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24. L'Assassino e la Duat

«La morte del corpo non è la fine dello spirito, ma solo una tappa del viaggio»
- Louis Bromfield



Il quieto trottare dei cavalli in sottofondo divenne sempre più persistente, finché non scostai bruscamente il capo dal finestrino, risvegliandomi. Spalancai gli occhi, sfarfallando le ciglia per abituarmi alla penombra: ero in una lussuosa carrozza foderata di broccato rosso sangue, le tendine tirate, un solo spiraglio rivelava una coltre pesantissima di nebbia all'esterno, che nascondeva qualsiasi traccia di paesaggio.

«Ciao, amore mio.»

Sobbalzai, sollevando gli occhi verso i sedili imbottiti di fronte ai miei. Sgranai le palpebre e lasciai cedere la mascella, restando a bocca aperta. Una donna bellissima mi restituì lo sguardo, boccoli d'oro fuso le scivolavano intorno al capo, occhi di un delicato viola glicine sembravano scintillare in quell'atmosfera soffusa, come sospesa nel tempo. La snella silhouette mostrava uno degli splendidi abiti che indossava quando andava alle feste della grande società, sui toni del rosa cipria, perfettamente intonati all'incarnato.

Un refolo di respiro mi sfuggì dalle labbra, simile ad un singhiozzo, che mi permise di sussurrare: «Mamma..?»

«Sì.» confermò, piegando le labbra a forma di cuore, uguali alle mie, in un sorriso, gli occhi velati di lacrime. «Che bello poterti rivedere... Sei cresciuto talmente tanto.» Sospirò, inclinandosi in avanti per guardarmi meglio. «Fatti ammirare.» Allungò le braccia, sfiorandomi le mani con le sue, sottili e coperte da guanti di raso bianco.

Era tangibile. Reale. Tanto che la attirai a me e ci abbracciammo, stretti. Profumava di vaniglia, esattamente come ricordavo. Restai col viso sulla sua spalla e gli occhi chiusi ancora per qualche meraviglioso, incredulo secondo. Poi mi distaccai, lentamente, senza nessun desiderio di lasciarla andare.
«Dove siamo? Sto sognando?» chiesi, ancora ricordando la sensazione di quel buio dilagante che mi entrava nelle narici e nella bocca, come l'acqua, per soffocarmi. La caduta era sembrata eterna, dopo il salto, ma non ricordavo di essere atterrato. Ed Ezrael non era qui.

«No. Se fosse un sogno saremmo a teatro a guardare l'opera mangiando dolcetti al cioccolato.» emise una risata bassa e vellutata, che mi fece venir voglia di piangere nascondendo il viso fra le pieghe della sua gonna come un bambino. «Vedila come una breve visita durante l'intervallo di uno spettacolo.»

«Numi del cielo... Sei davvero tu...» sospirai, scioccato. «Ecco...» avrei voluto chiederle come stava, ma sarebbe stato paradossale, visto che era morta. «Sei felice? Sei... con Mel?» Non mi chiese come facessi a sapere di lei. Si limitò a sorridermi, le labbra tirate in un'espressione radiosa.

«Sono in pace... Con lei, sì.» rispose, riempiendomi di gioia e sollievo. Erano di nuovo unite, quindi, anche nella morte. Mi asciugai le lacrime che sentii rigarmi le guance con la punta del pollice, cercando di tornare serio e di scacciare il desiderio di restare lì con lei per sempre, ignorando ogni altra cosa.

«E' questo l'Oltretomba? Speravo di arrivare nel regno dei morti, quindi...»

«So dov'eri diretto, ecco perché sono qui.» strinse gli occhi, che brillarono per l'intensità fortissima delle parole che seguirono. «Non andare, Helias.» Scosse la testa ed i riccioli scivolarono morbidi intorno alle guance. «Una volta entrati non è un posto da cui si esce facilmente. Qualcosa in te potrebbe cambiare, potresti uscirne diverso. So che vuoi recuperare la spada, ma non è giusto che tu soffra per liberare il mondo dal Redivivo. Non ti ho dato la vita perché potessi perderla nel tentativo di uccidere quel mostro. Non voglio che tu abbia lo stesso destino di Mel, né il mio, né di molti altri straeliani.»

Mi sentii spezzare il cuore quando vidi le lacrime solcarle il volto ancora giovane come un tempo. Il senso di colpa mi invase l'animo per un lungo istante: quando avevo scoperto la verità avevo creduto che mia madre mi avesse fatto nascere solo per fare di me uno strumento con cui salvare la sua gente, ammazzando un mostro. Ma era evidente che non fosse così. Era orribile perfino che avessi dubitato di lei, nonostante fosse morta per proteggermi.

