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21. L'Assassino e il Caos


{
ℙ𝔸ℝ𝕋𝔼 𝕀𝕀𝕀: ℂ𝔸𝕆𝕊 𝔼 𝕊𝔸ℕ𝔾𝕌𝔼}


«Le nostre vere scoperte vengono dal caos.»
- Chuck Palahniuk


Non ce la possiamo fare. Non ce la faremo mai.

Era quello che continuavo costantemente a pensare, passo dopo passo, ad ogni agghiacciante respiro. L'aria era talmente fredda che ogni singola fiatata era una coltellata dentro ai polmoni, sembrava di respirare vetro polverizzato. Era difficile proseguire, nonostante Ezrael avesse un braccio intorno alla mia vita ed io alla sua, entrambi avvolti sotto mantelli di pelliccia come un'unica grande coperta da cui spuntavano fuori solo le nostre teste. Anche i nostri volti erano riparati da strati di vestiti stracciati a mo' di sciarpe, occhi e ciuffi di capelli emergevano fuori per guardare i Territori Sconosciuti che punteggiavano l'orizzonte come un miraggio. Immagini troppo lontane e vaghe per teletrasportarsi alla cieca.

Delle persone sulla nave, alla fine, non era rimasto più nessuno. Il Nostromo era morto di ipotermia dentro alla sua cabina, come gli altri due corsari rimasti, a parte il cuoco, che si era dato in pasto alle fiamme in un imbranato tentativo di combattere il gelo. Almeno, questa era l'idea che c'eravamo fatti ritrovando il suo cadavere carbonizzato. Non avevo alcun rimorso, ovviamente: nessuno avrebbe patito la mancanza della feccia della criminalità proveniente dritta dalla Baia del Teschio. Mi dispiaceva solo lasciare la nave nel bel mezzo del nulla, lontano dalla meta, rischiando di non trovarla al ritorno.

Ma saremmo tornati? Quanto tempo ci avremmo messo? Il veliero era l'ultima cosa di cui preoccuparsi. E, in quel preciso momento, era l'ultima cosa che mi veniva in mente. Ero molto più occupato a non morire di freddo esattamente lì, sulla lastra di ghiaccio che ricopriva il mare. Sotto di essa, vedevo sfrecciare grosse e minacciose creature, che facevo finta di non notare, sperando che questa tattica funzionasse anche all'inverso.

Sarebbe stato più sicuro volare, ma l'idea di sentire quel vento gelato frustarmi la faccia era terrificante. Così ci limitavamo ad arrancare in direzione degli agglomerati di isole, sebbene sembrassero allontanarsi sempre più ad ogni passo, aumentando uno strano senso di repulsione crescente che mi saliva nel petto. Una sensazione simile ad un avvertimento, come se il mio spirito cercasse di avvisarmi che non era una buona idea proseguire verso i Regni del Caos.

Ma non ci pensai nemmeno a fermarmi: sapevo che, se l'avessi fatto, non sarei più riuscito a proseguire. Avevo perso totalmente la sensibilità di mani e piedi e non mi sentivo più la faccia, sebbene percepissi lacrime ghiacciate sulle guance per colpa del dolore pungente al resto del corpo. Era un miracolo che riuscissi ancora a muovermi.

Era estremamente desolante pensare a quanto era stato complicato arrivare fin qui, superando Ender, nemici ed un numero esagerato di insidie, con l'unico risultato di crollare e morire congelato nel bel mezzo del nulla.

Così mi aggrappai al calore dell'uomo che mi si stringeva al fianco, sapendo che lui faceva lo stesso. Mi faceva ancora un po' male il fondoschiena e il solo ricordo di quello che avevamo fatto, senza fermarci, per tutta la notte... Bastava a regalarmi un pizzico di calore in più. E uno sfarfallio persistente dentro allo stomaco.

Sentivo la silhouette muscolosa premere contro di me, mentre respirava affannosamente sotto agli strati di pellicce, cercando di farsi forza. Se non lo avessi avuto al mio fianco, adesso, non ce l'avrei fatta. Il suo calore mi spingeva ad andare avanti, ad arrancare, ancora, senza smettere di stringermi a lui e di battere i denti, un tic-tac ormai di sottofondo durante la camminata. Mi concentrai sul suo odore, una fragranza di natura che mi ricordava i cespugli di bacche velenose e le pinete piene di lucciole nelle notti d'estate. Non che fossi mai stato in un posto simile - magico, in un certo senso - ma l'avevo letto in alcuni libri. E ricordavo bene come fosse l'ingresso ad Astrea, quelle foreste, quel senso di pace e luce.

Ancora qualche passo e possiamo teletrasportarci, tieni duro

Sentii il suo pensiero scivolare nella mia testa come una carezza vocale. Immaginai che la scelta di dirmelo in quel modo piuttosto che parlare fosse sensata: inalare quell'aria ghiacciata per darne una forma non allettava neanche me.

Lo sto facendo, ma-

Un merda doveva essergli arrivato insieme al resto della frase. Mi sembrava di aver sentito un orribile crack provenire da sotto alla punta delle scarpe. Le mie scarpe. Doveva averlo avvertito anche lui, perché si girò a guardarmi con la faccia terrea e gli occhi leggermente sgranati.

Fermo immobile.

Crack. Ora doveva averlo sentito anche lui, del resto sarebbe stato impossibile non rendersene conto, vista la brutale spaccatura che si stava espandendo in avanti dalla punta del mio stivale sinistro. Feci come mi aveva detto: restai immobile, come congelato, mentre sotto ai miei piedi la sensazione di precarietà ed instabilità si faceva piu forte: scossi la testa molto, molto lentamente. E quando la abbassai, vidi un mostro immenso sfrecciare dalle profondità marine proprio verso quella spaccatura, con l'intenzione di... Be', di sfondarla.

