2. POV ???
«Nasciamo senza portare nulla, moriamo senza poter portare nulla, ed in mezzo, nell'eterno che si ricongiunge al breve battito delle ciglia, litighiamo per possedere qualcosa.»*
- N. Nur-ad-Din
Da qualche parte a Darlan
Nuvole di fumo bianco s'innalzavano dal sigaro che quell'oscura figura incappucciata teneva fra le dita ingioiellate, nemmeno per una volta portato alle labbra. La cenere si era accumulata sulla punta ed ora rischiava di crollare sul tavolino di legno tarlato sotto alla sua mano grande e fredda. E l'avrebbe fatto, bastava un singolo movimento del braccio. Invece lui rimaneva immobile, il cappuccio ancora tirato sulla chioma, gli occhi crudeli che splendevano da sotto al lembo nero, ombreggiati dalla stoffa e dalla luce debole che emanava il rozzo candeliere di creta sul tavolino. Una sola fiammella accesa.
La bettola si nascondeva da qualche parte nei più sozzi bassifondi di Skys Hollow, dove tutti avevano qualcosa di troppo losco da compiere per poter stare a guardare quello che facevano gli altri. Ed ecco perché il nucleo della vita oscura della Capitale racchiudeva due dei più famigerati uomini del regno, l'uno di fronte all'altro nella vecchia osteria. Ampi colonnati in muratura rossa priva d'intonaco e travi di legno scoperte sul soffitto. Ogni tanto qualche parolaccia o intagliatura balzava sulle pareti e non sarebbe stata nemmeno la cosa più strana, in quel posto.
Loro, però, erano piuttosto strani. Tuttavia, nessuno se ne curava. I tavolini minuscoli stavano stipati sul pavimento di legno sudicio e scivoloso dalla birra, tutti in un unico stanzone angusto, illuminati soltanto da una fiammella a testa, accompagnati da un posacenere mai pulito e, nei giorni fortunati, da un fiore di carta ammuffita che spesso prendeva fuoco per colpa della vicinanza con la candela. In fondo alla stanza: il bancone del barista, che vendeva solo birra vecchia a pochi spicci. Ma la gente non andava lì per bere, e questo era ovvio per tutti.
«Ti avevo chiesto soltanto una cosa.» la voce dello sconosciuto, roca e tonante, fu abbastanza imperiosa e potente da riempire la stanza e prevalere su tutte le altre, almeno per qualche istante. Aspettò che il prepotente parlottare altrui tornasse a riempire la stanza e riprese a parlare, inclinandosi appena verso l'altro lato del tavolo. La sediolina sotto di lui cigolò per qualche istante. Era quasi ridicola, rispetto alla stazza dell'incappucciato; le spalle larghe, i muscoli possenti racchiusi nell'abito di seta e velluto elegante, le gambe lunghe un sogno. «Com'è potuto sparire dai miei radar?» un sibilo graffiante.
Dall'altra parte del tavolo, una risata gelida e carezzevole scosse la gola del secondo incappucciato. Sì, erano nei bassifondi dove nessuno avrebbe parlato. Ma questo non significava che mostrare la propria faccia non si sarebbe rivelata una mossa stupida, se non folle.
«Non ricordavo che le tue spie incompetenti fossero una mia responsabilità. Anzi. Io non ero d'accordo su molte cose...» esclamò, la voce cavernosa e sensuale che emanava un tono di gelo misto a fastidio. E qualcos'altro di più intimo. Ma lo guardò con occhi affilati, uno sguardo di sfida che sembrava minacciarlo a dire il contrario.
«Bada a come parli. Tutto quello che hai, lo hai grazie a me.» sibilò, con uno sguardo color diamante che sembrò tagliare in due l'altro, con la stessa durezza affilata di quella gemma preziosa, che recava anche ai polsini della camicia come gemelli. L'altra figura si rilassò contro lo schiena della sedia, sciogliendo le spalle. Con la massima calma.
«Sembri teso, Val. Che ti succede?» Un autocontrollo di ghiaccio, da parte sua. «Ricordati che siamo qui perché ci siamo arrivati insieme. E insieme rischiamo di cadere.» rispose, affilando gli occhi da coccodrillo. L'altro poteva essere un uomo d'immenso potere ed infinita crudeltà, ma quello scaltro fra i due era sicuramente lui. «Io ho seguito i tuoi ordini sin dall'inizio. Lo sai. Ero a Treblin perché me l'hai detto tu.» Un movimento sciolto del mento. «E l'ho mandato ad Ender perché me l'hai detto tu.»