Allungai la mano, asciugando le sue lacrime contro il mio palmo. Me la accarezzò dolcemente, posando contro il mio tocco la guancia umida. «So anche che vuoi salvare Yul.» Sussultai, quando lo disse. Lo sapeva. E fu terribile vederle quello sguardo addolorato stampato nelle cortine degli occhi viola. «Ma devi credermi, non potrà finire come ti aspetti. L'Oltretomba è un posto imprevedibile, fa di tutto per tenere lontano chi era unito in vita.»

Boccheggiai, sentendomi mancare davanti al suo scoraggiamento. Avevo passato fin troppi tormenti per arrivare dov'ero adesso. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. «Non mi arrendo. Avrei salvato anche te, se solo avessi saputo come raggiungere questo posto prima...»

«Non avresti potuto, amore mio.» sorrise tristemente, spostandomi la mano dal suo viso al grembo, contro le balze della gonna, per tenerla fra le sue. «Io non mi trovo dove stai andando. L'Oltretomba è stato generato dal potere e i rimpianti, dalle convinzioni, credenze e speranze degli straeliani morti nel corso secoli. E' un posto per coloro che hanno qualcosa in sospeso, una sorta di limbo dove costruirsi una seconda vita.» Intrecciò le sue dita fra le mie, tenendole strette. «Io mi limito a riposare, eternamente serena.»

Non mi chiesi quale fosse il confine fra il luogo dove stavo andando io e quello dove si trovava lei: sembrava una questione troppo immateriale e complessa. Piuttosto, notai ciò che mi stava più a cuore. «Questo vuol dire... che Yul è nell'Oltretomba. Posso raggiungerlo?» pronunciai le ultime parole con cautela, come se temessi che, infondendoci troppa speranza, il sogno si frantumasse. Eppure sentivo il cuore battere a mille, fomentato da quell'idea. Posso raggiungerlo.

«Sì.» Una singola sillaba che mi fece scoppiare in lacrime. «E' lì.» Mi premetti una mano contro le labbra, soffocando ogni suono. Volevo gridare. Urlare il suo nome e sperare che la forza della mia voce lo raggiungesse. Ora e subito.

«Allora... Puoi portarmi da lui? Siamo... siamo in una carrozza giusto?» Scostai una tendina di velluto pesante, cercando di guardare fuori dal finestrino, oltre la fitta coltre di nebbia. Mi posò delicatamente una mano sul ginocchio, per richiamare la mia attenzione.

«Non sei davvero qui.» mormorò, mestamente. Sembrava afflitta all'idea di non potermi aiutare. «E nemmeno io. Sono venuta da te perché ti amo, figlio mio... e spero perciò di fermarti prima che sia tardi.» Riuscivo a sentire il suo dolore tanto vividamente che mi faceva male il petto.

«Mamma...» esalai, avvilito. «Non posso.»

Annuì, abbozzando un sorriso tormentato, come se una parte di lei fosse felice della solidità dei miei principi e obiettivi, nonostante non fosse ciò che voleva. Sperava anche lei, nonostante tutto, che ce la facessi. «Lo immaginavo.» Le sue braccia mi avvolsero nuovamente, tenendomi stretto a sé, nella sua nuvola di profumo alla vaniglia e fra la matassa di boccoli biondi. «Ma dovevo provarci.» sussurrò contro la curva del mio collo, una mano premuta sul mio capo e l'altra sulla schiena, come a cullarmi quasi fossi il bambino di un tempo.

Lentamente, sentii il corpo farsi più leggero e la vista più ovattata, come se mi stessi per ridestare da un sogno profondo. «Ricorda, tutti indossano una maschera.» Sciolse l'abbraccio, mentre il mio campo visivo iniziava a scurirsi e il suo volto pian piano scompariva. «E tu non devi mai, mai fidarti delle maschere.»

L'ultima cosa che sentii furono le sue labbra sulla fronte e la pesantezza delle mie lacrime sulla faccia. Non riuscii a chiederle cosa volesse dire, avevo la lingua impastata e la gola serrata. «Ti amo e ti amerò in eterno...» Poi mi si chiusero gli occhi e dovetti dirle addio per sempre, come non avevo mai potuto fare prima.



Non fu proprio come risvegliarsi, piuttosto sembrò come saltare da una pietra all'altra lungo il letto di un fiume. Anzi, come passare attraverso una cascata e dopo la colata d'acqua gelida adattarsi all'improvviso, dall'esterno riempito dai raggi di sole, all'interno freddo ed umido di una caverna. Non faceva davvero freddo, ma c'era quest'atmosfera... come se i colori del mondo intorno a me fossero più attutiti, smorzati, deboli.

