25. L'Assassino e Osiride
Trigger warning: questo capitolo contiene non-con, perciò i cuoricini sensibili che leggono sono avvisati!
❖ ❖ ❖
«E' impossibile non avere nemici, che non nascono dalla nostra volontà di averli, ma dal loro irresistibile desiderio di avere noi.»
- José Saramago
La verità? Non avevo nessun piano infallibile in mente.
Il cuore pompava instancabilmente la mia agitazione, riempiendomi le orecchie di battiti che risuonavano come rulli di tamburi prima dell'inizio di uno spettacolo che non mi sarebbe piaciuto. Avevo ancora le mani incatenate da ceppi pesanti come macigni, mentre le armi appese ai fianchi risultavano difficili da raggiungere o anche solo impugnare se le avessi sfoderate. Questo non significava che non sarei stato disposto ad usarle lo stesso: ero stato allenato a combattere anche nelle situazioni peggiori. E questa era una di quelle. Il problema, però, era che non sapevo di cosa fossero capaci i tre uomini di fronte a me.
«Non voglio essere mangiato, non voglio essere mangiato, non voglio...» Sentii bisbigliare in sottofondo dal ragazzo incatenato subito dietro di me, a cui lanciai uno sguardo con la coda dell'occhio, da sopra alla spalla. Si teneva la testa fra le mani e continuava a guardare il pavimento con gli occhi sgranati, in piena crisi psicotica. Volevo tanto girarmi e urlargli contro che ero io lì, quello che rischiava di essere divorato. Per fortuna evitai di farlo.
Invece, tornai a rivolgere l'attenzione verso la sala che avevo di fronte: l'uomo-cane aveva iniziato a muoversi, incombendo verso di me come una funesta promessa di morte.
Mi sentii fremere le gambe per l'istinto primordiale di reagire, fare qualcosa, qualsiasi cosa. Eppure non osai muovere un muscolo, mi limitai a far roteare le pupille per la stanza in cerca di un'idea.
Ezra?! Rispondi, dove diavolo sei?
Un ultimo tentativo implorante, sperando che il mio guardiano si palesasse proprio al momento del bisogno come era successo tante volte, ultimamente. Strano ma vero: stava iniziando a mancarmi. Mi ero abituato alla sua presenza, al suo mugugnare imbronciato, ai suoi sguardi duri e all'idea che avessi qualcuno su cui contare quando le cose si facevano davvero difficili. Ma non c'era.
E io dovevo fare i conti col fatto che era esattamente come ai vecchi tempi: dovevo farcela da solo. Ero sopravvissuto ad Ender, che era praticamente l'Inferno in Terra. Sarei sopravvissuto anche all'Oltretomba.
L'uomo-cane mi aveva raggiunto. Spinsi le dita sotto ai ceppi, raggiungendo a fatica col polpastrello una perlina del braccialetto magico, schiacciato nella pelle del polso. Era perfino difficile toccarla, per cui dovetti impegnarmi particolarmente usando la punta dell'unghia per ruotarla su se stessa. Quando la mano color carbone dell'individuo mascherato si allungò verso il mio petto, dovette affondare nel nulla. Gli ero scomparso davanti, con un improvviso lampo viola, che crepitò nell'aria come un fulmine a ciel sereno.
La mia intenzione era quella di teletrasportarmi in quel pacifico campo di grano, accessibile solo se superavi l'esame della bilancia, mentre io ero intenzionato a saltare direttamente tutte le procedure e darmela a gambe. Mio malgrado, non fu lì che arrivai. Mi teletrasportai invece fra la fila di colonne e mi bastò un passo per raggiungere l'enorme portone che mi separava dalla fuga. Ero anche libero dalle catene, per cui avrebbe dovuto essere tutto più facile.
Ma ormai dovevo aver imparato che, ogni volta che volevo scappare da un luogo, le porte non si aprivano mai. Era successo nel castello del vampiro, in Transilvania, ed anche nell'hotel maledetto nel Regno del Caos. Dovevo aver compreso la lezione che il destino stava cercando di darmi: diffida delle porte chiuse! Solo che ci speravo sempre.