«E ora non lo percepisco.» lo rimbeccò, velenoso, sebbene una sfumatura nei suoi occhi si fosse acquietata, come accadeva spesso quando l'uomo dagli occhi gialli sussurrava con quella voce di miele. «Ma almeno il rituale procede per il verso giusto.» I lineamenti si distorsero in un sorriso oscuro. Di una cattiveria così profonda da risultare quasi disturbante. «Muoiono come mosche. Ma la loro carne è disgustosamente dolce.» Restò in silenzio per qualche attimo, tamburellandosi le dita contro al labbro inferiore. La sua bellezza era tanta quanto lo era la mostruosità che nascondeva in una parte profonda e nascosta.
«Lo ritroveremo.» avvicinò la sedia all'altro capo del tavolino, spostandola sulla destra, con la gamba che toccava quella dell'altro e un braccio vicino alla sua figura. «Ci porterà a Loro, ora che è fuggito. Hanno usato la magia. L'importante è prendere la chiave.»
«Quel regno dovrebbe essere morto e sepolto con la loro pazza principessa.» ringhiò, stringendo appena i denti e il pugno. La cenere si cosparse sul tavolino. «Ma non è così...» I loro occhi s'incrociarono in un silenzio che durò diversi istanti, in un abbraccio di diamante e topazio, che scandiva istanti di pericolo. «... Perciò moriranno quando tutto inizierà.»
«Con Sfavillo, immagino.» continuò l'incappucciato, da cui sbucò una ciocca di capelli corvini.
«Meglio. Sarà lui a distruggerli.» Si portò il sigaro alle labbra, sorseggiando il fumo che gli pizzicò piacevolmente la gola. «D'altronde, ti ho chiesto di trasformarlo in una macchina assassina per una ragione ben precisa, Alaister.»
Il Re degli Assassini sorrise con aria gelida, rubandogli di mano il sigaro per prenderne una boccata e restituirgliela attraverso un fumoso bacio sulle labbra, che l'altro ricambiò tentando di mettere a freno la passione. «Ma è ancora presto. Diamo tempo al tempo...» sussurrò. «I preparativi sono appena iniziati e in quanto tuo cavaliere ho il dovere di fare del mio meglio. Speriamo solo che la tua piccola spia non faccia errori.»
***
Regno di Red Mask, qualche secolo prima
«C'è qualcosa che non va, vostra altezza?» chiese Herminia, per la prima volta.
L'uomo era avvolto da una vestaglia di seta rossa, la maschera cremisi sollevata sopra al capo e una pergamena sottile stretta fra le mani, di cui seguiva le parole. Se ne stava seduto sul baldacchino da imperatore, levando gli occhi scintillanti per spargerli ovunque e da nessuna parte, al tempo stesso. Con lo sguardo perso nel vuoto.
Le dita pallide ebbero un fremito. Non era assolutamente un tremolio di paura, non sarebbe stato da lui. Forse era un desiderio. L'eccitazione. L'adrenalina di qualcosa che si prospettava per il futuro e quasi ne assaggiava il sapore. Restò con gli occhi appena sgranati.
«Nulla.»
«C'è qualcosa che non va, signor Hēi?» chiese di nuovo Herminia, per la seconda volta, alcuni giorni dopo.
L'uomo passò le frecce smussate alla sua serva, dopo averle raccolte una per una dai bersagli, affinché le affilasse. Sapeva di avere un succhiotto sul collo, violaceo ed evidente, che balzava dal colletto stretto della camicia, esposto agli occhi curiosi di chi non riusciva a non tenerli a bada dentro alla maschera per farsi gli affari propri.
«Non c'è niente che non vada, Herminia.» rispose, con un tono piuttosto freddo. Ma c'era anche qualcosa di assente. La mente vagava verso il potere, l'essere, l'uomo. Colui che sembrava poterlo plasmare fra le sue mani come l'argilla fresca, ma senza mai riuscire a fare di lui un burattino. Sembrava provarci, con lasciva ostinatezza. Ma non ci riusciva.