La sensazione di freddo era dovuta soprattutto al fatto che avessi la faccia appiccicata alla pietra fresca. Mi accorsi in ritardo di essere steso contro il pavimento, supino, con una guancia incollata a terra: la scostai di scatto, drizzando il viso dal suolo, guardandomi intorno. Completamente disorientato.

«Ezrael?» chiamai ad alta voce e il suono rimbombò fra le pareti così forte e per così tante volte che ebbi l'impressione tornasse al proprietario. Nessuno mi rispose. Inghiottii la saliva a vuoto, mentre iniziavo a prendere consapevolezza del luogo in cui mi trovavo.

Aveva l'aria di essere uno di quei posti così vecchi che anche la polvere li lasciava in pace. Si trattava di un tempio scavato nella pietra, con bassorilievi sbalzati sul pavimento e scolpiti sulle pareti, difficili da distinguere con quella penombra: se mi concentravo sui singoli elementi, potevo notare strane scene di violenza gratuita, come un cuore infilzato da una spada, delle mani intorno ad un collo. Sotto alla mia mano era stato ritratto un uomo schiacciato da un carro. Con una certa lentezza mi resi conto erano raffigurate solo scene di morte, in così tanti modi diversi e creativi che perfino un assassino come me non li avrebbe mai presi in considerazione.

Rabbrividii, sentendo i capelli rizzarsi sul collo. Non c'era luce, solo un bagliore che proveniva dall'alto. Quando alzai gli occhi, mi resi conto che sulle volte grigie piene di iscrizioni c'era una sorta di fenditura luminosa, oltre cui si intravedeva un luogo diverso, tanto offuscato che non avrei potuto capire di cosa si trattasse. I bordi di quella strana spaccatura nell'aria stillavano gocce di luce che scendevano come una pioggerellina inconsistente fino al pavimento, scomparendo non appena lo toccavano.

Frettolosamente mi alzai in piedi, senza dire una parola, concentrato sullo studio dell'ambiente circostante. Avevo ancora addosso i gioielli magici e le armi ed era tutto ciò che mi serviva sapere per rasserenarmi almeno un po'. Inoltre, portavo gli stessi vestiti provenienti da quell'albergo maledetto, ma non erano insanguinati come ero convinto fossero.

Feci qualche passo, non trovando niente di più che colonne e tombe di pietra scoperchiate e vuote, incastonate per terra. Il tempio proseguiva in un'unica grande sala di cui non vedevo la fine: i colonnati ad un certo punto si immergevano nel buio e preferii non avventurarmi oltre. «Ezra?» mi arrischiai a chiamare verso la tenebra, ma senza ottenere risposta.

Girai i tacchi e, per poco, non feci un enorme balzo sul posto. Dietro di me, immobile e senza aver fatto il minimo rumore, si trovava la creatura più assurda che avessi mai visto. Avrei mentito nel dire che non faceva paura. L'unica somiglianza con una persona si fermava alla silhouette: due braccia e due gambe. Aveva però la pelle trasparente e luminosa, cosparsa di uno strato di elettricità, quasi fosse fatta di fulmini. Gli potevo vedere attraverso lo scheletro, che era di un bianco immacolato. Privo di vestiti, carne, organi, capelli. Era di fatto uno scheletro avvolto da un'aura bluastra che crepitava.

Lo scheletro-lampo. Ricordai improvvisamente di averlo letto dentro al diario di Hēi e capii di essere giunto, definitivamente, nel luogo giusto.

«E' passato molto tempo da quando un visitatore ha raggiunto questo luogo.» esordì e la sua voce ebbe l'effetto di una secchiata gelida in una giornata invernale. Era femminile e maschile insieme, un coro spettrale che parlava all'unisono. Sguainai i pugnali a mezzaluna incrociandoli davanti a me con fare minaccioso.

«Stammi lontano.» sibilai, mostrandogli i denti, reprimendo l'istinto primordiale di indietreggiare fino a guadagnare un'abbondante distanza di sicurezza. Il mio istinto d'assassino non si era risvegliato, ma le inquietanti fattezze di quell'essere mi mettevano lo stesso sul chi va là.

«Non ti sarà fatto alcun male.» rispose, fluttuandomi vicino. Deglutii, cercando di rilassare i nervi a fior di pelle, capendo che non stava mentendo. «Benvenuto nell'Oltretomba, prole del Redivivo.»

Sentii lo stomaco farsi di piombo. «Non chiamarmi così!» ringhiai, stringendo la presa sulle armi, anche se le avevo abbassate accanto ai fianchi, vicino ai foderi, in una specie di dichiarazione di pace.