«CORRI!» Il braccio che aveva intorno alla mia vita funzionò come una leva: mi spinse in avanti con tutta la sua forza, fiondandosi in avanti nello stesso momento in cui lo feci io. Non che servisse a qualcosa, visto che l'enorme mostro sfondò il ghiaccio. Non ebbi neanche il tempo di vederlo. Ci fu un brevissimo scorcio di fauci che si aprivano verso di noi per inghiottirci, poi un lampo di luce mi accecò.

Ezrael ci aveva appena teletrasportati entrambi a diversi metri in avanti, riuscivo a vedere il corpo della bestia come una macchia scura che sporcava l'orizzonte. Il salto sul ghiaccio doveva essere stato brusco, perché si stava ancora spaccando sotto ai nostri piedi: continuammo a teletrasportarci bruciando la distanza fra noi e le isole in lontananza, senza avere molta scelta. Stavamo sprecando potere, ma l'uso che ne stavamo facendo era quello per cui ci erano stati dati. Salvarci la vita.

A qualche metro dalla riva, mi aspettai di atterrare su una lastra di ghiaccio, invece ci fu solo un tuffo: annaspai, sbattendo furiosamente le braccia, mentre il suo corpo e la quantità di pellicce e vestiti mi trascinava giù, in balia di qualsiasi cosa si trovasse sott'acqua. Il ghiaccio si era inspiegabilmente sciolto e il nostro ultimo salto fu direttamente in mare, a pochi metri dal bagnasciuga.

Boccheggiai e proseguii barcollando verso la riva, sputacchiando acqua, proprio mentre mi accorgevo che il gelo mortale si era trasformato in un caldo asfissiante, di quel tipo che non avevo provato neanche nel Deserto Rosso, durante il viaggio a Costantinopoli. Sembrava di stare nella bocca di un vulcano. Lo sbalzo di temperatura fu così brusco e repentino, così improvviso, che crollai ginocchia a terra, con la vista che si oscurava, la testa che vorticava violentemente e il naso che aveva preso a gocciolare senza fermarsi. Quando me lo asciugai col dorso della mano, trovai la pelle macchiata di sangue.

Mi stesi sulla sabbia, disorientato, mentre Ezra mi liberava velocemente dalle pellicce e dagli strati di vestiti che mi stavano letteralmente soffocando. Un senso martellante di nausea mi raschiava la gola mentre trovavo sempre piu' difficile riempirmi i polmoni di quell'aria bollente, che fino a qualche attimo prima era stata ghiacciata e tagliente come una lama. Ogni respiro sembrava un tizzone ardente inghiottito senza masticare. Ezrael non sembrava stare molto meglio di me: stava sudando copiosamente, respirava male ed era pallido come un lenzuolo.

L'arrivo nei Regni del Caos non era stato dei migliori.

Cercai di abituarmi a quel caldo, di regolarizzare il respiro, steso a riva e con gli occhi chiusi... Non sentivo il sole battermi sulla pelle e arroventarmi la carne, c'era piuttosto una strana ombra, come una cortina di nebbia che nascondeva il cielo. Nebbia, o fumo, o grigia tenebra. Forse era l'unica cosa positiva dell'intera situazione.

All'improvviso, un orribile verso acuto lacerò l'aria, ed io spalancai gli occhi tirandomi a sedere tanto in fretta che per poco non mi vomitai sui pantaloni. Ma ingoiai la bile e alzai lo sguardo verso il cielo, da cui avevo sentito venire il suono. Restai a bocca aperta: pipistrelli grossi quanto un uomo ben piazzato roteavano in cerchio sopra di noi, aumentando l'ombra che già era considerevole, vista la foschia. Con la coda dell'occhio potei vedere il resto della "spiaggia": la sabbia non aveva il classico colore dorato, scura com'era sembrava fatta di cenere. Anche nella consistenza era più simile a quella, mi rimaneva appiccicata alla pelle con una patina nerastra. Intorno a noi, carcasse puzzolenti - stavo troppo male per badare inizialmente alla puzza, ma cielo, se puzzava! - di bestie spolpate e lasciate lì, in vista.

«Cazzo, il sangue.» sibilò Ezra, affrettandosi a pulirmi via le tracce rimaste sul viso ed intorno al naso con una pelliccia che gettò prontamente in mare. «Le bestie del caos sono come i segugi di Darlan.» Capaci di fiutare l'odore di sangue a miglia di distanza. Rabbrividii a quel ricordo, nonostante il caldo. Se eravamo in un'isola piena di creature sconosciute, ero come un succulento pezzo di carne gettato in mezzo ad una fossa di ratti digiuni da un mese.

«Togliamoci da qui!» continuò, afferrandomi per un braccio, incominciando a trascinarmi via dalla riva: rocce frastagliate, relitti di ogni tipo... Sembrava una specie di spiaggia-spazzatura, un posto dove finivano le cose dimenticate, perdute, gettate, un mondo d'abbandono. La spiaggia finiva lì dove un bosco per niente simile ad una giungla iniziava. Se alzavo la testa riuscivo a vedere, sopra alla vegetazione, montagne alte a più livelli, frastagliate. Zolle di terra galleggianti ospitavano enormi vulcani e strutture simili a fortezze che, a causa della nebbia, non si riuscivano a vedere poi così bene ad occhio nudo. Mi ero portato dietro il cannocchiale, ma non era proprio il momento per fermarsi a controllare il panorama. E poi, c'era chiaramente qualcosa che si muoveva, all'interno di quella torbida cortina grigia. Non ero sicuro di voler sapere cosa fosse.

