposto dell'imbarcazione, cominciando a remare per seguire la corrente: poco dopo ritornai invisibile, ma a quel punto la tenebra ci aveva avvolto.
Il sole sembrava un pallido tuorlo d'uovo andato a male da quella zona del deserto, mentre le gole di roccia continuavano a stringere intorno al fiume creando un'imprevedibile oscurità. Da lontano riuscivamo a sentire gli schiamazzi dei soldati della Duat, accompagnati da Osiride, Anubi, e un mucchio di altra gente mascherata che avevo visto nella stanza dell'assemblea. Tuttavia, la zattera aveva ormai acquistato velocità e non eravamo più noi a controllarla, ma l'acqua stessa a manovrarla come per magia. Mi tenevo stretto al remo solo per non cadere.
«Tieniti forte!» urlò il ragazzo dagli occhi glicine, mentre schizzi d'acqua gli finivano addosso e le ciocche d'argento gli sferzavano le guance. Notai in ritardo della cascata che ci aspettava a qualche metro più avanti: mi acquattai a terra, tenendomi stretto alle assi della zattera mentre quella superava il dirupo e faceva un salto nel vuoto, verso la superficie piatta di un immenso lago che parve sul punto di svuotarsi tutto quando atterrammo con un gran fragore.
Tutti intatti ma bagnati dalla testa ai piedi, ci alzammo in piedi con cautela, in equilibrio instabile sull'imbarcazione che ogni tanto sussultava per i movimenti imprevedibili dell'acqua. «E ora?» domandai, fissando verso lo straeliano, che invece guardava ad occhi sbarrati dietro di me. Non mi serviva voltarmi per capire: vedevo un'enorme ombra stagliarsi alle mie spalle e riproiettarsi sulla zattera e sull'acqua proprio davanti ai miei occhi. Deglutii, rendendomi conto solo allora che ero completamente disarmato. Girai su me stesso molto, molto lentamente, e dovetti soffocare un urlo.
Quando parlavano di serpente del caos non immaginavo che il serpente in questione fosse grande quanto tutta Skys Hollow, con la coda che gli si attorcigliava in spirali infinite sotto al lago, al cui centro delle spire c'era la nostra piccola zattera. Enormi occhi di un bianco luminescente troneggiavano su una testa da cobra, le scaglie ricoperte di spine e una doppia fila di denti che ogni tanto si apriva per far saettare fuori una gigantesca lingua biforcuta che stillava acido: ogni gocciolina che cadeva sulla zattera iniziava a fumare.
«Ezra...» chiamai a voce bassa, con cautela. Il ricordo di essere stato quasi ammazzato nei Regni del Coas dal veleno di serpente mi fece accapponare la pelle. «Ezra... Le armi..» Lui doveva averne sicuramente qualcuna. Solo che lo straelano mi fissò congelato, scuotendo debolmente la testa. Iniziai a sudare freddo. Alaister non mi aveva insegnato a combattere i mostri, e soprattutto non disarmato. Per quanto affermasse: il coltello non è l'importante, sei tu l'arma qui ci voleva definitivamente un miracolo. Mi mossi velocemente verso il bordo della zattera, intenzionato a sfruttare ancora per un poco l'effetto sorpresa: Apophis non ci stava attaccando perché non si aspettava noi, evidentemente.
Girai la perlina magica del braccialetto intorno al mio polso e una zaffata di fuoco mi uscì dai palmi delle mani, scagliandosi contro il muso e gli occhi della serpe, intenzionato ad abbrustolirlo a puntino. La creatura però fece scattare la mascella e il vento generato dal suo schioccare di denti rischiò di farci venire le fiamme addosso, così smisi immediatamente. Non fu molto felice dell'attacco ai suoi danni, tanto che con un colpo di coda nascosta in acqua frustò la zattera e la sollevò a diversi metri dalla superficie del lago: in un attimo mi ritrovai in caduta libera, un tuffo nel vuoto verso... Verso le fauci spalancate di Apophis, che mi attendeva con la bocca aperta e la giusta angolazione per farmi finire oltre alle sue zanne.
Armeggiai con la perlina del teletrasporto un attimo prima di caderci dentro, solo che quella non funzionò. Tutti i cristalli intorno al braccialetto che mi donava quel potere in particolare erano diventati grigi. Avevo esaurito gli usi durante la pesatura del mio cuore. Trasalii, atterrando dentro alla bocca viscida del serpente, mentre ritiravo le gambe appena in tempo perché il mostro non me le tranciasse chiudendo le fauci.