Eppure, istintivamente, strinse più forte il colletto per coprirsi.
***
Ora
Nasciamo senza portare nulla, moriamo senza poter portare nulla, ed in mezzo, nell'eterno che si ricongiunge al breve battito delle ciglia, litighiamo per possedere qualcosa.* E io, nel momento che passavo a socchiudere le palpebre, convinto di avere molto più tempo a disposizione per farlo, mi struggevo e mi battevo contro quello che era il resto del mondo e contro il mio mondo, Lui, per ottenerlo.
Ogni passo avanti era una ricaduta, ogni gesto un rifiuto, ogni sorriso una sfida. Finché finalmente non aprimmo gli occhi. Finché nel mondo non ci fummo soltanto lui ed io, ed era bellissimo. Ed era terribile. Un sogno irrealizzato che ballava sui palmi delle nostre mani e sul punto più nascosto delle nostre menti, che ci sembrava tanto solido, finché, a pugni chiusi, non ci ritrovammo a stringere polvere che volava via fra gli spazi delle dita.
Ma che cosa ci importava dei sogni?
C'eravamo. L'uno per l'altro. Ed era così maledettamente tangibile. Mi sembrava di sentirlo anche ora. Stringevo i serici capelli di velluto fra i polpastrelli e li lasciavo sfuggire dalle mani solo per poterli rincorrere, accarezzarli, seminare lunghi brividi sulla sua colonna vertebrale e percorrerla pelle contro pelle, suonandola come un pianoforte, con ogni vertebra.
Baci pescati che suggerivano sogni proibiti. Ma ancora, che cosa potevamo farcene dei sogni? Era tutto così intenso. Puramente carnale e al tempo stesso, inevitabilmente romantico. Avrebbero potuto odiarmi per quanto potessi esserlo. Ma non avrei smesso di baciarlo per nulla al mondo. La curva di quelle labbra a cuore, tanto simili ad un delizioso arco di cupido, mi spingevano a seguirne la forma con la punta della lingua. Stampando altri marchi sulla linea della mascella, sotto al mento, sull'incavo delizioso del collo.
Finché non lo sentivo fremere, la schiena inarcarsi, spinta contro il petto. Muscoli contro muscoli, carne e sangue che pulsava nei punti di piacere più assoluto, arrossando la pelle come fuochi d'artificio sparati in pieno giorno, fra le nuvole. Il colore in mezzo al bianco perlaceo della sua pelle, che non mi rendeva mai sazio.
E il suo irresistibile, inarrestabile profumo. Di quelli che non mi stancavano mai. Che quando avevo l'illusione che fosse troppo opprimente, in certi esatti momenti pareva cambiare quasi nell'odore opposto, incuriosendomi sempre di più, invogliandomi a stare lì per immergere il naso fra la chioma ed inalare ogni respiro provenisse da lui. Una volta gelsomino, una volta vaniglia, un'altra ancora cacao e poi limone zuccherato, burro. Talvolta sembravano addirittura assumere connotazioni astratte. Il profumo della lussuria. Quello della malinconia. E della ferocia, e per assurdo, della purezza.
Accarezzavo le cosce toniche e lasciavo che le appoggiasse contro al petto per incastrare la piega dietro alle ginocchia sulle mie spalle, polpacci sulla schiena, in un'angolatura ideale per fare l'amore. Come solo noi sapevamo fare. Finché non entravo in lui godendomi l'unica ed irripetibile ebrezza di guardare i suoi occhi riempirsi di piacere e quella scintilla di dolore che provava nell'attimo prima che il suo corpo mi riconoscesse e si adagiasse ad ogni mio movimento. La stanza si riempiva del suono dei nostri gemiti, dei nostri corpi che si incontravano e scontravano, allontanandosi solo per rincorrersi in uno spiegazzato avvilupparsi di lenzuola fra le caviglie.
E poi l'amplesso, quell'unica armonia di tremori mentre giungevamo al culmine insieme, stringendo più forte il nostro pugno unito e assorbendo il suo grido affogato nel mio bacio. Lo sentivo ancora adesso. Mi riverberava dentro alla gola e si scuoteva nel petto, congiungendosi al cuore, affrettando i miei insoliti battiti. Ma sarei rimasto lì ancora un bel po', scivolando fuori dal suo corpo solo dopo qualche minuto di calore in più, per poi stramazzare stancamente col viso sul cuscino.