Ovviamente, i battenti non si aprirono. Non sussultarono. Non si mossero nemmeno di un millimetro. La porta sembrava pesare tonnellate sotto alla pressione dei miei pugni, non importava quanto picchiassi sulle ante chiuse. «Forza... Maledizione... Andiamo!» sibilai, a denti stretti, puntando il peso del corpo sui talloni mentre esercitavo tutta la forza di cui ero capace sui palmi, spingendoli contro la porta. Niente di niente.
«Ammit!» una voce tonante riecheggiò all'interno della sala e frettolosamente mi guardai indietro: il Signore della Duat, ancora seduto sul suo trono, mi fissava con la stessa intensità con cui si guarda un insetto fastidioso. Al suo richiamo, la bestia con le fauci da coccodrillo scattò sulle zampe e caricò verso di me.
Oh cazzo.
Sguainai i pugnali a mezzaluna, le dita trovarono la loro collocazione perfetta nell'elsa di pelle mentre il pollice scorse velocemente lungo i cristalli incastonati nell'impugnatura, che attivavano i poteri necessari ad avvelenare, infuocare o congelare le lame. Scelsi la prima ipotesi e mi sembrò che il cristallo si iniettasse di una luce verde acido.
Aspettai che la bestia mi raggiungesse e un attimo prima che mi fosse addosso scartai di lato, rotolando sul pavimento e rimettendomi immediatamente in piedi per fronteggiare la creatura. Ovviamente non mi ero dimenticato dei tre uomini alle mie spalle, ma non potevo anche badare a loro mentre quella cosa mi puntava senza rischiare di perdere la testa.
Aveva sbattuto il muso irto di zanne contro alla porta ma il contraccolpo subito non l'aveva intaccato minimamente: riprese l'inseguimento, sbattendo le zampone da ippopotamo mentre quelle da leone graffiano il pavimento di pietra producendo un suono tremendo. Prima che potesse raggiungermi, mi teletrasportai sopra di lui, i pugnali sollevati sopra alla testa che abbassai nello stesso momento in cui gli montai a galoppo.
Le lame si conficcarono nella nuca della bestia e usai l'elsa delle armi per tenermi in groppa, quasi fossero le parti del pomolo di una sella con cui trattenersi ad un cavallo imbizzarrito. Emise un orribile verso di dolore, incominciando ad agitarsi per scalzarmi via da sopra di lui, ma io mi tenni forte, speranzoso che tutto il veleno di cui quelle armi erano dotate s'infilasse il più possibile dentro a... Ammit, così si chiamava?
Mentre mi sballottava a destra e a manca e la mia testa ballava sulle spalle, coi capelli che mi frustavano la faccia, notai il modo totalmente sconvolto con cui mi osservavano coloro che erano ancora incatenati ed in fila, con le bocche spalancate e gli occhi sbarrati. Riuscii perfino a vedere l'uomo-uccello, che prendeva appunti anche in quel momento assurdo. Quello con la maschera da cane era immobile esattamente nel punto dove ero sparito.
Non mi stavo esattamente preoccupando di quello che sarebbe successo dopo aver ucciso Ammit. Ero troppo impegnato a sopravvivere, sebbene Alaister mi avesse sempre insegnato a pianificare e ad anticipare le mosse di un nemico. Questo andava oltre ogni cosa imparata. E magari, se fossi riuscito a domare il coccodrillo e ad usarlo contro il suo padrone...
«Ora. BASTA.»
Il battito del bastone del Re della Duat rintoccò per tutta la stanza, con un fragore innaturale per essere semplicemente uno scettro che colpiva il pavimento. Le teste di tutti scattarono verso il trono, anche quella della bestia. Anche la mia. E non capii cosa stesse per succedere, fin quando non accadde.
Un ammasso di rovi fuoriuscì dal suolo con così tanta ferocia da spaccare la pietra, prima di travolgermi con altrettanta forza, abbastanza da sbalzarmi via da Ammit e spiaccicarmi al suolo sotto una montagna di liane spinose che mi lacerarono la pelle esposta come migliaia di aghi acuminati. La sensazione fu talmente tremenda che non riuscii a controllare le mie grida, mentre prendevo ad agitarmi sotto al peso di tutti quei tralicci che mi schiacciavano e mi tagliavano la carne, conficcandosi sotto all'epidermide.