L'ultima cosa che sentii fu l'urlo di Ezra, poi la serpe reclinò la testa all'indietro e io scivolai inesorabilmente lungo la sua gola: un cunicolo viscido e soffocante, tutto curve, che mi pizzicava la pelle. Cercai di frenare la mia caduta tenendomi con le unghie alle pareti strette della gola di Apophis, ma era tutto troppo scivoloso e ripido per fermarsi.
Poi il cunicolo finalmente si aprì e con uno sploff riecheggiante caddi nello stomaco del serpente, centro ad una calda pozza di acidi che mi stava corrodendo il gonnellino e facendo arrossare la pelle. Non potevo restare lì per più di cinque minuti, ne andava della mia vita. Non che vedessi molte vie d'uscita: lo stomaco era un cimitero di piccole ossa ed armi che non erano mai state digerite. Ne aveva mangiata di gente, questo qui.
«EZRAAAAA!» urlai, sperando che la mia voce lo raggiungesse, ma si limitava a riecheggiare fra le pareti dello stomaco del serpente. Afferrai l'elsa di una spada che sporgeva da una pozza di acidi, ma quando la tirai fuori notai che la lama era molle come gelatina. Quello era il destino che mi aspettava? «No, no e no.» Provai a volare verso il tratto di gola da cui ero venuto, ma il respiro della bestia era come un vento inverso: mi ributtava giù. Imprecai di nuovo, addossandomi ad una parete dello stomaco e premendoci contro le mani: attivai una fiammata ma fu una pessima idea, perché rese l'aria rovente e fece ribollire l'acido spingendomi a nuotare lontano da quel punto per non sciogliermi seduta stante.
«Cazzo...» Provai a ghiacciare prima un osso per usarlo come arma, poi lo stesso stomaco, ma si scioglieva tutto così in fretta da annullare il potere. Ero sotto scacco. «No, per favore!» mugolai, stringendo i pugni. Che cosa dovevo fare? Che cosa potevo fare? Il mio sguardo si soffermò sui miei pugni stretti.
Lì dove un paio di anelli scintillavano come un richiamo. Anche questa era decisamente un'emergenza. Sapevo che me ne sarei pentito in seguito, quando avrei avuto ancor più bisogno di quei poteri. Ma ne necessitavo anche adesso e non potevo perdere altro tempo. «Ti prego, funziona, ti prego.» sussurrai, spingendo un dito contro il rombo di cristallo che scintillava sul mio dito indice. Accadde istantaneamente: il rombo violento di un'esplosione di cui io ero l'epicentro si propagò dal mio corpo come un cerchio di fuoco, spazzando via tutto quello che avevo intorno e disintegrando in un sol colpo il tratto del corpo di Apophis dov'ero intrappolato io.
Mezzo corpo del serpente saltò in aria e atterrò nel lago fra i movimenti spasmodici del resto della coda, che privata di un comando si agitava nell'acqua creando una vera e propria tempesta. La zattera si era rovesciata ed Ezra si reggeva al bordo cercando di non farsi spazzare via dalla combo violenta dell'esplosione e delle spinte sotterranee causate del corpo del serpente arrotolato dentro al lago, mentre pezzetti di mostro e sangue piovevano dall'alto. Finalmente libero, annaspai fra i flutti e gli schizzi tentando di non restare travolto, cosa che mi fu possibile soltanto grazie alla mano dell'albino: mi aggrappai ad essa con le dita scivolose.
«Helias, la pelle! Prendila!» esclamò, guardando verso il relitto della serpe nelle mie vicinanze che aveva finalmente smesso di agitarsi ed iniziava magicamente a sciogliersi come neve al sole. Anche la pelle si stava dissolvendo, perciò allungai repentino il braccio per afferrare quello strato spinoso a scaglie e non appena le mie dita lo toccarono ebbi un inaspettato fremito gelato. Nel mio palmo quel fazzoletto di pelle gelatinosa si ritrasse e si rimpicciolì fino ad assumere una consistenza piccola e solida: sembrava una pietra, invece mi resi conto che era un pezzo d'osso acuminato simile ad uno spillo.
«Ahh!!» gemetti, perché prima di riuscire ad afferrarlo mi bucò la carne e mi infilzò il palmo, infilandosi sotto un lembo di pelle che si richiuse all'istante senza versare nemmeno un goccio di sangue. «Ma che diavolo?! Mi si è ficcato nella mano!» sussultai, mostrando ad Ezra il palmo immacolato.