Corremmo all'interno del bosco: pareva piuttosto un cespuglio di rovi gigantesco. Alberi contorti creavano reticolati fatti di rami e tronchi, tanto fitti da rendere difficile camminare spediti: bisognava abbassarsi, appiattirsi, infilarsi e arrampicarsi, come in un percorso ad ostacoli. Difficile dire che tipo di alberi fossero, ma il muschio abbarbicato sopra di essi era stranamente viscido; ci avevo posato le mani sopra durante il passaggio e ora mi si stavano riempiendo le dita di bolle. Cercai di pulirmi con un lembo della camicia, sbarazzandomene subito dopo stracciando l'indumento con una delle tante armi che avevo addosso.

C'era un silenzio inquietante, all'interno del bosco. Niente versi di animali, niente raggi di sole a filtrare fra il folto, solo fruscii e ombre nere intraviste con la coda dell'occhio, che sparivano ogni qual volta mi voltassi in quella direzione, armato e pronto. Era come se qualcosa ci stesse studiando, girandoci attorno.

Respirare, poi, stava diventando sempre più difficile: l'aria era così rarefatta che sembrava mancasse abbastanza ossigeno, non importava quanto furiosamente inalassi. A peggiorare le cose c'era l'umidità. La mia pelle era diventata appiccicosa, mentre continuavo a sudare così in fretta da non rendermene quasi conto, per via del fatto che fossi ancora bagnato dopo la caduta in acqua. Mi venne in mente proprio in quel momento, con una stretta di panico alla bocca dello stomaco.

«Ez... I libri.. Le provviste.. In che stato sono?» sussurrai con un filo di voce e una certa cautela, come di chi ha paura di sapere la risposta.

Lui si girò a guardarmi: il fatto che fosse sudato, con i capelli d'argento bagnati tutti appiccicati alla fronte e alla nuca, i muscoli messi in evidenza dalla camicia trasparente incollata al corpo e un'espressione di tesa determinazione in volto, lo fece apparire ancora più sensuale del solito. Mi si incollò la lingua al palato, col cuore che aveva preso a galoppare all'improvviso. Volevo toccarlo, e baciarlo, e... Maledizione, non è il momento di pensarci!

«Cazzo.» sussurrò quando, dopo essersi sfilato la sacca dalla schiena e averne estratto un plico di appunti sull'Oltretomba, lo lasciò a gocciolare. Erano ridotti ad un impiastro di pagine inzuppate, con l'inchiostro completamente sbavato, reso una macchia nera ed informe. I suoi vestiti di ricambio - e immaginai anche i miei - erano completamente zuppi mentre le provviste erano intrise d'acqua marina, ma tutto sommato ancora mangiabili.

Ricordai ciò che avevo messo nel mio, di zaino, ed in fretta e furia me lo tolsi dalle spalle per rovistarci dentro: il diario di Hēi era diventato lurido, il sangue che faceva da inchiostro si era raggrumato ai bordi delle pagine e le aveva incollate. Non avevo finito di leggere le ultime memorie di quell'uomo, e me ne rammaricai molto.

«Butta quella robaccia!» sibilò l'albino, col fiatone per via del poco ossigeno nel bosco, cosa che non gli tolse l'energia per strapparmi di mano il diario insanguinato, lanciandolo a qualche metro lontano da noi. Se non avesse avuto ragione, avrei pensato che avesse fretta di disfarsene.

«Ehi!» borbottai, accigliato come ogni volta che vedevo quei suoi modi rudi messi in atto. Okay, capivo temesse di attirare chissà quale creatura, ma... Il pensiero che stavo formulando si interruppe bruscamente. Prima che il diario toccasse terra, qualcosa di così veloce da non riuscire a vederlo ad occhio nudo guizzò da un albero all'altro e nel tragitto lo afferrò al volo. In un battito di ciglia erano scomparsi, la creatura e il diario. Non mi aspettai da Ezra uno sguardo alla "te-l'avevo-detto", perché gli bastò afferrarmi per un braccio e cominciare a correre a perdifiato.

Saltare, sgusciare, muoversi, infilarsi: sembravamo due topi che cercavano di farsi strada in un formicaio troppo piccolo per loro. Mentre io ero snello e sinuoso, per lo straeliano era più difficile. Ogni gesto, per via della mancanza d'aria, sembrava dieci volte più difficile del normale, ed era destabilizzante arrancare nella nebbia senza sapere dove andare. Volevo fermarmi per respirare, bere, dare un po' di sollievo al mio posteriore indolenzito, ma non potevamo fare niente di tutto quello. Anzi, banchi di foschia scura si stavano sollevando così pesantemente che, ad un certo punto, fu difficile vedere oltre un metro da noi.

Nel silenzio più assoluto, sentii la gola di Ezra deglutire, il suo pomo d'Adamo dondolò per un istante, mentre mi prendeva la mano, intrecciando le dita fra di loro, forte. Si fermò, guardandosi intorno nel disperato tentativo di capire da che parte fossimo venuti e da quale dovevamo procedere. Pescai dalla sacca la bussola e, quando osservai il quadrante, non mi stupii di vedere l'ago roteare su se stesso senza fermarsi, come una girandola durante un uragano. Era totalmente inutile. Immobile anche io, provai a respirare il più piano possibile, così da sentire il più piccolo movimento di quello che mi circondava. Se c'era qualcosa che ci seguiva, era meglio andare dalla parte opposta. Solo che non sentivo niente.

Non abbiamo scelta che affidarci all'istinto.

Lo straeliano aveva la fronte corrugata, ma annuì, proprio quando iniziai a sentire tonfi pesanti simili a passi in lontananza. Alzai il polso facendo un cenno verso l'albino, ma lui non capì. Non ce ne fu bisogno: ruotai una perlina e diventammo invisibili, lui con me, visto che lo tenevo per mano. I poteri si estendevano spesso su molte cose che toccavo: i vestiti, lo zaino, la persona a cui stringevo il palmo. Gli strattonai il braccio per fargli capire di muoversi, anche se bisognava stare attenti a non fare rumore.