«Lasciatemi... Lasciatemi!» urlai, stringendo forte i pugni, con le lacrime agli occhi e il corpo che tremava contro il pavimento. Poi i rovi mi si strinsero come legacci intorno alle braccia e al torace e mi sollevarono da terra, tenendomi sospeso a qualche metro sopra al suolo, di fronte alla bilancia. Il Re della Duat scese per la prima volta dal suo trono ed ogni passo compiuto rimbombò rumorosamente nella sala: avevo l'impressione che ogni volta che poggiava il piede sul suolo, tutta la stanza tremasse.
Dalla posizione sopraelevata in cui mi trovavo, appeso per le braccia e avvolto dai rovi intorno alle gambe e al torace, riuscivo a vedere il suo arrivo anche se tenevo la faccia a penzoloni, incapace di tenerla dritta per via del dolore. Sentivo il mio sangue colarmi addosso, viscoso, picchiettando la pietra a terra, e quando scivolava sui rovi nascevano piccoli boccioli di rosa che sbocciavano mostrando petali scarlatti.
Non riuscivo più a capire dove iniziasse la trappola di liane e finissi io: le punte di spine erano profondamente conficcate nella mia pelle e avevo la sensazione di andare a fuoco. Anche il più piccolo movimento peggiorava le cose, ma se volevo cercare di liberarmi, raggiungendo con una torsione della mano le perline intorno al polso, allora dovevo per forza darmi una mossa.
Il Re della Duat mi si fermò di fronte e i nostri sguardi si trovarono allineati, visto che io ero sollevato a diverse spanne da terra, con i piedi a penzoloni, i tralci di rovi avviluppati intorno al mio corpo. I suoi occhi color ossidiana penetrarono dritto nei miei, impietosi, feroci, determinati. Una mano s'allungò per strofinare l'indice sul mio petto lì dove la veste di iuta era stracciata, seguendo un rigagnolo di sangue che recuperò col polpastrello prima di portarselo alle labbra, assaggiando la mia linfa vitale.
Rabbrividii, sbattendo gli occhi velati di lacrime di dolore che ancora non erano state piante: ce la stavo mettendo tutta a non far vedere quanto male provavo. Stringevo i denti tanto forte da sentir una pressione tremenda intorno alla testa, ma mi obbligavo a mostrare un'espressione di sprezzante sfida. Non importava che non avessi più io il coltello impugnato dalla parte del manico. E a proposito di armi impugnate: avevo ancora un falcetto dentro alla mano sinistra, l'altro era rimasto incastrato nel dorso di Ammit, che emetteva degli stranissimi versi simili a guaiti.
Muovere la lama nel tentativo di segare - con la forza necessaria - le liane che mi intrappolavano significava spingere le spine ancora più a fondo, fino sentirle raggiungere la carne viva. Se non facevo nulla però sarebbe tutto finito: mi avrebbero strappato il cuore e poi lo avrebbero dato in pasto al coccodrillo. E avevo ancora dei frammenti di spada da trovare. Yul mi stava aspettando, da qualche parte.
Mi ricordai all'improvviso delle perline infilate nell'impugnatura: riuscivo a raggiungerle facilmente con le dita. Bastava pigiare col pollice! Proprio mentre il Re della Duat allungava una mano verso di me, incombente come la peggiore delle promesse di morte, io spinsi un cristallo sentendolo rientrare nell'elsa di pelle del pugnale. La lama si ricoprì di fiamme e quando mossi il braccio i rovi si tagliarono come il burro. Mi liberai un arto e il movimento fu così repentino che il mio sangue schizzò sul pavimento e sul petto dell'uomo, un movimento che ancora non avevo fermato, puntando dritto verso il collo del Sovrano. Non avrei perso nemmeno un secondo.
Ecco quindi qual era il nuovo piano: tagliare la gola del Re e poi ricominciare la fuga. Forse uccidere anche gli altri. Non era un piano, in realtà, era una carneficina confusa quella che avevo in mente. Eliminare tutte le minacce e andare avanti. Perché non potevo fermarmi qui.