«Ebbene, è ciò che sei. Sei giunto fino a qui dalla crosta spaccata nel Mondo dei Vivi, esattamente come lui.» disse, con un tono assolutamente impassibile, privo di sentimento, inumano. «Io sono Xolotl, il guardiano dei Regni dei Morti.» si presentò e fui stranito dal fatto che avesse un nome. Chi gliel'aveva dato? Come era nata una simile creatura? «Qual è il tuo nome?»

«Helias... Helias Greagoir.» risposi, scartando l'idea di mentirgli, perché non avevo ragioni di farlo. Però avevo scelto di dire il giusto cognome, quello che mia madre possedeva da principessa e non da prostituta nella città del nemico. Mi piaceva come suonava. «Un ragazzo è venuto con me. Perché non si trova qui?» domandai, preoccupato dall'assenza di Ezra, riponendo finalmente le armi nei foderi.

«Chissà.» mi fornì una risposta vaga ed era impossibile dire che espressione avesse la creatura, visto che mostrava un teschio privo di volto. «Non sono a conoscenza di questa informazione.» continuò, portandomi a storcere le labbra. Dove poteva essere finito Ezrael?

«Esistono altri luoghi oltre questo dov'è possibile...» Come potevo dirlo in una maniera meno strana? Sentivo di dover mettere in discussione tutto ciò che conoscevo, tutto ciò che ritenevo normale, da quando avevo raggiunto il Regno del Caos. «... comparire, una volta oltrepassato il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti?» Ne parlavo come se questo strano tempio fosse una sala d'aspetto prima di entrare nell'ufficio di un bancario.

«No. Nessun vivo entra nell'Oltretomba senza incontrare Xolotl.» sentenziò, lasciandomi intuire che lo straeliano avrebbe dovuto trovarsi con me per forza. Invece non c'era. Possibile che non avesse funzionato con lui? E se non aveva funzionato, voleva dire che... Si era schiantato in fondo al crepaccio? Era morto? E morto di una morte definitiva, come quella di mia madre, o si trovava nello stesso posto dove mi apprestavo ad andare? Ero confuso, tremendamente confuso, ma adesso che avevo capito di essere rimasto solo in quest'avventura, mi sentivo come una barchetta finita alla deriva durante una tempesta.

Notando il mio silenzio, lo scheletro-lampo proseguì. «Perché hai varcato il confine dell'Oltretomba, Helias Greagoir?»

«Perché voglio recuperare i frammenti della spada che mi permetterà di uccidere il Redivivo.» Feci una brevissima pausa. «E cerco qualcuno.» Sentii le unghie scavarmi il palmo, per la forza con cui stavo stringendo i pugni, determinato.

«Troverai ogni cosa oltrepassando il varco.» sollevò la testa verso quella fenditura sul soffitto e compresi che le sue orbite vuote la stavano osservando, pur senza avere gli occhi. «Ma devo avvisarti: nell'Oltretomba esiste più di un dominio, ognuno comandato da un Signore diverso, che protegge ciò che cerchi.» 

Ricordai che me lo aveva detto anche il vecchio saggio ad Astrea: secondo la leggenda il Redivivo, una volta raggiunto il mondo dei morti, aveva rotto la spada in pezzi e li aveva nascosti per i regni, usando poi la sua influenza come Signore dell'Oltretomba per convincere altri Signori a proteggere quei pezzi. Da quello che avevo visto, però, quando il mostro, Yaakov e Qiana erano caduti, era stata la spada stessa a frantumarsi. Probabilmente neanche il Redivivo sapeva dov'era finita.

«Quasi nessuno si sposta fra i regni, perché per aprire un varco fra di essi occorre un numero ingente di anime.» spiegò ed io aggrottai la fronte, confuso.

«Non credo di capire. Anime?»

«Anche i morti possono morire.» Sbattei le palpebre, molto lentamente. «E quando si muore definitivamente, il corpo si dissolve in un globo di energia, l'anima, che è in grado di rafforzare i non-vivi. Per questo è la moneta che tutti usano nell'Oltretomba.» era una spiegazione esaustiva e, al tempo stesso, terribilmente cruda. I soldi avevano un'importanza eccessiva anche nel mondo che conoscevo io, ma quaggiù più uccidevi più eri forte e ricco, se avevo capito come funzionava. E se volevo passare da un dominio all'altro, cercare i frammenti della spada e Yul, avrei dovuto uccidere anche io procurandomi queste "anime".

«Farò tutto il necessario.» esclamai, ormai deciso ad andare fino in fondo, a qualunque prezzo. Avrei certamente trovato qualche rifiuto non-proprio-morto da uccidere in via definitiva, non sarebbe stato niente di diverso da quello che già facevo. «Cosa devo fare per entrare nel primo regno?»