Sarei rimasto lì tutte le notti, come facevo sempre, ormai, anche adesso. Lo guardavo crollare e, prima di scivolare nel sonno, girarsi a guardarmi con gli occhi schiusi e le ciglia lunghe atte a creare un merletto fra le iridi luminose. «Ti a...»
«SVEGLIATI!»
Mi sentii tanto stordito da quel grido improvviso che tossii agli ultimi effluvi della pipa. Tentai di puntellarmi sui gomiti, invano, perché vacillai e ricaddi sul cuscino in seta di quel comodo lettino. Sbattei le palpebre più volte, aggrottando così forte le sopracciglia che la mia fronte divenne un'ispida mappatura di tutta la mia irritazione.
«Eh... Ngh.. ??» produssi qualche verso disarticolato dalle labbra e tornai a sollevare la schiena, stavolta lentamente, ed ebbi più fortuna. Appoggiando la mano con la pipa al mio fianco sentii la zolletta di oppio ruzzolare fuori dall'alluminio, oltre il divano, sul pavimento. Scoccai un'occhiata dura alla donna che adesso si parava ai piedi del mio lettino, in piedi, mani sui fianchi a stringere i lembi di un corsetto rosso che stringeva l'abito di seta arancio piena di camelie e bottoncini sul petto, aderente fino alle ginocchia.
«Hai idea di quanto tempo ci ho messo per farti riprendere?!» sbraitò, mentre io la ignoravo, seguendo i disegni di fumo che scivolavano fuori dalla mia pipa, o quelle virgole di fuoco che riscaldavano il braciere al centro della stanza, riempiendo il luogo di fumi profumati. Incenso, ma anche qualcosa di più intenso e tossico, che ti sporca non solo il corpo ma anche l'anima. «Ascoltami!»
I miei occhi scivolarono verso di lei, in quegli occhi a mandorla, assenti. «Che vuoi, Herminia?» Ero stanco della presenza costante di quella ragazza nella mia "esistenza". Perciò inalai a pieni polmoni le essenze malevole e profumate che si acquattavano negli angoli della stanza riempiendola di nebbia grigia.
«Devi smetterla con questa robaccia!» ringhiò, strappandomi di mano la pipa d'ebano che avevo appena recuperato e stavo provando a nascondere nelle maniche ampie di una camicia. Non feci nulla per fermarla, mi limitai ad alzarmi in piedi, barcollando sulle suole delle pantofole di satin morbido.
«Non so di cosa parli.» risposi, con un ghigno, schiarendomi la voce impastata dall'ultimo sogno. Allucinazione. Ricordo. Avevo ancora il sapore delle sue labbra contro al palato, tanto che mi umettai la bocca nel tentativo di ricercarlo. E di ritrovare quell'autenticità che mi sembrava di perdere giorno dopo giorno, finché non sarebbe rimasta che la pura e semplice fantasia. Il resto, solo contorni sfocati.
«Non prendermi in giro, questa è una fumeria d'oppio. O mi credi cieca?»
«Avevo sperato lo fossi.» ammisi, continuando con l'insopportabile ghigno, che lei ricambiò un attimo prima di afferrarmi per la manica, tirandomi fuori dal posto saturo di vapori allucinogeni. Ma solo perché io avevo deciso che poteva farlo, altrimenti la mia forza sarebbe prevalsa sulla sua e non ci sarebbe stato modo di trascinarmi via. «Allora, cosa c'è questa volta?» sbuffai, ammosciando il ghigno, con le mani abbandonate pigramente dentro alle tasche dei pantaloni, rigonfi sulle caviglie come quelli di un genio della lampada. Ma un po' più rossicci; lì era tutto sui toni caldi. Oro, arancio, giallo, ocra, scarlatto, cremisi... E mille altre sfumature che avresti giurato di non aver mai visto prima di arrivare in questo posto.
«Red Mask sta per tenere un discorso a tutti gli aspiranti imperatori.» Mentre camminava verso le mie stanze, si sistemò la maschera sul viso coprendosi i lineamenti, ma riuscii a vedere gli occhi ruotare verso di me dalle fessure. «E credo proprio che tu debba esserci.»