Fallii ancora prima di metterlo in pratica.
Non riuscivo a credere a quello che stavo vedendo. L'affascinante uomo dagli occhi nerissimi aveva fermato la migliore arma che avessi mai posseduto semplicemente con due dita. Solo due dita. Teneva la lama in equilibrio fra indice e pollice, ad un soffio dal suo collo, e non importava con quanta forza cercassi di avvicinarla. Non si smuoveva affatto.
«Hai delle capacità interessanti, devo ammetterlo.» esordì, mostrandomi un sorriso impregnato di iniquità e potere. «Ma resti pur sempre un rifiuto umano.» E spezzò la lama, quasi fosse fatta di carta. Boccheggiai, guardando la mia unica via d'uscita frantumarsi in pezzi che si sparsero sul pavimento macchiato del mio sangue. Non poteva essere vero.
«Stammi lontano.» sibilai, a denti stretti. Non poteva essere vero, non stava succedendo davvero.
«Povero, povero piccolo umano.» rise di me, il Re della Duat, appoggiando la sua mano inaspettatamente gelida sul mio petto. Proprio all'altezza del cuore. Sapevo cosa stava per accadere, ma non volevo crederci, non potevo essere così impotente di fronte al mio destino.
Non può essere vero, non sta accadendo. No.
Poi mi strappò il cuore dal petto.
Non fu affatto come mi aspettavo. Non era come quando ti lacerano la carne e ti tirano via il muscolo cardiaco dal corpo. La sensazione era simile ad un solletico e ad un senso improvviso di intrusione. Invasione, minaccia. Riuscii a vedere il mio cuore passare attraverso la pelle e i vestiti come se fosse fatto di nebbia, come un'illusione visiva. Eppure, dentro alla mano del Sovrano sembrava solido e batteva fortissimo, per via di tutte le emozioni che mi scuotevano da dentro.
Tutti i miei muscoli si irrigidirono, fino al punto da non riuscire più a muovere né la faccia, né il braccio che ero riuscito finalmente a liberare. Una grama vittoria. O una totale sconfitta: dipendeva dai punti di vista. Riuscivo solo a muovere la lingua e parzialmente la bocca. Ecco con quale energia gli altri imploravano di essere risparmiati. Io però avevo bruciato la carta delle implorazioni quando avevo scelto di sfidare i tre "giudici" teletrasportandomi via, o quando avevo ferito Ammit. In ogni caso, ero paralizzato, quasi totalmente ingabbiato dai rovi, disarmato e gravemente ferito.
La parola fine lampeggiava nella mia testa come una sentenza.
Fu un'ondata di brutale emozione così potente che, per un attimo, amputò tutte le altre sensazioni e si scavò una nicchia tutta sua, colonizzando nel suo passaggio ogni altro pensiero, con l'assoluta convinzione di quella fine imminente. Mentre i miei occhi seguivano il passo incalzante del Re, che appoggiava il mio cuore sul piatto della bilancia opposto alla piuma, dentro di me riecheggiava ancora l'urlo vano. No!
Non ci fu alcuna esitazione in quello che accadde: il mio cuore spinse il piatto verso il basso con una tale rapidità che sembrava ci fosse stato appoggiato sopra un peso da cinquanta tonnellate. Il peso di tutta la morte che avevo seminato, la morte di cui mi ero a lungo vantato, che ora tornava a presentarmi il conto.
La mia speranza era ufficialmente morta, pensai. Non avrei mai creduto potesse esistere un abisso di disperazione più scioccante di questo. Ma poi mi colpii, repentina e devastante, quando il Signore della Duat afferrò il mio cuore e iniziò a camminare verso il coccodrillo. La certezza della fine. Fu come se ogni brandello di quello che avevo sperato ed immaginato venisse stracciato e sostituito da quel... quel... quell'amara macchia di inutilità. Fine dei giochi, strillava la mia testa, anche se sei così vicino a rivedere l'uomo che ami!
Non potevo accettarlo.
Presi un profondo respiro, chiudendo gli occhi. C'era ancora vita dentro di me, ed aria da inalare. Un secondo. Un altro respiro. La punta del mio indice che fremeva leggermente, un semplice micromovimento che mi costò una fatica immensa. Forza Helias, muovi un altro poco quello stramaledetto dito. Piegai la nocca, il medio si agitò, seguendo anche l'anulare. Ancora un poco, forza.