«Nulla.» Sapevo che era impossibile capire se sorridesse o meno, vista l'assenza di labbra, ma avevo la sensazione che adesso lo stesse facendo. «Dovrai preoccuparti, invece, di come uscire dall'ultimo per tornare fra i vivi.»

Deglutii il groppo appena formatosi in mezzo alla gola. Non avevo affatto pensato a come uscire. Entrare era stato fin troppo difficile, non volevo nemmeno immaginare che cosa mi sarebbe costato venirne fuori. «Se non devo fare nulla, permettimi di andare.»

«Come tu desideri, Helias Greagoir.» concluse la sua doppia voce, maschile e femminile, alzando il braccio. Quando chiuse all'improvviso il pugno, la stanza si rovesciò sul suo asse: il pavimento divenne il soffitto e il soffitto pavimento. I miei piedi si staccarono dal suolo e la forza di gravità mi fece precipitare verso il basso.

Verso il varco luminoso, aperto come una ferita fresca, in attesa di inghiottirmi. Mi sentii urlare e poi ci passai attraverso, del tutto inconsapevole di quello che sarebbe accaduto dopo.




Mi ritrovai in ginocchio.

A testa bassa, i riccioli dorati mi coprivano il campo visivo, permettendomi di vedere soltanto le mani, posate in grembo. Non sapevo come e quando fosse successo, ma avevo i polsi ammanettati, intrappolati in pesanti ceppi color rame, collegati a due catene: una che dondolava davanti e una dietro di me. Mi accorsi anche che non indossavo più gli stessi vestiti che avevo nel tempio dello scheletro-lampo. Ero coperto solo da una veste di iuta marrone, grezza e un po' stracciata. Per fortuna, avevo con me ancora le armi agganciate ai fianchi e i vari cristalli magici.

Erano passati soltanto pochi attimi da quando avevo attraversato il varco, era impossibile che mi fossi addormentato e qualcuno avesse avuto il tempo di cambiarmi e legarmi: doveva essere frutto di qualche stramba magia, che mi aveva fatto apparire in questo regno esattamente com'ero ora. La cosa non mi piaceva per niente. Ero appena arrivato e già mi ritrovavo in una situazione di sottomissione. E poi, odiavo la sensazione di avere le catene addosso.

Mi ricordava Treblin, mi ricordava il periodo nelle prigioni del Castello di Cristallo. Mi ricordava Ender e, al solo pensiero, le cicatrici che portavo sulla schiena iniziavano a bruciare come lava. Non volevo pensarci nemmeno.

Le mie analisi si interruppero quando un brusco scossone della catena mi tirò in avanti, rischiando di farmi cadere di faccia sul pavimento. «Alzati coglione! La fila scorre!» borbottò qualcuno e, finalmente, sollevai gli occhi chiari dai ceppi al mondo circostante, mettendomi sulle gambe, puntellando il peso del corpo sui piedi scalzi.

«Tsk, sta' calmo.» risposi, stizzito. La fila?

Effettivamente ce n'era una, lunghissima, che saettava fra i colonnati della sala simile anch'essa ad un tempio, benché molto diverso da quello che avevo abbandonato pochi minuti prima. Questo era ben illuminato da una fiaccolata che costeggiava il sentiero dove una sequela di persone avanzava lentamente, tutti collegati l'uno all'altro attraverso gli anelli delle catene, che tintinnavano appena sopra il brusio basso. Pareti e colonne erano tempestate da geroglifici, iscrizioni, minuscoli simboli, alcuni neri, altri azzurri e rossi, molti oro. Scintillavano riempiendo la sala di luccichii.

Se alzavo il capo, molto, molto più in alto, dopo una serie di gradoni di pietra candida, riuscivo ad intravedere una gigantesca bilancia. Sapevo che lassù doveva trovarsi qualcosa di importante, riuscivo a sentire le voci intensificarsi, ma dalla mia posizione non potevo vedere di più. Importante, imprevedibile e pericoloso, valutai, visto che era lì che la fila si concludeva e smaltiva. Probabilmente c'era una porta, un altro punto d'accesso. Quello che trovavo preoccupante però, era che si sentissero, molto più spesso di una conversazione normale, delle grida provenienti da voci sempre diverse.

«Ti prego! No, NOOOO!!» Ecco un altro urlo. Presi un profondo respiro.

Era stato sciocco da parte mia non chiedere allo scheletro-lampo cosa succedeva se un vivo moriva nei Regni dei Morti. Sarei riapparso in un altro dominio? Avrei raggiunto mia madre? Mi sarei direttamente trasformato in un'anima? E se morivo, potevo ancora uscire dall'Oltretomba? Doveva essere per forza così, perché se volevo trovare Yul e portarlo via con me, per forza ci doveva essere un modo. La verità è che non volevo pensarci. Avevo troppa paura di fallire.