Sogghignai. «Perché?» ricalcai la parola con il solito tono strafottente di sempre. «Perché è una tua idea?» Come se io facessi quello che mi dicevano gli altri. Non lo facevo nemmeno con Lui. Una qualsiasi non avrebbe fatto la differenza.
Però la donna non rispose: mi trascinò dentro alla mia stanza e si affrettò a cercare dei vestiti dentro un armadio non mio, con vestiti che non avevo nemmeno scelto io. Non sapevo chi lo avesse fatto, ma erano della mia misura. Onestamente, avrei potuto anche indossare un calzino solo e mi sarebbe andata a meraviglia, ma Herminia non doveva essere dello stesso parere. Perciò, con lo zelo di chi sembrava voler sottolineare che le importava tanto di me, mi diede una sistemata, sufficiente a non farmi sembrare appena uscito da una fumeria d'oppio. Che ancora mi era in circolo, dal modo in cui mi tremavano le mani, o le palpebre ogni tanto venivano scosse da qualche spasmo.
Lasciai che la maschera da demonio rosso prendesse posto davanti alla mia faccia, con le corna bianche sporgenti all'infuori, a spuntare dal cappuccio nero di un mantello che nascondeva la mia figura, i capelli, ed anche i vestiti che la donna si era impegnata per scegliere. Poi, afferrai il lungo bastone da cui penzolava la mia lanterna di carta, lì dove un numero limitatissimo di anime baluginavano all'interno, aspettando di riempirsi.
Quando mi ritrovai sulla gondola, mi stupii di quanto fosse facile sudare freddo ad ogni spiraglio di vento che penetrava nel mantello. Ma quello era uno scherzo, rispetto a ciò che avevo affrontato nella mia vita. Perciò lasciai che Herminia mi conducesse verso il palazzo dell'imperatore, una pagoda così mastodontica che i suoi numerosissimi piani scomparivano oltre le nuvole cariche di rosso, in perenne tramonto.
«Lo sai che non ho ancora detto di sì. Quindi non ho ragione di essere qui.» puntualizzai, ma non c'era nulla di duro nel mio tono. Più beffardo, di chi alla fine non se ne importa nulla, perciò qualsiasi sia la situazione va comunque bene. Canzonandola. Trascinarmi in una storia simile era ridicolo, perciò c'era da riderne parecchio.
«Oh, credo che tu la abbia! Ma te la spiegherò quando avrai deciso sul serio.» Alzò le spalle e con un rapido movimento di remi permise alla gondola di immettersi in un bizzarro sistema di carrucole idrauliche che permettevano al nostro mezzo di trasporto di salire i piani grazie alle correnti acquatiche. Fra un piano e l'altro, lunghi colonnati scarlatti e corridoi laterali dall'aria infinita si susseguivano, riempiti da alberi in fiore, che sembravano schiacciarsi sotto alle pareti.
«Non cambierà le cose.» sapevo essere terribilmente ostinato, quando volevo. Abbassai la testa per schivare il ramo di un ciliegio, perdendomi la mossa che Herminia aveva fatto con la mano, come in una specie di spazientito gesto d'arresa. Poi, finalmente, il piano che ci interessava fu raggiunto, un dettaglio piuttosto chiaro vista la fila numerosissima di gondole che si ammucchiavano intorno alla struttura al piazzale circolare di pietra rossa. Fummo costretti a lasciarla in una tripla fila e ad arrivare al pavimento saltando da una barca all'altra.
Mi accorsi velocemente che si trattava di una sala del trono: nel fondo dell'androne, sopraelevato su una scala ripidissima di marmo ed attorniata da imponenti colonnati cosparsi di rubini, e di statue di dragoni a bocca spalancata con zanne d'avorio, vi era un trono di madreperla, con lo schienale altissimo, che sulle punte fungeva bizzarramente da candeliere, sebbene le luci si annidassero anche fra le fauci delle statue.
Lì, seduta sul trono, con gli avambracci posati ambo i braccioli e le dita a premere sui pomelli a forma di teste animali, c'era Red Mask, un'imperatrice dalla chioma scarmigliata e lunghissima di un colore indefinito fra il nero e il ramato; il volto coperto da una maschera decisamente più grande di un volto umano, di un colore decisamente rosso ma di un materiale che sembrava... Pulsare come un cuore vivo, in sfavillii vermiglio. La maschera possedeva anche delle corna lunghissime e ricurve, e un paio di zanne dall'aria ancora più micidiale. Quando parlò, diffondendo la sua voce in una stanza gremita di persone incappucciate e nascoste da un costume demoniaco sul volto, non mi sembrò né una donna, né un uomo. Sembrava un ringhio animalesco.
«Benvenuti, future e futuri Imperatori del Regno di Red Mask.» annunciò, gettando nella sala qualche fremito di concitata attesa. La sensazione del potere che emanava strisciava fra la folla seminando brividi a tutti, e fui sicuro che i miei non c'entrassero nulla con l'oppio. Poi, l'imperatrice si sollevò di poco la maschera, rivelando solo il mento e un lembo della bocca. «Come tutti sapete...» riprese a parlare, adesso con una voce del tutto femminile. «... Dopo la scomparsa dell'Imperatore Hēi, ho governato in questo regno per oltre due secoli.»
Io non lo sapevo. Non sapevo nulla del posto, della sua storia, di cosa ci fosse oltre di esso. Non m'interessava neanche granché, in fondo.
«E voi lo sapete. Potrei continuare ancora per molto, abbiamo l'eternità davanti.» Aprì le braccia come a voler abbracciare la sala, dispiegando il vestito rosso intessuto in fili d'oro, che le avviluppava la gola con una serie di bottoncini e spilloni. «Ma credo fermamente di aver offerto ai miei sudditi tutto ciò che potevo dare. Ora tocca a voi.»
Sentii Herminia giungere al mio fianco e tirarmi un pizzico al braccio, come a voler farmi notare l'importanza delle parole. Sbuffai una risata appena accennata dalle narici. Eppure, per la prima volta da quando fui arrivato, mi chiesi se non dovessi davvero andare avanti. Un'esistenza senza di Lui poteva chiamarsi tale? La risposta era incerta.
«Red Mask ha bisogno di un nuovo possessore.» capii che parlava della maschera che indossava, perché ritornò a farsela calare su tutta la faccia. «E sono certa che fra uno di voi si nasconda il proprietario perfetto, il nuovo imperatore.» riprese a parlare con quella voce graffiante e roca, come il ruggito di una bestia. In molti si guardarono a vicenda, con luccichii circospetti che balzavano dalle fessure delle maschere. Ognuno cercava di capire quale fosse il potenziale avversario che avrebbe ostacolato la corsa al trono.
Nessuno però proferì parola, non quando l'Imperatrice aggiunse, tornando seduta, mento solennemente sollevato e tono ieratico: «Abbiamo ricevuto tutti una seconda possibilità per qualcosa di grande. Rendetemi fiera, popolo dell'Oltretomba!»
***
*NDA - L'ultimo angolo dell'anno*
Hola a tutti!
Innanzi tutto: auguri per il Natale da poco passato e per l'anno che sta per arrivare, speriamo che sia buono per ognuno di voi/noi (anche se ultimamente per me vige il #mainagioia quindi non sarà un numero in più a cambiare le cose :'D ). Smettendo di divagare, sono contenta di essere riuscita a pubblicare questo capitolo entro dicembre, sto riuscendo a mantenere un certo ritmo e ne sono felice! (Merito delle vacanze? Anche). Se avete notato un capitolo un po' più corto, sappiate che i POV misteriosi lo saranno rispetto ai capitoli principali! E poi... Siamo arrivati al decimo capitolo di questa storia! *Stappa champagne asciugandosi una lacrimuccia* E spero che nelle sue stranezze vi sia piaciuto. Visto che siamo alla fine del 2018, ringrazio tutti i lettori che hanno continuato a seguirmi sin dall'inizio - tollerando anche i miei casini, lol - e sappiate che ho anche vacillato tanto, specie su questa storia, perché in certi momenti la tentazione di lasciarla al suo destino è stata forte. E' solo grazie a voi se continua, quindi è doveroso dirvelo!
Ci vediamo all'anno prossimo con un nuovo aggiornamento!~
(p.s. scusate la ri-pubblicazione, dovevo controllare qualcosina c: )
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