Intanto, Ammit non aveva smesso di guaire, gocciolando sangue sul pavimento. Sollevò il muso mentre il suo padrone si avvicinava, armato del mio cuore, del suo nuovo pranzo. Forza! La mia mano si chiuse a pugno. Dovevo solo riuscire a tendere le dita abbastanza da sfiorare le perline intrecciate intorno al mio polso. Operazione che, anche avendo il controllo del mio corpo, sarebbe stata difficile: toccarsi l'interno del polso con le dita della stessa mano? Bisogna essere dei contorsionisti. Ma io ero pronto a diventarlo. In fondo bastava semplicemente sfiorare un cristallo, ruotandolo leggermente per attivare il potere.
Mi mancava poco.
La mano del Re della Duat si accostò alle fauci del coccodrillo, che si sollevarono. Il mio cuore si separò dal suo palmo e potei vedere a rallentatore la traiettoria che stava facendo, la cui destinazione erano i denti della bestia.
Tic.
Poi il mio dito toccò la perlina e mi teletrasportai, lasciando un involucro di rovi, rose e spine vuoto. Afferrai al volo il mio cuore nel momento stesso in cui Ammit abbassò le zanne. Sentii i suoi grandi denti affilati penetrarmi nel braccio e spezzarmi l'osso e quasi non riconobbi l'urlo di pura agonia che cacciai fuori. Ma nemmeno quello mi fermò dal liberare l'arto dalla presa del mostro e ficcarmi il cuore dentro al petto.
Ripresi a respirare nel momento stesso in cui crollai a terra. L'unica cosa ancora intatta del mio corpo doveva essere il viso, perché dalle sensazioni terribili che stavo provando, sapevo di avere tutto il resto lacerato dalle spine. E un braccio, il sinistro, orribilmente squarciato dai denti del coccodrillo, nonché spezzato. Steso a terra, vidi le calzature raffinate del Signore dell'Oltretomba intromettersi nel campo visivo, un attimo prima che mi calciasse dritto in faccia. Ecco, ora anche quella non era più illesa.
«S-signore!» Non sapevo chi dei due uomini - se l'uccello o il cane - avesse parlato, mi limitai a sbatacchiare le palpebre per rimettere a fuoco il mio campo visivo, che si era oscurato appena dopo il calcio, incassato dritto allo zigomo destro. «Non si può strappargli il cuore una seconda volta!» Quella era l'unica consolazione che mi era rimasta, sfinito, in un totale stato di prostrazione.
«Tsk. Lo so.» sbuffò l'uomo, piegandosi sulle ginocchia per poi afferrarmi i riccioli dorati dentro al pugno, che tirò in modo da sollevarmi la testa e guardarmi dritto negli occhi. «Ci tiene proprio a vivere, un rifiuto umano come te.» soffiò, con un sorrisetto da sadico bastardo, accarezzandomi la guancia livida con la punta dell'indice. Il suo dito si tramutò in un ramo spinoso un attimo prima di toccarmi, andando ad incidermi la pelle con la sua punta acuminata.
Sussultai, ma non abbassai lo sguardo. Oltre al dolore, continuavo a fissarlo come se fossi io quello che aveva il controllo della situazione. Come no. «Allora avrai la vita.» Sogghignò, mostrando un'espressione che mi fece ghiacciare il sangue nelle vene. «Ma sarà come mio schiavo.» Mi impietrii. «Devo pur assumermi la responsabilità dei criminali che risparmio, no?»
Di nuovo uno schiavo. Mi ero liberato dalle catene di Ender ma ero ancora una volta lo schiavo. Con la bocca umida di salivazione e nausea, mi lasciai stancamente sollevare fra le sue braccia e caricarmi in spalla come un sacco di patate, le mie braccia a penzoloni lungo la sua schiena, una mano a sorreggermi per le cosce e il mio sangue che gli colava addosso. Camminò lungo il colonnato, verso la porta massiccia di cui agognavo tanto l'apertura. Il fatto che finalmente la stessi superando doveva essere una specie di vittoria... Ma non aveva affatto quel sapore.