«Ehi.» chiamai la persona dietro di me, voltandomi a guardarla. Era un ragazzo poco più grande di me, i capelli e la pelle scura, vestito con il mio stesso straccio di iuta, gli occhi sgranati e il corpo tremante. Fissava insistentemente il vuoto, guardandomi attraverso come se non esistessi. Lanciai un'occhiata alle persone in fila dietro di lui.

Erano tutte così, terrorizzate, sconvolte, turbate. Immaginai che fosse tutta gente che era appena morta e capii che aveva senso fossero tanto scioccati. A differenza loro, avevo scelto di trovarmi in questa merdosa situazione, ma non me ne pentivo.

«Ehi, tu.» mi rivolsi allora a chi avevo davanti, la stessa persona che mi aveva dato del coglione, intimandomi di darmi una mossa. Era un vecchio dalla faccia scorbutica e il naso schiacciato come una patata calpestata, anche lui con la pelle scura, un po' come tutti. Mi chiesi se il metodo in cui i morti venivano smistati fra i regni fosse in base al luogo da cui provenivano. Io, con la mia pelle alabastrina e i miei capelli biondi, rappresentavo una gemma rara lì dentro. «Lo sai dove siamo?»

«Mphf.» mi scoccò un'occhiata seccata, schioccando la lingua con disapprovazione. «Che domande fai, moccioso?» Alzai un sopracciglio. Non mi sembrava una cosa ovvia sapere dove fossi capitato. «Siamo nella Duat.» Sfogliai il mio bagaglio di conoscenze e ripercorsi tutti i libri che ricordavo di aver letto. Duat non mi diceva nulla.

«E quindi...?» continuai, facendo qualche passo avanti perché la fila scorreva, strattonandomi un po' le braccia.

«La tua anima sta per essere giudicata.» Il vecchio arricciò il naso, arcigno, guardandomi dalla testa ai piedi. «E certamente sarai indegno.» Quell'ultima frase sancì per lui la fine della conversazione, perché girò i talloni e mi diede le spalle, senza più guardarmi.

«Stronzo decrepito...» mugugnai, a bassa voce, strattonando un po' i ceppi per cercare di massaggiarmi i polsi indolenziti sotto al rame massiccio. Il tessuto di iuta, poi, era terribilmente fastidioso contro alla pelle: pizzicava e mi faceva venire di grattarmi in punti che con le mani incatenate non avrei potuto raggiungere.

Era meglio focalizzarsi su queste piccole cose, piuttosto che accettare l'idea che di lì a poco la mia anima sarebbe stata "indegna" per qualcuno che pensava di avere il diritto di giudicarla. Non mi ci voleva un grande sforzo mentale per capire che, gli indegni, erano quelli di cui sentivo le preghiere e le urla. Ecco perché la gente aveva tanta paura. Ma non io. Ero solo preoccupato perché non avevo idea di dove fosse Ezrael e speravo che stesse bene.

Con una lentezza che avrei ironicamente definito mortale, il tratto della fila in cui mi trovavo raggiunse i gradini di pietra bianca e, man mano che li salivo, notavo nuovi dettagli della sala rialzata che mi avrebbe atteso una volta che le persone prima di me fossero scomparse. A quella vicinanza, la bilancia era davvero gigantesca, tutta di luccicante oro massiccio.

Quando finalmente posai i piedi sul secondo scalino e davanti a me non restavano che una manciata di individui, potei guardare gli elementi che mi mancavano. Sui rispettivi piatti della bilancia c'erano, alla destra, una grande piuma bianca, alla sinistra, un cuore umano che pulsava ancora, sussultando ad ogni battito. Ai piedi della bilancia era accoccolata una mostruosa bestia, una mescolanza di tre belve diverse: il muso da coccodrillo stillava sangue dalle fauci affilate, la criniera e le zampe anteriori leonine avevano artigli acuminati e la parte del corpo posteriore, pesante e massiccia da ippopotamo, avrebbe potuto schiacciare e stritolare facilmente chiunque.

Proprio lì vicino era fermo un uomo alto e slanciato, vestito con una gonna di lino bianca e un drappo a monospalla, la pelle scura punteggiata da gioielli sfavillanti e il viso coperto da un'eccentrica maschera da uccello blu e azzurra, con un becco sottile e lunghissimo. Stava prendendo appunti, sorreggendo con una mano un enorme rotolo di pergamena e con l'altra facendo saettare una piuma d'oca che pareva non aver bisogno di intingere nell'inchiostro per continuare a scrivere.