Poi iniziai a camminare, come il mio addestramento d'assassino mi aveva insegnato a fare: prima il tallone, poi la punta, facendo aderire ogni centimetro del piede in modo da attutire il suono. Il terriccio fangoso aiutava a non fare rumore, anche se qualsiasi cosa si stesse avvicinando, il casino lo faceva eccome. Lo vidi sbucare da dietro un ammasso di alberi e, per un istante, credetti che fosse proprio uno di loro. Sarebbe stato più digeribile, un albero che cammina, si muove e vuole ammazzarti. Ma quello...

«Ho FaMe... BuOn OdOrEeEhh...» Il suono di quella voce mi fece accapponare la pelle. Era prima grave, poi acutissima, come se due persone completamente diverse - ed ugualmente inquietanti - parlassero in sincrono.

Era a cinque metri da noi, ma riuscivo comunque a notare ogni sua orrendevole deformità. Sarà stato alto tre metri, con la pelle grigia e rugosa e ben tre - tre! - braccia da un lato e dall'altro del torace, in un totale di sei mani, ognuna con un'arma diversa in mano. Una scure, una mannaia, un'accetta, un coltellaccio, una mazza chiodata e una sega. Le braccia nerborute grosse quanto una mia gamba non faceva che flettere i muscoli, le vene pulsare prepotentemente, mentre il collo massiccio da toro reggeva una testa piccola quanto quella di un neonato, con due occhi e, allineate, due bocche.

Sentii la mano di Ezra stringersi con vigore intorno alla mia, ma nessuno dei due si fermò. Il piano era chiaro: allontanarsi lentamente, senza farsi vedere né sentire. E per un po' sembrava funzionare. Stavo trattenendo il fiato, camminando nella direzione opposta rispetto alla creatura, dandole le spalle ma senza perderla di vista con la coda dell'occhio, gettando occhiate da sopra alla spalla. Sì, la mostruosità non badava a noi: camminava a zonzo pestando i piedi e affilando le lame delle armi fra di loro, che producevano uno stridore davvero fastidioso.

Poi lo vidi sollevare la testa e sniffare l'aria come in cerca di... Girò la testa esattamente verso di noi. E nonostante fossi invisibile, parve vedermi dritto negli occhi. «TrOvAtI!» Che stupidi. Era una bestia: ci fiutava.

«CORRI!» urlai, schizzando come una scheggia in avanti, senza fermarmi, le dita scivolose di sudore che non ci pensavano neanche per un istante a lasciarlo andare. Il rumore dei passi del mostro si fece martellante alle nostre spalle, finché un sibilio fra le nostre teste non mi fece separare da Ezra di scatto: un coltellaccio si ficcò contro l'albero di fronte a noi, l'elsa dondolava ancora per l'irruenza con la quale era stato lanciato.

Ora che le nostre dita si erano separate, era tornato visibile all'improvviso, totalmente alla mercé della cosa. Si tolse l'arco che portava a tracolla ed incoccò rapidamente una freccia: una trazione del braccio, una tensione del laccio, poi seguii con le iridi diamantine il percorso di quella medesima freccia. Che cozzò contro la pelle dell'essere e rimbalzò, come se avesse appena colpito una roccia, senza nemmeno scalfirla.

«Scappa...» lanciò un'occhiata nel punto dove credeva che io fossi, ma i suoi occhi mi passarono attraverso, senza guardarmi.

«Ma che cazzo stai dicendo?! Non ci penso-»

«Scappa, ORA!» Incoccò un'altra freccia e colpì di nuovo la bestia del caos, i cui occhi scintillavano rossi come il sangue, riuscendo ad attirare la sua attenzione.

«CiIiIiIiiiiBooOoO!» Tutto fu incredibilmente veloce: l'essere gli si scagliò contro e lui scartò di lato, incominciando a correre verso l'ignoto, seguito a ruota dalla cosa che voleva divorarlo. Mi misi a correre, cercando di stare loro dietro, ma successe qualcosa di inspiegabile.

La nebbia mi avvolse come un muro e ci separò a tal punto che io non sentii più nemmeno il suono dei loro passi. Ruotai la perlina dell'invisibilità nel braccialetto intorno al polso, tornando visibile, senza smettere di correre nella direzione in cui credevo fossero andati.

«EZRA?!! EZRAEL! EZRA?!!» urlai, sentendo il sangue ghiacciarmi nelle vene. Non lo trovavo. Era scomparso, lui e il mostro, in un luogo che non conoscevo, su un'isola ostile piena di mostri. E lui non era bravo a combattere come me, sapeva a malapena affrontare due stupidi pirati insieme. Era scomparso, ed era colpa mia, e se l'avessi perso come avevo perso... No. Nonononono.

«EZRAA?! DOVE SEI?!» gridai fino a sentire le vene del collo scoppiare, incurante di quello che potevo attirarmi addosso, stringendo i pugni fino a sentirmi le unghie entrare nella carne. «Per favore... no... per favore... EZRA?!» Girai su me stesso, guardando le cortine di foschia intrappolarmi come avrebbe potuto fare qualsiasi catena, pur senza sentirne il peso ai polsi. «Per favore... Ezrael..» sentii la mia voce perdere vigore, mentre mi infilavo le mani fra i capelli e cadevo sulle ginocchia.

Possibile? Possibile che andasse tutto così male? Quanto tempo era passato dal nostro arrivo? Due ore? Tre? Ci eravamo separati e persi, e forse in questo momento Ezra... Strizzai gli occhi, così forte da sentir mal di testa.

«HELIAS!» Il grido che sentii fu una gioia per il mio cuore. Scattai in piedi, con un sorriso di ritrovata speranza che si stava colorando sulle mie labbra.