«Andiamo... Sbrigati!» Con un cenno del capo mi indicò la cascata da cui eravamo caduti: truppe di soldati si sporgevano a guardarci con fare minaccioso, prendendo la mira per scagliarci contro una pioggia di lance. Ci tuffammo sotto il pelo dell'acqua e usammo la zattera come scudo. «Seguimi, l'uscita è qui vicino, la proteggeva il serpente.» sussurrò e il suo fiato riempì di bollicine l'acqua vicino alle sue labbra sottili. Inalò un profondo respiro ed infine si spinse sott'acqua, tirandomi con lui ed aiutandomi viste le mie scarse - se non praticamente nulle - capacità di nuotatore.
Una lancia superò la superficie del lago e sfrecciò con un turbine di bolle proprio vicino a me, che guizzavo verso il fondale dove le spire arrotolate del serpente si erano rinsecchite. Sotto al corpo del gigantesco rettile vedevo scintillare qualcosa. Una fenditura, simile a quella che avevo superato per raggiungere la Duat. Non potevo nuotarci attraverso, la spaccatura scintillante era chiusa, come sigillata, nonostante crepitasse d'energia in attesa di qualcosa. A corto di fiato e con le frecce che puntellavano il lago e si ficcavano nella terra limacciosa fra me ed Ezra, gli tirai via il cappello di Osiride, che ancora teneva sotto braccio, rovesciando il cono verso il portale.
Mi aspettavo accadesse qualcosa, invece piccole sfere di luce che pulsavano d'azzurro si limitarono ad uscire fuori come delle meduse luminescenti, galleggiandoci intorno. L'albino mi lanciò uno sguardo a metà fra il perplesso e l'implorante, lottando per restare sul fondo e non salire a galla. Avevamo davvero bisogno di respirare, ma se fossimo usciti ora ci avrebbero catturato ed ucciso. Gorgogliai una parolaccia, afferrando un'anima - aveva una consistenza stranamente calda e gelatinosa contro le dita - per lanciarla verso il passaggio quasi fosse una pallina. Quando quella toccò i lembi sigillati del varco, all'improvviso tutte le altre anime che ci nuotavano intorno corsero ad imitarla.
Il portale si spalancò.
Non mi soffermai a guardare cosa ci fosse oltre. Lasciai la mano di Ezra e mi tuffai all'interno, in disperata carenza d'ossigeno.
Prendendo ampie boccate, restai per un attimo steso a pancia in su, immobile, le braccia e le gambe aperte, a sgocciolare sul terreno. Sopra di me solo un infinito cielo notturno, così pieno di stelle da trovarlo uno spettacolo sconvolgente. Qualcosa di rosso mi sfiorò la guancia e in ritardo mi resi conto che si trattava dei petali di un papavero. Mi tirai stancamente a sedere, un'unica macchia discordante in un campo di fiori color cremisi.
Fu così che lo notai. Il mio cuore, il mio corpo, la mia anima ebbero un improvviso sconquassamento.
Oltre la valle di papaveri. Oltre il piccolo lago di ninfee. Oltre il letto a baldacchino che ci nuotava magicamente dentro. Sotto ai veli, sopra alle coperte candide, l'uomo pigramente steso mi fissava con un ghigno dolce e beffardo. Gli occhi intensi blu notte, i capelli rosso sangue, due irriverenti fossette sulle guance.
Yul Pevensie mi guardò e continuò a sorridere. Mentre io, invece, iniziavo a corrergli incontro.
❖ ❖ ❖
*NDA - Un soddisfacente angolo laureato*
Hola a tutti!
L'ho già detto in annuncio generale, ma sì, ho compiuto un grande passo e la cosa mi lascia finalmente del tempo libero per riprendere fiato e dedicarmi a scrivere, scrivere e scrivere. Abbiamo raggiunto il capitolo 30 (anche se vedete il numero 26, fra il prologo e i pov misteriosi sono 30 ormai)! Se penso al fatto che Sfavillo si conclude in meno di 30 cap. mi dico "wow, fino a che punto della storia sono arrivata!" e mi duole ammettere che non siamo ancora alla fine, ci vorrà ancora un pochino... (non tantissimo, ma un pochino sì). Mi sento un po' tremenda a lasciarvi con questo cliffhanger ma al tempo stesso sono molto, molto soddisfatta... Non temete, aggiornerò molto presto!
Alla prossima <3
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