Non vidi nemmeno oltre la soglia: persi conoscenza molto prima, scivolando in un sonno dove il dolore non esisteva.
❖ ❖ ❖
Un bagliore caldo fra le ciglia.
Stavo soltanto fingendo di essere ancora addormentato. Avevo fatto una manciata di quei sogni che invadevano l'intervallo fra un secondo e l'altro, brevi, intensi, ma facili da dimenticare, dimostrando che il sonno aveva singolari leggi fisiche per cui il tempo si contraeva e dilatava. Il filo di una vita intera si srotolava in un battito di ciglia e ben presto ti ritrovavi catapultato nell'orribile realtà da cui eri sfuggito.
Avevo avuto l'accortezza di non aprire le palpebre, perciò non sapevo ancora dove mi trovassi, ma ero consapevole del fatto che ci fosse molta luce, che mi penetrava attraverso gli occhi chiusi. Il corpo mi faceva male dalla testa ai piedi e la sensazione della pelle nuda contro le lenzuola di cotone era eloquente almeno quanto quella della pesantezza intorno a polsi e caviglie. Eloquente, perché mi faceva capire in brevi attimi la situazione: nudo ed incatenato. Non era nemmeno la prima volta che succedeva nella mia vita, ma questa aveva il sapore acre del sangue.
«Lo so che sei sveglio.» bisbigliò una voce profonda vicino all'orecchio. Anche ad occhi chiusi, riuscivo a sentire il suo sguardo su di me come un bollore incandescente. «Pensi che non lo capisca, schiavo?»
Sapevo che se avessi aperto gli occhi sarebbe accaduto qualcosa di brutto di lì a poco e avevo ancora bisogno di tempo per escogitare una via di fuga, perciò rimasi perfettamente immobile, obbligandomi ad avere una respirazione regolare, come se fossi semplicemente assopito. L'uomo però mi posò una mano sul braccio spezzato e strinse. Spalancai gli occhi di scatto, gridando e battendo le gambe al materasso. «Visto?» Mi sorrise, ma fu più un ghigno che un'espressione di benevolenza, sollevando la grande mano per lasciare in pace il mio arto ferito.
Gli sibilai contro prima di riprendere fiato, studiandolo con cautela: non indossava più il copricapo conico che gli avevo visto durante la cruenta cerimonia della pesatura e i capelli castani gli scivolavano in onde morbide fino alle spalle. Era ancora pesantemente ingioiellato, con la gonna di lino avvolta intorno al bacino e i muscoli gonfi in bella vista, ma si era tolto i calzari ed era steso su un fianco, il gomito poggiato sul cuscino e la testa sorretta da una mano, mentre mi fissava con i suoi penetranti occhi neri da avvoltoio.
Io ero sistemato a pancia in su al lato opposto del grande letto matrimoniale, incatenato da pesanti ceppi d'oro massiccio alla testiera del letto, per le mani e per i piedi. Le braccia erano ben separate le une dalle altre e i braccialetti con i cristalli magici erano completamente nascosti dalle catene, che ne rendevano impossibile l'accesso. L'unica fonte di potere che mi rimaneva erano gli anelli, che fortunatamente indossavo ancora. Non dovevano aver capito che le mie capacità derivavano da quelli ed erano l'ultimo asso nella manica che avevo.
Ben presto mi accorsi che mi aveva fasciato con delle garze buona parte delle braccia e delle gambe ed immaginai che la cortesia avesse lo scopo di evitare che morissi dissanguato. Comunque, tutto il resto del mio corpo era lì, in bella mostra. Velocemente mi guardai intorno per capire chi fosse con noi nella stanza, esaminandola: si trattava di una camera da letto scavata nella roccia, benché fosse molto diversa dalle atmosfere bluastre e fredde di Astrea. Qui era tutto su toni caldi, pareti di bauxite arancio ospitavano iscrizioni, geroglifici e bassorilievi dipinti d'oro e d'azzurro. Un'intera parete sulla destra del letto era spalancata su un paesaggio idilliaco: campi di grano luccicavano come l'oro sotto al sole, mentre un fiume cristallino circumnavigava la zona; alle sue pendici, palme verdeggianti s'inclinavano dolcemente verso l'acqua. Il cielo era splendidamente azzurro e non c'era neanche una nuvola.