«EZRA! Non smettere di parlare! Sto venendo da te!» Mi guardai intorno, concentrandomi per capire da dove provenisse la sua voce. Doveva essere lì, da qualche parte...

«HELIAS! AIUTAMI! AIUTO!» il suo grido si era fatto lacerante, spaventoso.

«Cosa... Cosa...? STAI BENE?» Sentii il mio cuore accelerare, perdersi, cadere sotto alle scarpe e sprofondare sotto alla terra. Stava urlando e non per farsi sentire.

«AAARRGGH!» lo strillo precedette un verso gorgheggiante, come di qualcuno che cerca di parlare anche se sta affogando. Ricordava il suono di quelli che ammazzavo tagliando loro la gola, mentre soffocavano nel loro sangue. Sentii le lacrime salirmi agli occhi e sapevo - sentivo - che mi ero messo ad urlare anche io.

«EZRA! NOOO!» Corsi come un matto, anche se le urla agonizzanti venivano da tutte le parti, come se mi piombassero addosso dal cielo. E poi silenzio. Vuoto. Un nulla tremendo, divorante, che annichilisce ogni cosa. «No no... nononono...» Caddi a sedere, stringendo la terra nera come il carbone dentro ai pugni per la frustrazione e il dolore, picchiandola con le dita serrate, sentendo le lacrime raggiungermi la bocca, sedimentarsi alla lingua con il loro tipico sapore di sale.

E' la fine? Abbiamo perso?

Mi nascosi la faccia fra le mani, singhiozzando disperatamente. Non poteva essere davvero finita. Ma se sono solo, dove troverò la forza? E' la fine. Fine dei giochi. Fine di tutto. Di nuovo, ma stavolta sul serio.

«HELIAS! AIUTO!» La mia testa scattò in alto, con le mani rimaste ferme a mezz'aria, gli occhi gonfi di lacrime spalancati, lo stomaco rovesciato come un calzino. «AIUTAMI, TI PREGO!» Quella non era la voce di Ezra.

«M..mamma?» mi sentii balbettare, mentre impallidivo come una lapide di marmo bianco. Non era possibile. Non aveva senso.

«HELIAS! HELIAS! AIUTO!» Un'altra voce ancora si sovrappose a quella di mia madre. Una voce che avevo sentito tutte le notti, nei miei sogni, ma nel mondo reale aveva tutto un altro effetto, tutto un altro sapore. Era così reale che potevo sentire il mio cuore scoppiare, stravolgersi e morire, in un singolo istante. Era Yul. La voce di Yul. E stava gridando come se lo stessero torturando lentamente.

Ricominciai a correre, ma le voci crescevano d'intensità, Ezra, mia madre e Yul ululavano in coro lamenti laceranti. Le urla divennero un tremendo crescendo di strazio e tormento, al punto che crollai per la terza volta al suolo, coprendomi le orecchie con le mani, piegato su me stesso come sul punto di vomitare, la faccia nascosta fra le ginocchia.

«Basta!» implorai, picchiando la testa contro le gambe, ad un passo dall'impazzire. Era questo posto. Era questo posto di merda. I Regni del Caos. La nebbia, le urla... Sembrava un mostro vivo che si stava prendendo gioco di me, divertendosi a torturarmi. Mia madre non poteva essere lì e nemmeno Yul. «Non può essere reale... Non è reale. Nonèrealenonèrealenonèreale!» continuai a ripetere, ancora e ancora, anche se nella mia testa stavo reiterando l'unica frase in grado di darmi forza.

Mi chiamo Helias Bloomwood e non ho paura.

Mi chiamo Helias Bloomwood.

E.

Non ho.

Paura.

«CiIiiiIiBooOO!» sentii, finalmente, sopra alle urla. Drizzai la schiena, alzai la testa, spalancai gli occhi. Estrassi le mie lame a mezzaluna dalle guaine appese ai fianchi e mentre la determinazione trasformava il sangue ghiacciato in lava, cominciai a correre, tagliando in due la nebbia, diretto proprio verso la voce inquietante del mostro.

Finalmente.

Ezreael si era arrampicato su un albero ed era in equilibrio precario sui rami più alti, vedevo come le braccia tremavano dallo sforzo di sostenere tutto il proprio peso senza poter appoggiare le gambe, che scendevano a penzoloni verso la bestia, anche troppo vicino. Il fatto che il muschio sugli alberi fosse velenoso, immaginai non dovesse aiutarlo affatto a tenere la presa. Ma era sano e salvo e la creatura non l'aveva ancora afferrato. Ancora. Perché proprio nel momento in cui ero venuto fuori dalla nebbia, l'aberrazione a sei braccia era riuscita a raggiungere una delle gambe dell'albino. Lo vidi sollevare il pugno armato di scure e capii immediatamente le sue intenzioni: conficcargli l'arma nella carne e usarla come perno per tirarlo giù di lì. O anche solo ferirlo tanto dolorosamente da fargli perdere la presa. Non era del tutto imbecille, nonostante le apparenze.

Comunque, non fu abbastanza veloce. Mi teletrasportai in tempo per tagliargli via la mano dal polso. O almeno, quella era l'intenzione: aveva la pelle talmente coriacea che riuscii solo ad abbassargli il braccio con la pressione della lama, facendogli andare a vuoto il colpo. Perse completamente l'interesse verso Ezra, ora che aveva un bersaglio a portata di mano: era quello che volevo.