A poca distanza da lui, oltre uno stretto varco di colonne, ecco una doppia porta di pietra, gigantesca e sigillata, che pareva chiamarmi. Era lì che sarei dovuto arrivare superando la bestia ai piedi della bilancia. C'era un unico problema: il mostro e l'uomo-uccello non erano soli.

Al centro della sala, su un trono sollevato da un piedistallo, era comodamente seduto un uomo e lì vicino, sull'ultimo gradino, un secondo individuo.

Erano entrambi affascinanti nella loro peculiarità. Quello al fianco del trono aveva la pelle così scura da essere nera come l'ebano. Alto e muscoloso, una stola ardesia gli circondava i fianchi torniti incrociandosi sul davanti in un drappo d'oro lungo fino alle ginocchia. La faccia, invece, era nascosta da un'inquietante maschera color pece, che non sapevo raffigurasse il muso di un cane o di una iena, con le orecchie lunghe e appuntite. Aveva qualcosa di tenebroso e cupo. E poi c'era la persona sopra al trono. Era lui che comandava in questo regno dell'Oltretomba. Il Signore della Duat.

Sentivo provenire una tale quantità di potere e austerità dal suo sguardo - quello di un'aquila in procinto di calare sulla preda - che le mie ginocchia avevano preso a tremare senza rendermene conto. Indurii i muscoli per frenare quell'agitazione improvvisa, pur incapace di abbassare lo sguardo dal sovrano. 

Il corpo massiccio e prestante sembrava troppo muscoloso per stare tutto dentro al trono, eppure continuava ad avere una posizione estremamente solida e regale lì sopra. Il suo sguardo nero era reso ancor più penetrante da un vistoso strato di matita che si allungava verso la tempia, dandogli un'aria esotica e al tempo stesso ferina. L'incarnato aveva lo stesso colore del legno di ciliegio, scuro ma anche tendente al rossiccio, come bruciato dal sole, mentre un leggero pizzetto gli punteggiava il mento. I capelli scuri erano nascosti da un copricapo lungo, bianco ed oro, solo qualche ciocca ribelle scendeva sulla fronte.

Il petto scolpito era parzialmente coperto da un vistoso girocollo a piastre d'oro, con lapislazzuli e rubini incastonati; parabracci dello stesso materiale luccicavano dal polso al gomito, mentre altri bracciali abbracciavano i bicipiti gonfi. Indossava semplicemente un gonnellino di lino bianco con una cintura di smeraldi in vita, le gambe un po' aperte per via della posizione rilassata e sandali di cuoio ai piedi. Un gomito sul bracciolo e la punta dello zigomo appoggiato contro il pugno chiuso. Nonostante il Signore della Duat sembrasse annoiato, avevo l'impressione che guardasse tutto e tutti con estrema attenzione.

L'uomo con la maschera da cane si allontanò dal trono, la faccia rivolta alla bilancia, che equilibrava perfettamente il peso della piuma e quello del cuore nell'altro piatto. Non sapevo come fosse possibile nemmeno io. La bestia col muso da coccodrillo sollevò la testa, ma l'uomo-cane gliela accarezzò mettendolo nuovamente a cuccia quasi fosse un gattino. Poi, prese il cuore dalla bilancia, sorreggendolo dentro le mani chiuse a coppa per non farselo sfuggire, visto che continuava a battergli fra le dita. L'uomo-uccello, invece, procedeva a prendere nota.

«I Campi Aaru ti accolgono di nuovo.» esordì il sovrano, battendo sul pavimento con un colpetto leggero lo scettro ricurvo, blu e oro, che teneva nella mano con cui non si sorreggeva la guancia.

L'uomo-cane aveva già raggiunto una donna di mezza età in testa alla fila, a poca distanza dal punto in cui mi trovavo, solo il vecchio rompipalle situato fra me e lei. Sembrava paralizzata, non dallo shock, ma proprio fisicamente: immobile, non chiudeva neanche le palpebre. Quando l'uomo-cane le spinse il cuore contro il petto ed esso le passò attraverso la veste, la carne e le costole - quasi fosse fatto d'acqua o d'aria, riassorbito nella pelle - la donna strizzò gli occhi e riprese fiato. Poi l'enorme portone che già avevo notato si spalancò cigolando piano: dall'apertura penetrò una luce dorata così forte che mi ferì gli occhi.

Li chiusi di colpo, schermandoli con una mano prima di tentare di riaprirli, dando una sbirciata a ciò che c'era oltre la soglia di quel portone. Riuscii a vedere acque verde cristallina circondata da campi di grano, le spighe che si agitavano placidamente per un venticello pacifico, luccicando d'oro per i forti raggi del sole, provenienti da un cielo così celeste da non avere nemmeno una nuvola. La donna, le cui catene semplicemente erano scomparse, venne accompagnata dall'uomo-cane oltre i battenti che, immediatamente dopo, si richiusero, facendo ripiombare la stanza nella penombra delle fiaccole.

Poi il vecchio odioso si fece avanti e rimase soltanto lui ad affrontare quella sorta di giudizio divino prima di me. Mi sentii deglutire, fremendo silenziosamente mentre mi grattavo nervosamente la pelle sotto i ceppi.

Ancora una volta, la persona mascherata da cane - che ormai avevo compreso fosse il braccio destro del sovrano - si recò dall'anziano: la sua mano nerissima si appoggiò proprio sul petto del non-vivo. A quel punto, quasi l'uomo fosse in grado di risucchiarlo fuori, il cuore del vecchio gli passò attraverso il petto e gli indumenti e, rosso sangue e ancora palpitante, si ritrovò sul palmo del giudicatore. Quest'ultimo procedette verso la bilancia, posando l'organo sul piatto vuoto, opposto alla piuma. Mentre il vecchio rimase immobile, paralizzato con una faccia terrea e gli occhi sgranati, per un attimo parve non succedere nulla. 

Poi, piano piano, il cuore fece abbassare il piatto, che si disallineò, dimostrandosi più pesante di quanto fosse la piuma. A me sembrava una cosa perfettamente normale, eppure vidi una differenza nella reazione di tutti i presenti: la bestia ibrida scattò sulle zampe, il Signore della Duat sorride, l'uomo-uccello si mise a prendere appunti ancora più velocemente.

«No... No.. Vi prego!» fui sorpreso dal fatto che il vecchiaccio fosse ancora in grado di parlare, nonostante la paralisi. Biascicava con le labbra rigide, infatti. Doveva riuscirci per via della disperazione. «Vi prego! Ho fatto del bene, sono sempre stato bravo!» Schioccai la lingua, cercando di nascondere il sorrisetto. Chi era indegno ora? «Vi prego!»

L'uomo-cane ignorò le sue implorazioni, tolse il cuore dalla bilancia e lo lasciò cadere fra le zampe del mostro. «NO, PIETÀ! PIETÀ!» Le zanne da coccodrillo dell'animale schioccarono, prima di avventarsi sull'organo pulsante e divorarlo in un unico boccone. Libero dalla paralisi, l'anziano si accasciò a terra, in agonia. Ma la bestiaccia non aveva ancora finito. Con un singolo balzo sovrastò il corpo dell'uomo, lacerandogli il petto con gli artigli, iniziando a dilaniarlo e a mangiarlo in un tripudio di sangue ed urla. E tutto questo si stava svolgendo proprio ai miei piedi, spettatore in prima fila di quello spettacolo agghiacciante. Gli intestini gli si riversarono a terra e dovetti distogliere lo sguardo.

Merda.

Quando il sovrano fu soddisfatto, batté lo scettro a terra e il mostro indietreggiò: quello che rimaneva del vecchio, sangue e corpo a pezzi, iniziò a disintegrarsi, brillando di una luce bluastra, finché non rimase una singola sfera luminescente sul pavimento di nuovo pulito. Quella era l'anima? Ed era ciò che mi aspettava, se il mio cuore si fosse dimostrato troppo pesante? Una possibilità tutt'altro che remota, considerando che nel Regno dei Vivi non avevo esattamente fatto il bravo.

Mentre l'uomo-cane raccoglieva l'anima e la consegnava al Signore seduto sul trono, che la nascose sotto il cappello, io capii molto in fretta che dovevo escogitare un piano per scampare alla pesatura del mio cuore, evitando di diventare il pranzo del coccodrillo. E doveva essere maledettamente infallibile.

Così arrivò il mio turno. Di lì a poco si sarebbe deciso chi avrebbe vinto e chi avrebbe perso. Feci un passo avanti, alzai il mento e guardai fieramente negli occhi il Signore dell'Oltretomba. Stiamo a vedere.










*NDA - L'angolino allegro di un'autrice miciofila*

Hola a tutti!
E niente, che bello finire un capitolo col proprio micio cicciotto al fianco... (Sto divagando). A chi piace la mitologia egizia? Io la adoro, un po' come la mitologia greca, quindi mi sto veramente divertendo a scrivere. Tra l'altro anche Xolotl (che sembra il nome di una gomma da masticare) è una figura mitologica! Comunque, in questo capitolo sono successe veramente TANTE cose, infatti all'inizio volevo tagliarlo subito prima dell'arrivo di Hel nella Duat, ma poi sarebbe venuto troppo corto e... No, no, ci stava così. Dal prossimo le cose si faranno (prevedibilmente) ancora più incasinate!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima <3

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