La quasi totale assenza di mobili nella camera era ovviata dal letto fatto con canne di bambù e dal comodino di legno scuro al mio lato. E poi la porta, che doveva condurre chissà dove, in luoghi che io evidentemente non avrei dovuto raggiungere. E dove potevo andare, incatenato com'ero?
In ogni caso, non sapevo se per fortuna o per disgrazia, eravamo solo io e lui. «Possiamo trovare un accordo, se mi lasci andare.» iniziai, con cautela, cercando di capire che uomo avessi davanti osservandone lo sguardo. Difficile dire quali fossero i suoi pensieri: il nero ottenebrante di quegli occhi era impossibile da interpretare. Fu per questo che non potei anticipare il ceffone che mi fece scattare la faccia di lato, offuscandomi per un momento lo sguardo. «Ma che ca-»
«Lasciate andare.» specificò, mentre io battevo le palpebre confuso ed indignato. «Come osi metterti a tu per tu con me?» Si era tirato a sedere ed ora incombeva sopra di me, incurvato, le mani posizionate ai lati del mio viso. «Sono il Dio Osiride e il tuo padrone. Non faccio accordi con gli schiavi.» Un Dio?!
«Io non sono uno schiavo e non. Ho. Padroni!» ringhiai, soffocando il senso di soggezione e anche di claustrofobia, per via delle catene e del fatto che mi fosse addosso. Un secondo ceffone mi arrivò all'altra guancia, facendomi fischiare l'orecchio. «Brutto pezzo di...» Un altro ceffone, ancora. Iniziai ad urlare imprecazioni come un pazzo, agitando tutto il corpo per sbatterlo violentemente contro il letto. Non avrei accettato per nulla al mondo un trattamento simile.
Lui però, alla mia reazione, mi piombò sopra, le gambe piegate sopra le mie per tenerle immobilizzate e una mano stretta con forza sulla mia bocca, a stritolarmi le guance. Il peso schiacciante del suo corpo fece sanguinare le ferite anche dietro alle garze, che si arrossarono. Mugolai di dolore, un verso soffocato dal suo palmo.
«Sciocco.» Emise una breve risata, secca come lo sfregamento di un fiammifero contro la carta vetrata. «Devi iniziare ad imparare il prezzo della disobbedienza.» Si tolse dalle mie gambe solo per aprirmi le cosce e sedervisi nel mezzo: anche se io mi divincolavo, la sua presa era prepotente e salda. «E non ti conviene fare il ribelle.»
La presa sulla mia bocca si allentò e ripresi così a parlare. «Cazzo, lasciami andare, fottuto ba- AH!» Sentii due delle sue dita affondare dentro di me senza alcun preavviso, a secco, fino alle nocche. Strinsi i pugni, mentre gli addominali mi si irrigidivano almeno quanto le dita dei piedi, arricciate fino a sentir male ai tendini. «No! Lasciami!» Tirai le caviglie, ma i catenacci frenarono bruscamente il movimento. Anche i soldati di Ender non vedevano l'ora di mettermi le mani addosso. Diversamente da ora, potevo ficcare loro un piccone nello stomaco ed era finita.
«Impara, schiavo.» Spinse le dita in profondità, con movimenti ritmici, aggiungendone un terzo, mentre iniziavo a respirare con l'affanno, digrignando i denti. «Non hai più un nome.» ringhiò, sfilandosi via la gonna di lino con uno strattone della mano libera. «Non hai più un'anima.» Le sue dita spingevano e spingevano e spingevano. Strizzai le palpebre. «Non hai nemmeno più un corpo.» Boccheggiai, agitando il corpo nel tentativo furente di allontanarmi da quelle mani. Non sarei rimasto inerme. «Tutto quello che avevi ora è mio.»