«Che diavolo ci fai qui?! Vattene!» sentii sibilare l'albino da sopra all'albero, che cercava di trovare un appiglio per poter scendere. Lo ignorai, troppo impegnato ad evitare che sei braccia mi sfilettassero come una trota al banco del pesce. Mi teletrasportai alle spalle dell'essere, in aria, con i falcetti in mano, piombandogli sulle spalle, come avrebbe potuto sedersi un bambino sulle spalle del padre, in una delle tante giornate assolate di Skys Hollow fra le bancarelle del mercato. Un'immagine davvero troppo carina per la situazione: io, invece, gli stavo segando il collo con la mia lama nel tentativo di aprire uno squarcio. Uno schizzo di sangue nero mi si spruzzò addosso, ne sentii il viscido calore sulla guancia.

«Muori maledetto, muori!» ringhiai, continuando a tagliare, ma una delle sue manone mi afferrò per la gamba e mi scaraventò via, lontano da lui, con una forza tale che non riuscii a teletrasportarmi in tempo: la mia schiena cozzò violentemente contro il tronco di un albero distante a cinque metri. Il contraccolpo mi fece svuotare i polmoni tutto insieme, lasciandomi a terra senza fiato. Avevo sbattuto forte anche la testa, ed ora puntini bianchi mi brillavano davanti agli occhi, mentre la vista mi si oscurava ondeggiando. Lontano, sentivo il suono ovattato dei passi della creatura risuonare verso di me.

«OrA tI mAnGiO!» gongolò, proprio mentre io strizzavo gli occhi e cercavo di rimettermi in piedi. Mi faceva male la schiena e mi pulsava la testa, ma non importava. Strinsi l'elsa delle armi, proprio mentre la bestia incombeva sopra di me, alzando tutte e sei le sue braccia, pronto a scagliarmi addosso tutto ciò che aveva.

«EHI! MOSTRO!» la voce di Ezra risuonò fra gli alberi: gli lanciò contro un sasso grande poco meno di quella sua testolina da neonato. Il mostro si voltò, con gli occhi rossi di collera. Usai quel momento per lanciarmi verso di lui, lasciando cadere a terra uno dei falcetti.

Il mio palmo aperto si posò sulla schiena della creatura, che aveva la pelle rugosa e viscida come un verme, era disgustoso. Sentii dalle mie dita scaturire un gelo pari a quello che avevamo sopportato durante il viaggio verso i Regni del Caos. Avevo attivato il potere, ed ora lasciai che si scatenasse violentemente sulla bestia, avvolgendogli velocemente il corpo di strati su strati di ghiaccio. Si agitò, mulinando le armi nel tentativo di spaccare l'involucro gelato che gli stava crescendo addosso, ma ben presto anche le braccia furono bloccate, fino al collo. E poi su, ben oltre la testa, mentre io stringevo i denti, sentendo la mano gelata ed insensibile. Mi staccai solo quando fui sicuro che non si sarebbe liberato tanto presto. Se eravamo fortunati, sarebbe morto d'ipotermia... Ma con quel caldo asfissiante, il blocco di ghiaccio si sarebbe sciolto prima.

Ci allontanammo in fretta, ma qualche minuto dopo Ezra accorse verso di me, sostenendomi con un braccio intorno alla schiena quando vide che barcollavo. «Hai picchiato la testa davvero forte... stai bene?» mi appoggiai al suo petto, cercando di riprendermi.

«Cielo Ez, il tuo braccio...» sussultai, notando che la manica sinistra della sua camicia era completamente inzuppata di rosso. Doveva aver ricevuto un colpo di scure, perché aveva uno squarcio particolarmente grave poco sotto alla spalla: riuscivo a vedere l'osso attraverso la carne viva e sanguinolenta. Era una fortuna che la creatura non gli avesse portato via tutto il braccio.

«Sto bene.» disse, irrigidendo la mascella, mentre mi dava un'occhiata alla testa.

«No, non è vero! Guarda le tue mani!» lamentai, afferrandogliele per esaminarle, prima che lui le tirasse via con una smorfia spazientita. Sembrava che se le fosse strofinato con dell'ortica o con della carta vetrata, per colpa del muschio velenoso sugli alberi, immaginai.

«Guariranno.» pronunciò, sbrigativo, lasciando che la mia rabbia montasse rendendo il compito di respirare in quest'aria rarefatta, ancora più difficoltoso.

«Non farlo mai più, idiota. Hai capito? Mai più.» sibilai, stracciandogli la manica della camicia con un coltello in modo da poter lavorare sulla ferita. «Non voglio che qualcuno si sacrifichi ancora per salvarmi la vita. Sono stanco di vedere le persone che muoiono per causa mia.»­ Versai un po' d'alcol dalla fiaschetta di brandy che mi ero portato dietro. Sibilò, a denti stretti, ma non si mosse, anzi, mi guardava con una fissità devastante. «Promettimi che non lo farai di nuovo.»­

Ci fu un lungo silenzio, misto al suono della sua carne che sfrigolava e di un singulto soffocato nella sua gola, quando gli chiusi alla bell'e meglio la ferita unendo i lembi squarciati con una lama arroventata. Considerata la nostra velocità di recupero, sarebbe guarito presto, ma era meglio che non perdesse tutto quel sangue.

«No.» rispose infine, facendomi affilare gli occhi. «E' il mio compito. Non posso promettertelo, non chiedermi di farlo.» Il suo tono era duro, contrito, le labbra sottili strette fra di loro.

«Allora ti sollevo da questo stupido compito.»­­ sbuffai, stringendogli forte una rudimentale fasciatura fatta di stracci intorno al braccio. «Per favore...» aggiunsi, disposto a soffocare il mio orgoglio. Avevo avuto paura, una paura terribile, di essere rimasto solo di nuovo. Paura che gli fosse accaduto qualcosa di brutto.

Le sue mani ruvide e ferite scivolarono sulle mie guance, ­le dita fra i boccoli dorati, i pollici ad accarezzarmi le tempie. «Posso prometterti che starò più attento ad entrambi.»­ si incurvò sopra di me, i nostri nasi si sfiorarono e le sue successive parole mi solleticarono le labbra. «Non volevo farti preoccupare.»

«Ti sbagli... Non ero certo preoccupato per te.»­­ bofonchiai, a voce incredibilmente bassa, prima che le nostre labbra si incontrassero. Sentii la sua mano tracciare linee sulla mia schiena, fino ad arrivare a stringermi una natica fra le dita con un vigore possessivo, spingendomi contro di sé, mentre le nostre lingue duellavano, si cercavano e si evitavano. Eravamo entrambi sudati e sporchi di sangue, ma avevamo ancora l'adrenalina dello scontro dentro alle vene, che si stava scatenando nell'irruenza improvvisa di quel bacio.

Feci scivolare una mano nell'apertura della sua camicia, tastando con le dita la solidità scolpita del suo petto, mentre la sua si infilava dentro ai miei pantaloni, stringendo e tastando i glutei, stuzzicando il cerchietto di muscoli al loro centro. «Noi qui... Non possiamo...»­ ansimai, distaccandomi per un momento dalle sue labbra, mentre continuava a baciarmi l'angolo della bocca, il collo.

«Mmh-mh...»­ mugugnò, marchiandomi la pelle candida intorno alle clavicole, strappandomi qualche sospiro. Il mio stomaco si contrasse per il desiderio di sentirlo dentro di me, in quel preciso momento, ma farlo nel bel mezzo di un ambiente ostile, mentre a malapena si riusciva a respirare, era troppo stupido e troppo pericoloso. Mi distaccai da lui, risucchiando generose boccate d'aria dal naso, ancora rosso in viso.

Si arrese, pur schioccando le labbra. «Approfittiamo di questa pausa per mangiare un boccone.»­ Pescò dalla sacca un tovagliolo ripiegato che avvolgeva della carne secca e del pane, che consumammo velocemente facendo attenzione a non spargere briciole sul terreno. Anche il cibo attirava i predatori, tanto quanto noi stessi. «Come va la testa?»

«E' okay.» risposi, spiluccando la mia carne. Era gommosa e un po' salata, quel genere di roba che ti faceva venire sete, ma non avevo intenzione di sprecare acqua: ne bevvi un piccolissimo sorso. Poi ci rimettemmo in cammino, sperando che per tutto quel tempo non stessimo soltanto camminando in cerchio o in direzione della spiaggia da cui eravamo venuti. Orientarsi era impossibile, non con quella nebbia o con quello scenario ripetitivo. Avevo provato a tenere traccia del nostro cammino lasciando piccoli frammenti della mia camicia di ricambio - priva del mio odore - ­lu­ngo la strada, appesi ai rami, e il fatto di non aver più trovato gli alberi contrassegnati mi faceva credere che stessimo proseguendo verso la giusta direzione. Ma chi poteva dirlo?

Passarono diverse ore e la nebbia sulle nostre teste si fece più simile all'oscurità. Il tempo era un concetto ormai ignorabile, per noi: il sole non esisteva quaggiù, per cui non avrei saputo orientarmi grazie alla sua posizione. Sapevo solo che all'improvviso stava diventando buio e non era un buon segno. Il caldo mi faceva sentire debole e spossato, avevo la testa pesante e il fiatone. Le gambe erano arrivate al loro limite di sopportazione ma il mio orgoglio non avrebbe sopportato di farmi ammettere che ero troppo stanco per proseguire. Arrancai, con l'affanno che mi dimezzava l'ossigeno nei polmoni e il sangue che ribolliva, finendo per appoggiarmi stremato contro il tronco di un albero.

«Non fermarti. Dobbiamo trovare un riparo per riposarci, sta diventando così buio che presto non vedremo niente.» mi disse, senza fermarsi: aveva ragione, non c'era la luna. Sarebbe calato il buio pesto e anche se potevo usare la magia del fuoco, sarebbe stato un modo molto idiota per segnalarsi a qualsiasi creatura nel raggio di cinquanta metri, almeno.

Ma ero davvero stremato, non avevo il fisico prestante di Ezra e la testa mi scoppiava. Si accorse che non lo stavo seguendo e, aggrottando la fronte, si girò a fissarmi. «Allora? Vie..» Lo vidi chiudere la bocca di scatto e sgranare gli occhi. «Helias.» Aveva spostato le iridi color malva un po' più in alto rispetto a dove mi ritrovavo.­­

«Non ti muovere.»­

All'improvviso sentii un suono sibilante proprio accanto all'orecchio. Una risatina femminile, lugubre e fastidiosa simile ad un fischio nei timpani. Con la coda dell'occhio vidi qualcosa arrotolato ai rami dell'albero, che strisciava lentamente. Cercai di allungare la mano sinistra verso il polso dove avevo le perline legate ai poteri, provando a raggiungere quella che mi avrebbe consentito di teletrasportarmi. Non feci in tempo.

Lanciai un grido lancinante quando zanne acuminate mi affondarono nel braccio, morsi che sentii piantati anche nella gamba e nella caviglia. Estrassi un pugnale a mezzaluna e con un solo colpo tagliai di netto la testa alla creatura, che aveva un corpo completamente uguale a quello di un grosso serpente ma una faccia femminile, occhi completamente gialli con palpebre nittiane e denti enormi. Sentii la sua testa rotolare a terra, mentre mi occupavo di strapparmi dalle gambe piccoli serpentelli dalle scaglie nero pece, che mi tenevano ancora i denti piantati nella carne. Avevo le scarpe proprio dentro ad una tana: li vedevo strisciarmi fra i piedi come in cerca di un modo per entrarmi negli stivali.

«Cazzo...» Stavolta mi teletrasportai davvero, proprio accanto ad Ezra. Quando comparii al suo fianco ­le gambe non ressero e crollai a terra. Non osavo guardare i punti dove ero stato morso. «Pre... presto..» Mi sfilai la cintura cercando di legarmela intorno alla coscia, ma le mani mi tremavano. L'albino mi afferrò in braccio e si mise a correre: non mi ero reso conto che i serpenti stavano strisciando verso di noi, probabilmente bramosi di vendetta dopo che avevo ucciso quella che supposi fosse la loro madre.

Quando la nebbia ci avvolse e ci permise di seminare i rettili, il mio guardiano mi posò a terra, stringendo la cintura che avevo ancora fra le mani intorno alla coscia, ed usando la sua per stringermi il braccio. Cercai di restare calmo: sapevo, con tutte le lezioni sui veleni ricevute dal Re degli Assassini, che agitarmi avrebbe aumentato il battito del mio cuore e aiutato il veleno a diffondersi più in fretta. Ma magari, se ero fortunato, i morsi non erano affatto velenosi e... E mentivo a me stesso, perché quando lanciai un'occhiata alla manica stracciata della mia camicia, vidi che la pelle intorno al morso stava diventando nera.

«Helias... per favore.. Dimmi cosa devo fare, dimmelo!» implorò Ezra, stracciandomi la gamba dei pantaloni per avere libero accesso alla ferita, sistemandomi poco dopo la testa sulle sue gambe. Mi sentivo la pelle incandescente e avevo la netta impressione di sentire delle voci - voci sibilanti, che sghignazzavano - dentro ai canali uditivi. Ombre dagli occhi rossi mi svolazzavano intorno con smorfie aggressive ed io iniziai ad artigliare l'aria, gridando, per tenerle lontane.

«..ias!»­ Ridevano e si lanciavano contro la mia faccia come sbuffi di fumo nero. «Helias!»­ La voce dell'albino mi riportò alla realtà: sbattei gli occhi e non c'era più niente. Solo lui e gli alberi e la nebbia e... Mi faceva malissimo la gamba, ma il braccio mi provocava un dolore ancor più tremendo. Era come se qualcuno me lo stesse facendo a pezzettini, lentamente, con un coltello rivestito di sale. Nelle mie orecchie c'era un chiasso tremendo, non mi ero nemmeno accorto che ero io che stavo urlando.

«..tagliare? Devo tagliarli?»

«Che dici..»­­ ansimai, la voce roca per le grida. «Non puoi... tagliarmi.. la gamba.. E il braccio... non.. farlo.. mi servono..»­ gracidai, sentendo il naso gocciolare e gli occhi lacrimare sangue. Forse lo stavo anche sudando. E la cintura a mo' di laccio emostatico non stava funzionando, magari perché il veleno aveva agito già da prima, durante la fuga.

Dopo aver patito quel caldo infernale, adesso iniziavo a sentire freddo. Tremai, in preda alle convulsioni, senza avere la forza per mettermi a sedere: mi vomitai sangue addosso e in quel momento, arrivò la strana, stranissima consapevolezza - come se fossi lontano dal mio corpo e mi sentissi estraniato da quel dolore - che fosse effettivamente la fine. Che fine stupida.

«Ehi! Non chiudere gli occhi! Non osare!» Ezrael mi teneva il viso fra le mani, anche se io non riuscivo a vedere il suo. Era sfocato, triplicato, come guardarlo attraverso le lenti di occhiali sporchi di lacrime. Forse stava piangendo anche lui, era difficile capirlo, perfino il suono della sua voce sembrava remoto. «Non ti lascio morire! NO!»­

Un velo di tenebra mi calò sugli occhi, ma strinsi i pugni, ficcandomi le unghie nei palmi, determinato a restare vigile. Ancora per poco. Magari il mio corpo sarebbe guarito da solo, se avessi tenuto duro. Non volevo morire così. Che fine avrebbe fatto la mia missione? Sarei finito nello stesso posto dove mi stavo tanto affannando ad arrivare, oppure il destino mi avrebbe destinato qualche altra sorpresa? E se... E se fosse stata tutta una leggenda? E se, alla fine, le persone sparivano semplicemente nel nulla? Come quando si va a dormire.

Fine della vita. Fine di tutto. Smettere di esistere, senza nient'altro dopo. Il nichilismo più puro. Il solo pensarci faceva paura.

Sfarfallai le ciglia, l'oscurità si diradò solo per un istante, un brevissimo frammento di momento, una spaccatura, in cui fui sicuro di sentire Ezrael ringhiare verso qualcosa o qualcuno: «Devi dirmi qual è l'antidoto! Devi!»­ Non riuscivo a muovermi, non sapevo se c'era una persona lì vicino a noi. Sentivo le palpebre pesanti come macigni, tanto che alla fine caddero pesantemente e chiusi gli occhi.

«Dimmelo!»­

Poi precipitai nell'oscurità, nel silenzio, nell'assenza di dolore. Persi i sensi.




***
*NDA - Angolo puntuale, che brava autrice!*

Hola a tutti!
Sì, lo so, faccio la Helias della situa e mi lodo da sola, ma bisogna dirlo, sto aggiornando in tempi decenti e sono fiera di me stessa! Ma sono davvero in un periodo ispirato (specialmente per questa storia). Intanto buon sabato a tutti! Che dire? E' stato un capitolo pieno di emozioni, spero di essere riuscita a trasmetterveli tutti e che vi sia piaciuto. Il prossimo, ve lo posso assicurare, non sarà da meno. Questa terza parte della storia sarà un po' tutta così, è come se da quando ho iniziato a scrivere "I Signori dell'Oltretomba" avessi aspettato fino a questo momento, all'inizio di questa terza parte. Cavolo, praticamente tutto ciò che c'era in precedenza era "in preparazione di". E ora ci siamo, finalmente!

Vi si lovva, alla prossima~

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