Lottai, ogni muscolo teso nello sforzo di contrastarlo, ogni respiro ansimante un sibilo di furore. Ma lui era troppo forte e ora, nudo, avvicinava il suo bacino mentre la mano che non mi penetrava stava stretta sopra il ginocchio per tenermelo divaricato, aprendo le vecchie ferite che sanguinavano sotto alla garza. Nemmeno io ero del tutto privo di forza, però. Mi ero allenato per tutta la vita dal Re degli Assassini. Mi contorsi, cercai di mettere una spalla fra di noi mentre lui si abbassava sopra di me. Tirai su un ginocchio fin dove potevo con la catena alla caviglia, ma riuscii a colpire di sguincio il mio aggressore proprio in mezzo alle gambe, dov'era eccitato. Ringhiò, ritraendosi solo per un secondo, prima di tornare a placcarmi standomi sopra: non avevo più modi per scrollarmelo di dosso.
Mi afferrò per i fianchi, sollevandoli un poco per separarli dal letto e il suo tocco divenne spinoso. Lacerante. Sentii i rovi partire dalle sue dita ed avvolgermi il bacino, mentre il suo respiro caldo sul lobo e la sua voce nelle orecchie mi diceva: «Schiavo.»
No.
«Forza.» Rise, suadente. «Fammi entrare.» La mia mente si svuotò, quando sentii la punta calda del suo membro premere contro di me.
No.
Poi mi penetrò con un singolo colpo secco di reni. Urlai e imprecai, ma soffocò i suoni con un ceffone. Battei le palpebre mentre le stelle mi danzavano davanti agli occhi e non osai muovere un muscolo, sentendo la pressione delle spine intorno alla pancia. Il modo in cui si muoveva, dentro e fuori di me, era disgustosamente piacevole, perciò mi azzannai il labbro inferiore. Preferivo fosse solo doloroso.
Aprii e chiusi i pugni, ficcandomi le unghie nei palmi, curvando la faccia di lato e strizzando gli occhi per non vederlo, per non vedere la sua espressione compiaciuta, anche se lo sentivo gemere e ridere, così come sentivo il suono del suo corpo che sbatteva contro il mio. Ogni affondo spingeva il mio corpo contro al letto e portava i rovi spinosi a graffiarmi e tagliarmi la pelle, che sanguinava sulle lenzuola.
Cercai di rilassare il battito e di respirare piano, focalizzandomi su altro, qualsiasi cosa. In fondo, non era un po' come col vampiro? Perché quella volta mi piaceva e adesso no? Forse perché il Dio Osiride mi stava svilendo, umiliando, graffiando, colpendo. Perché anche se per Alucard ero una preda, mi aveva sedotto, aveva lasciato che lo desiderassi e che piacesse ad entrambi. Era un gioco, un gioco pericoloso, ma era pur sempre un gioco.
Per il Re della Duat ero un semplice involucro con cui trastullarsi. Io sono tutto e tu non sei niente. Ero di nuovo uno schiavo. Lo schiavo a Treblin, lo schiavo ad Ender. Lo schiavo di quel vecchio pervertito che mi avrebbe violentato se non fosse divenuto la mia prima uccisione.
Ed eccomi qui, ora. Con le gambe divaricate, il bacino avvolto di spine, incatenato, insanguinato e violato. Non ero arrivato nell'Oltretomba solo per rendermi conto di quanto veri fossero gli avvertimenti che avevo ricevuto su di esso. Non avevo superato tutte le avversità del viaggio per fermarmi qui, brutalizzato e pesto, e trasformarmi in una vittima.
Perciò reclinai la testa all'indietro contro il cuscino. E finsi che mi piacesse.
❖ ❖ ❖
*NDA - Un angolino finalmente autunnale*
Hola a tutti!
Innanzi tutto buon solstizio d'autunno, finalmente arriva un po' di fresco, lo sto aspettando con ansia (sono una di quelle brutte persone che odiano l'estate e il sole, visto che ne sono lievemente allergica e devo imburrarmi di creme anche a gennaio.. ma questo non frega a nessuno *coff coff*). Okay, in questo capitolo Hel ne ha subite di tutti i colori, ma io l'avevo detto che sarebbero stati guai una volta raggiunto l'Oltretomba... Ed è solo l'inizio! Perciò continuate a seguire le sue sventure (u.u) e ci vediamo alla prossima <3
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro