18. L'Assassino e il prigioniero
«Quelli che sognano ad occhi aperti sono a conoscenza di molte cose che sfuggono a chi sogna addormentato.»
- Edgar Allan Poe
«Offro cinquecentomila pezzi d'oro!» Una donna tirò i capelli ad un'altra dama.
«Cinquecentocinquantamila pezzi d'oro!» Non riuscii a capire più nulla perché mille voci si sovrapposero l'una sull'altra in un groviglio intricato di insulti, esclamazioni e offerte.
«Settecentoquaranta mila!» gridò una voce sopra le altre, ma subito venne inondata da tante altre e sparì nel caos. Poi, improvvisamente, una si fece più forte.
«Offro cinque milioni di pezzi d'oro.» la voce calda e melodiosa di un giovane spaccò in due il chiasso. Piombò un silenzio di tomba. Perfino il loquace banditore d'aste al mio fianco smise di pungolarmi e non ebbe il coraggio di ribattere. Cercai di individuare la fonte di quella voce in mezzo agli spettatori, ma il mio tentativo fu vano. Di chi mai poteva trattarsi?
Era tardissimo ormai. Non avrei saputo definire l'ora con certezza, perché il tempo aveva perso ogni logica e ogni attrattiva, contava solo l'inizio della prossima canzone.
Avvolto dal turbinio caleidoscopico di maschere, volti e musi di animali impagliati ma talmente ben fatti da sembrare vivi, rischiai quasi di perdere il movimento in cima alle scale. Eppure la coda dell'occhio colse un luccichio argenteo e mi voltai verso l'imponente gradinata appena in tempo per notare l'ingresso di un gruppo di giovani uomini.
Il portamento, la foggia degli abiti, le espressioni spavalde e sicure: sarebbe stato impossibile negare che fossero nobili, anche di un alto rango, poco importava che indossassero maschere d'argento per celare la loro identità. E c'era solo un motivo che portava aristocratici tanto illustri ad infiltrarsi in una festa in piena notte. Fare qualcosa di proibito.
Li guardai scendere la scalinata godendosi le attenzioni che la gente in pista donava loro con sguardi interessati, per quanto ebbri e alticci. Forse era proprio in quello che speravano: quella libera e totale mancanza di freni e di codici educativi.
Al fianco di chi capeggiava il gruppo c'era un bell'uomo, ben piazzato, i capelli color cioccolato e una spada al fianco. Si muoveva rigido e si capiva dal modo in cui teneva corrugata la fronte che non aveva alcuna voglia di essere lì e ci era stato trascinato. Magari a protezione di qualcuno.
E quel qualcuno era... Cielo, si capiva che colui che capeggiava il gruppo era quello splendido ragazzo dai capelli corvini, bello anche con la maschera indosso, che sorrideva seducente e ammiccante al mondo intorno a lui. Ci vollero solo pochi secondi perché intercettasse il mio sguardo, dall'altro lato della sala e l'espressione che mi rivolse fu la migliore di tutte. Quella di chi non aspettava altro che incontrarmi.
Gli sorrisi, celando nella piega invitante delle mie labbra una promessa proibita: mi sentivo sfrenato, quella sera. Coraggioso e leggero. Perciò sollevai le mani verso l'alto, fiancheggiando, i movimenti che si facevano sinuosi e seducenti.
Intercettai lo sguardo di Yul, non troppo lontano da me, ancora appoggiato ad una colonna. Lo vidi lampeggiare di collera ed io mi strinsi nelle spalle, rivolgendogli un sorrisetto serafico che voleva lavarmi via da qualsiasi tipo di colpa mi fossi macchiato quella sera.
Poi tornai a guardare il corvino: con poche ed ampie falcate si era aperto la strada fra la folla e ora mi fronteggiava, affascinato e affascinante insieme. Attraverso le fessure della maschera, i suoi occhi erano di uno scintillante azzurro ghiaccio che assomigliava molto al mio, benché scevri della rabbia che di solito mi apparteneva.
«Carino il party. Peccato non essere arrivato prima...» soffiò al mio orecchio, con una voce calda e melodiosa, che subito pensai d'aver sentito già da qualche altra parte. Ma me ne dimenticai all'istante, quando le sue labbra mi sfiorarono il lobo per continuare a parlare e farsi sentire da sopra al ruggito della musica. «Ci siamo già visti prima d'ora?»
Se era una tattica per provarci... Be', ci stava riuscendo. «Chissà.» replicai, danzando vicino a lui, le movenze lente ed invitanti. Lui mi guardava con una tale attrazione che sospettai non avesse solo intenzione di mettersi a ballare in mezzo alla folla insieme a me.
«Dimmi chi sei.» chiese lui dritto nel mio orecchio, solleticandomi la pelle sensibile col suo respiro. Sorrisi soave, facendo scivolare una mano sulla sua guancia con l'intenzione di togliergli la maschera, curioso come lui di scoprire la sua identità, ma non ci riuscii: era ben fissata dietro la testa. Così mi limitai a parlargli all'orecchio, emulandolo.
«Il mio nome è Sole» bisbigliai «e Neve. E Sangue e Cenere. Il mio nome è uno scintillio disperso nell'oscurità della notte.»
Mi sentivo sfrenato e gioioso, profondo ed ispirato. Potevo anche librarmi a qualche centimetro dal pavimento, per quanto fossi leggero, come una libellula, come un colibrì. Il ragazzo rise delle mie parole, ma non per ilarità, piuttosto contagiato dalla mia ebrezza.
«Io sono tutto quello che il fato vuole che io sia.» proseguii, il tono di voce che si era fatto dolce e delicato come un bel sogno. Dicevo il vero: quante volte avevo avuto una personalità costruita sulle mie missioni? Una volta ero il componente di un harem, un'altra ero un giovane marinaio, l'altra ancora un avvocato.
L'uomo mascherato fece scivolare una mano sul mio viso, il dito liscio e privo di calli o imperfezioni, come di consueto per un nobile, tratteggiò la linea del mio labbro superiore.
«Stanotte il fato vuole che tu sia Mio.»
Suo, eh?
«Merda.» ringhiai, sbattendo i piedi, i passi che rimbombavano dentro alla cabina del capitano, gli stivali che cozzavano contro le assi di legno sempre ricoperte da quell'innegabile patina d'umidità che sembrava appiccicata a tutta la nave. Un passo dopo l'altro, ancora e ancora. Le mani fra i capelli, a stringersi in due pugni in un groviglio di ciocche dorate.
Le cose si erano messe male, totalmente male. Il fatto che avessi come prigionieri il capitano della guardia reale Raven Kenneth e il principe ereditario di Darlan, Adrian Kavendish, poteva essere un vantaggio. Forse avrei potuto guadagnarci qualcosa... se il Re fosse stato un uomo qualunque, un padre qualunque.
Ma, oltre ai comuni doveri che i cittadini si sarebbero aspettati da un sovrano, probabilmente non gli sarebbe importato nulla di quel ragazzo: perché una creatura immortale dovrebbe preoccuparsi di assicurare la propria discendenza sul trono? Il ragazzo dietro alle sbarre era sacrificabile. Si sarebbero limitati ad inviare nuove flotte, forse per apparenza, per tranquillizzare gli altri nobili, cosa che mi avrebbe causato qualche grattacapo e nessun guadagno. Loro, invece, sapevano già troppe cose: che ero il Re dei Pirati, che Ezrael era il mio secondo, che la mia nave era l'Idra Spinata e che stavo andando in capo al mondo... per una ragione che il Re avrebbe potuto senza problemi comprendere.
Non trovavo motivi per salvarlo.
E poi, quel bastardo rinchiuso nelle segrete della nave una volta aveva cercato di comprarmi all'asta. Un'altra, di portarmi a letto mentre ancora ero ubriaco. In tutt'e due le occasioni non ero totalmente lucido e capace di intendere e volere, in entrambe aveva provato ad approfittarsene. Strano che io stesso me ne ricordassi, eppure aveva un timbro di voce, carismatico come il suo sguardo e il suo aspetto affascinante, molto difficile da dimenticare.
Ultimo punto difficile da ignorare, si trattava di mio fratello. Avevamo degli occhi molto simili, la stessa forma a cuore nelle labbra, la stessa flessuosità nelle gambe... E le somiglianze si fermavano lì. Alto e ben piazzato, capelli corvini come la notte ingellate in una piega alla moda, gli occhi altezzosi di chi sapeva di avere tutte le facoltà per cavarsela in qualunque situazione grazie al proprio fascino. Okay, ci assomigliavamo anche in quello.
Ma il sangue... Il sangue non contava niente. Mio padre era un mostro, nostro padre anzi. Mio fratello, sicuramente, non era diverso. L'unica cosa che non mi spiegavo era la motivazione per cui si trovava qui: non lo avevo visto insieme al resto dei soldati, nella Casa di Sapienza. E non sembrava proprio il genere di uomo tanto dedito alla vita militare da aggiungersi al corpo di guardia per andare in capo al mondo alla ricerca di un famigerato evaso. Oppure sapeva? Era a conoscenza del nostro legame di parentela? Lo credevo improbabile. Il Redivivo non avrebbe mai ammesso l'esistenza di un figlio bastardo, legato a doppio filo col nemico, non ad una marionetta che faceva parte della sua messinscena.
A meno che non fosse una marionetta. A meno che il principe non fosse che una delle sue armi.
«Allora, hai deciso cosa farne?» mi chiese lo straeliano, seduto davanti al camino, le gambe leggermente divaricate e i gomiti appoggiati sulle ginocchia, con gli avambracci a penzolare nel mezzo. Si vedeva che era teso, tanto che una vena era gonfia sulla fronte: fosse stato per lui, li avrebbe gettati entrambi in mare. L'idea di avere una possibile spia del Re nel nostro stesso viaggio sembrava farlo impazzire, anche se non lo dava a vedere.
Aprii le labbra. «...» E le richiusi. No che non avevo deciso. Il mio istinto d'assassino mi diceva di eliminarli senza pensarci due volte. Ma c'era qualcosa, uno strano sesto senso, una pulsione, una specie di legame... Che mi vietava di prestare ascolto al sicario insito in me. «Vado a parlarci.» Si alzò in piedi, pronto a seguirmi, ma lo puntai con uno sguardo determinato. «Da solo.»
«Non esiste!» Si mosse irrequieto sui piedi, stringendo i pugni come se fosse pronto ad una delle sue sfuriate, come quando smetteva di ragionare e mostrava la parte peggiore di sé, cosa che era capitata ormai moltissime volte. Avevo imparato bene la tremenda impulsività di Ezrael, anche se non lo dava a vedere dietro alla scorza burbera. «Potrebbe irretirti, raccontarti menzogne... O chissà che altro.»
Sollevai le sopracciglia, le braccia incrociate, il capo inclinato leggermente di lato, l'espressione piccata e un po' imbronciata. Sì, la mia parte vanitosa era stata pungolata: ingenuo non lo ero mai stato. Sfavillo, uno come me, che stava sempre un passo avanti! Mi ricordai, soltanto in ritardo, che tutto il mio futuro aveva ricevuto una brusca interruzione quando ingenuamente ero caduto nella trappola di Ciril Crow, una delle più famigerate guardie della città. Ricordai anche che andavo avanti seguendo uno stupido ideale di vendetta e la fasulla speranza di ritrovare qualcuno che era morto e che probabilmente non avrei mai più rivisto. Strinsi le labbra.
«Stanne fuori e basta.» sibilai, estraendo un pugnale dalla bandoliera allacciata sul petto, a seguire lo scollo a V della camiciola. Solo poco tempo prima le sue labbra avevano avuto un imbarazzante potere su di me. E invece, adesso, gli stavo puntando l'arma contro con un'aria di minaccia che, se mi fossi fermato a guardare bene, mi sarei accorto gli causasse quel dispiacere latente dentro agli occhi. Emise un brusco sospiro, calciando forte la poltrona, ma io ero già uscito.
Forse avrei dovuto fare un salto nelle cucine, racimolare qualcosa da mangiare per i due nuovissimi prigionieri che la nave si era guadagnata, ma non volevo dare loro l'idea sbagliata: non ero né compassionevole, né gentile, né dotato di buone intenzioni. Non mi sarei preoccupato per loro, né avrei abbassato la mia autorità svolgendo compiti semplici come dare loro da mangiare. Se ne sarebbe occupato qualcun altro, forse. Il cuoco magari, così non avrebbero rischiato di morire avvelenati.
Scivolai verso il fondo della nave, nelle profondità della stiva, oltre le provviste e i carichi di armi, in una conta che si confondeva nel buio, nascosta rispetto al resto delle sezioni del veliero, quasi fosse un'unità separata. La porta delle prigioni era stata segnata dal precedente capitano con una X insanguinata e il chiavistello era sigillato con una serratura di ferro massiccio, la cui chiave era in mio possesso, appesa al collo, al sicuro dal resto dei corsari che avrebbero potuto mettere le mani sui prigionieri per usarli come mezzo di ricatto contro di me. Potevano aver capito ormai che mi interessavano, visto che ancora non li avevo fatti pubblicamente fuori. E, diamine, i pirati adoravano le esecuzioni pubbliche.
Girai la chiave un paio di volte, sentendola scattare, prima di richiudermela alle spalle compiendo la stessa operazione, così che nessuno potesse disturbare, Ezrael compreso. Quel posto era tanto buio ed umido che sul pavimento era cresciuto muschio scivoloso. Una sola lanterna, appesa vicino alle scale cigolanti che avevo appena finito di scendere, era l'unica fonte di luce. Le prigioni erano per lo più vuote, alcune occupate da vecchi scheletri vestiti di abiti logori, le pareti piene di incisioni, secchi puzzolenti ancora colmi di escrementi tanto vecchi che l'odore quasi faceva lacrimare gli occhi. Per fortuna, il caso mi aveva fatto sbattere i due prigionieri nelle celle più remote, dove il fetore si manteneva ancora sulla soglia del sopportabile.
«Sfavillo... Il Re dei Pirati... L'evaso di Ender.» cantilenò la bella voce, non appena entrai nel campo visivo delle due celle, appoggiato con la schiena alle sbarre di quella opposta, intento a giocherellare con un minuscolo coltello a farfalla che continuava a rotearmi fra le dita con una maestria ineccepibile. Si era alzato in piedi, ma non era vicino abbastanza perché potessi afferrarlo allungando il braccio fra le spranghe di ferro che ci dividevano. Mi chiesi quale sensazione avrei avuto se lo avessi sfiorato. Fratello. «Com'è che un tipo come te ha quasi finito per essere venduto ad un'asta clandestina?» ridacchiò a bassa voce in un tono estremamente mellifluo, che doveva far impazzire tutte le ragazzine di sangue nobile in età da marito. Fu difficile trattenersi dall'alzare gli occhi al cielo. Se lo ricordava ancora!
«Com'è che il principe ereditario ha quasi finito per comprare un tipo come me in un'asta clandestina?» rigirai la domanda, sfarfallando innocentemente le ciglia mentre facevo scattare la lama un'ultima volta, chiudendo il coltello a farfalla fra le due estremità che sigillavano i bordi affilati, proteggendo le dita.
«Una lingua tagliente come il suo delizioso sguardo. Prendi nota, Raven!» esclamò in una smorfietta divertita che non intaccò per nulla la sua bellezza, poi sembrò lasciar perdere, scuotendo la testa con un sorriso civettuolo, mentre le prospettive e il buio mi nascondevano la reazione sul viso di colui che era stato interpellato. «Ero lì per incastrare quei nobili, tesoro. Però poi mi sei capitato sotto agli occhi e, sai» si morse le labbra in un gesto sensuale che ero terribilmente sicuro fosse stato reiterato milioni di volte come un vecchio copione davanti a chiunque. «non ho saputo resistere.»
Volevo darmi una sberla, anche solo per il fatto che non ero riuscito ad evitare di arrossire. Ero nudo come un verme, quella volta, esposto a gambe aperte davanti a chissà quante persone. E lui era lì e se ne ricordava. Bastardo... Gliel'avrei fatta pagare. «Mphf.» fu tutto quello che risposi, trovando qualsiasi altra parola troppo pudica o puerile per uno come me, che doveva apparire un'oscura leggenda agli occhi di quell'insopportabile rampollo dell'alta società di Skys Hollow. L'arrossamento delle mie gote era già abbastanza grave.
«Devo ricordarvi che non siamo qui per lasciarvi flirtare, Altezza?» la voce del capitano ci raggiunse come una secchiata d'acqua gelida. Diamine, non avrei flirtato con quel tizio nemmeno se fosse stato l'ultimo essere vivente al mondo. Era il mio fratellastro! Ed incarnava tutto ciò che odiavo di Darlan.
«Chiudi quella fogna, Raven Kenneth.» sibilai, dardeggiando un'occhiataccia verso di lui, che rispose afferrando le sbarre fra le mani, la fronte premuta contro al ferro arrugginito.
«Non accetto ordini da un fuorilegge come te.» ringhiò, guardandomi alla stregua di un insetto che gli era caduto nel piatto. «Fuorilegge e stregone! Qualsiasi sortilegio tu mi abbia fatto...» la minaccia sfumò nel silenzio, come a lasciar presagire cosa potessi aspettarmi da lui. Io, però, gli rivolsi un sorriso ironico, giocherellando con un ricciolo dorato che mi avviluppai intorno all'indice.
«Lo schifo che danno da mangiare alle guardie in quel castello di cristallo deve averti dato alla testa. Non so proprio di cosa parli.» mentii. Era facile capire che per "sortilegio" intendeva quelle fugaci visioni di un futuro possibile - ma evitato - che ci avevano investito durante i nostri combattimenti. Non dovevano avere senso, per lui. Neanche per me lo avevano, infatti. Dovevo essere proprio disperato, per finire col farmela con uno come lui. Per fortuna, non sarebbe mai successo.
«E tu.» lanciai uno sguardo al principe, di un'intensità mortale. «ringrazia che non ti abbia riconosciuto prima, altrimenti avresti perso le palle.» Oh cielo, stavo realmente diventando come i Capitani degli Equipaggi, che collezionavano parti del corpo mutilate dai nemici! «Ora datemi una ragione per non ammazzarvi.»
Un risolino vezzoso risuonò e poi morì nella gola del principe, che lanciò un'occhiata verso la cella del suo compare con un'espressione vagamente nervosa che gli increspò la fronte. Emulai il gesto, non per nervosismo quanto per corrucciata confusione. Erano venuti ad incontrarmi oltreoceano per... Cosa, esattamente? Aveva senso che il Capitano Kenneth mi desse la caccia, ma quel nobilotto antipatico non avrebbe dovuto ritrovarsi qui, in una cella mezza marcia e puzzolente. Le tacite riflessioni che stavano per arrivare vennero bruscamente interrotte da qualcosa che accadde e che, inizialmente, non capii.
La porta della cella del principe, con uno scatto brusco della serratura, si spalancò davanti ai miei occhi cigolando un lamento metallico e restò aperta. Senza che nessuno l'avesse sfiorata. Sbattei le palpebre un paio di volte, confuso, mentre il mio corpo reagiva alla minaccia: aprii il coltello a farfalla e con la lama rivolta in avanti avanzai verso il principe, adesso con nulla di nulla a separarci.
«Quando diavolo hai scassinato la porta?!» tuonai, tenendolo sotto tiro col braccio armato. Doveva essere per forza così: aveva rotto la serratura e accostato la porta, che poi si era aperta per un'improvvisa folata di vento. Solo che, laggiù, non c'era nemmeno l'ombra di uno spiffero.
«Non l'ho fatto.» rispose il corvino, alzando le braccia per cercare di tranquillizzarmi, deglutendo davanti all'arma a pochi centimetri dal suo collo. Accadde, immediatamente dopo, il secondo evento inspiegabile: la lanterna appesa al limitare delle scale prese a dondolare. Avanti ed indietro, ancora e ancora, facendo danzare il corridoio delle prigioni in un costante caleidoscopio di buio e luce, oscurità e bagliori. La nave però non si era mossa.
Lentamente spostai lo sguardo dalla lanterna poco lontana ai due prigionieri, affilandolo senza però dire neanche una parola. Il silenzio piombato venne rotto un minuto dopo. «Ve lo avevo detto che era solo una perdita di tempo.» esordì la guardia, mentre la mia mente cercava di collegare ciò che era appena accaduto a quella specifica frase. Il principe, anche con la porta della prigione spalancata davanti a lui, non si mosse. Come se fosse nel posto in cui voleva essere.
«No che non lo è. Tu sai qualcosa, vero?» il principe si rivolse verso di me. L'espressione interrogativa che avevo stampata sulla faccia rispose al posto mio. «Tutti i giornali sanno del modo in cui sei scappato da Ender. Sei scomparso sotto agli occhi di Raven, lo ha confermato anche lui.» Spostai gli occhi sull'uomo. Alto, una leggerissima barbetta bruna sulle guance, occhi di un caldo nocciola che evitarono il mio sguardo con disprezzo. Non aveva molto in comune con l'uomo dentro alle mie visioni, che sembrava temere il Re cercando un compromesso per la mia esistenza in quel castello. Davvero sarebbe finita in quel modo, se lo avessi seguito?
«Dove vuoi arrivare?» incalzai.
«Hai usato la magia. E' successo anche con i pirati, alla Baia del Teschio ne parlano tutti.»
«Mphf, il prezzo della fama, immagino. E allora?»
«E allora...» Una ventata d'aria comparsa dal nulla mi scostò le ciocche ricciolute dal viso come una calda e morbida carezza, pur guastata dal fetore infernale che aleggiava là dentro. «... Io sono come te.» Ci misi diversi, abbondanti attimi, prima di arrivarci. «Sei il primo che incontro ad avere poteri magici. Ed ho un sacco di domande da farti, ecco perché sono venuto qui.»
Quella notizia fu come un'immersione dentro ad un lago ghiacciato. Io ero il figlio del Redivivo e della principessa di un popolo leggendario, il temibile Sfavillo. Io ero quello che stava andando in capo al mondo, sfidando qualsiasi legge naturale, perfino la morte, e non avevo altro che le mie braccia e le mie armi affilate. E questo qui, il rampollo viziato, nasceva coi poteri magici. Incredibile! Davvero incredibile! Avrei voluto tirargli un tuzzo in faccia, giusto per soddisfazione personale, per avere un minimo di rivalsa contro il destino, che invece mi aveva inflitto l'ennesimo pugno nello stomaco. Forse nascere con dei poteri, oltre che con i miei incredibili talenti, avrebbe fatto di me una creatura troppo perfetta... Ma andiamo! Essendo un mezzo straeliano, me li meritavo eccome. Doveva essere l'eredità di mia madre.
«Ma prima della mia fuga da Ender nessuno sapeva nulla dei miei...» frenai una smorfia colma d'ilarità e amarezza. «... poteri. Quindi perché il Capitano delle Guardie Reali è venuto a prendermi, mh?» Puntai gli occhi su di lui, che era rimasto in silenzio fino ad allora. Ma continuò a non rispondermi e non guardarmi, insistendo nella sua truce fermezza.
«Un torneo. Mio padre cercava un "cavaliere"» il principe mimò delle virgolette nell'aria «che facesse lavori sporchi per lui e aveva incaricato una cerchia ristretta di nobili della corte di trovare degni candidati. L'idea di farlo innervosire mi faceva piacere... Perciò ho incaricato il mio amico Raven di andare a prendere l'uomo migliore per vincere la gara.» esibì un altro della sua sfilza di sorrisi irresistibili e tutti uguali, puntandomi col dito. «Tu.»
Quindi era questo. Il giovane figlio ribelle che la folla adorava al contrario del padre. Il bel nobile che se ne infischiava delle regole perché gli piaceva mettere in discussione l'autorità di papino, con le spalle ben protette dal suo ruolo di principe ereditario. O forse, questa era solo la maschera che stava indossando per farmi credere ad una messinscena.
«Almeno, questo era il piano, ma tu hai deciso di scappare...» sospirò, ravvivandosi la zazzera di capelli ingellati all'indietro con un elegante gesto della mano. Che individuo borioso e superbo. «... E subito dopo è apparsa la mia magia. Proprio io che volevo assoldarti, mi sono ritrovato ad avere un segreto così importante che mi collegava a te, Sfavillo!» Dal suo tono, sembrava parecchio esaltato dalla cosa.
Era vero, avevamo un segreto importante che ci collegava, ma decisamente lontano da ciò che pensava lui. «Così, sei venuto dritto nella tana del lupo, nella speranza che io fornissi grandi spiegazioni al figlio dell'uomo che mi ha rinchiuso nel peggior campo di prigionia di Darlan per un anno intero?» esclamai, con un sorriso tagliente come un pugnale. Lui aveva pure ereditato la magia, ma io almeno avevo ancora un po' di intelligenza dalla mia. Cercarmi e credere pure che l'avrei aiutato! Era ben oltre che stupido. Folle, forse. «Un piano davvero brillante. E il tuo amichetto Raven che ne pensa?»
Lui incrociò le braccia, lanciandomi uno sguardo bieco. «Che trattare con feccia come te è assolutamente deprecabile.» Quella risposta mi fece ribollire il sangue nelle vene. Era lui la vera feccia, il galoppino di un bastardo malvagio! Sibilai a denti stretti, come il verso di una tigre che ti sta prendendo le misure per capire da che lato è meglio iniziare a mangiarti.
«Ehi, ehi... Calmiamo gli animi...» Lo fulminammo allo stesso tempo con un'unica occhiataccia inceneritrice, anche se il Capitano non poteva vederlo dalla posizione in cui si trovava, con la cella attaccata alla sua, separati da un muro di legno massiccio e mattoncini ammuffiti. A cui "Sua Altezza Reale" rispose con un sorrisino vanesio. «... In ogni caso, io non la reputerei proprio la tana del lupo...» Mi scandagliò dall'alto verso il basso con lo stesso sguardo malizioso che mi aveva rivolto quella volta, al ballo dell'Estate, a cui io ribattei roteando gli occhi verso il cielo. Poi tornò serio. «Mettila come vuoi, per mio padre ormai sarei da mettere al patibolo. E fidati, non è uno che si ferma davanti alla parentela.»
Incrociai i miei occhi con i suoi. «Lo so.» Lo sapevo benissimo. Sembrò un po' confuso, piacevolmente, come se trovarsi d'accordo con un famoso criminale fosse una nuova conquista raggiunta. Però non approfondì il discorso e andò avanti.
«Ecco qual è il punto. Io ho bisogno di risposte, di sapere cos'è questa magia e cosa farci... E in cambio posso allearmi con te. Contro mio padre.» Dovetti mordermi l'interno della guancia per non cedere ad un risolino, ammantato da un misto di l'incredulità e divertimento. Il nuovo cruccio del principe ribelle? Forse intuì che non lo stavo prendendo sul serio, perché le mie labbra si erano incurvate in un sorriso, e per questo la sua espressione divenne più gravosa. «Sappiamo benissimo che sta spadroneggiando su questo regno con la violenza e che vuole conquistare tutti i territori circostanti per espandere il suo dominio fin dove gli sarà possibile.» Non un regno, ma un Impero. Ecco a che cosa punta il Redivivo. «E' chiaro che si senta minacciato da chi possiede la magia, per cui continuerà ad ucciderli e a fare razzie.» Fece un passo avanti, stringendo i pugni, il petto ora gonfio dell'orgoglio tipico di un leader, lo sguardo carismatico, avrebbe potuto facilmente convincere l'intera popolazione di Skys Hollow a fare quello che chiedeva. Ma non un osso duro come me. «Se ci fosse un modo per farlo uscire di scena...» le parole furono sospese per qualche secondo, come se fantasticasse su questo "modo". «Potrei subentrare io. Sì, potrei migliorare le cose, rendere Darlan un regno migliore per tutti. Liberare i campi di prigionia, dare la possibilità a tutti di praticare la magia, leggere qualsiasi libro, far parte di qualsiasi classe sociale senza essere discriminato. Potrei abolire la schiavitù.»
Il fuoco che gli brillava dentro agli occhi pareva far parte di un intero incendio che lo stava bruciando dall'interno. Un fuoco autentico, reale, tanto tangibile che se lo avessi toccato forse mi sarei scottato. Poteva essere una farsa? Una bugia?
«Il tuo non è un sogno, principe. E' una fottuta utopia.» risposi, piccato. Non ci si poteva fidare di un sogno così pericoloso. Creava speranza, grande speranza, di quel genere che avrebbe portato chiunque sulla strada della rovina. Di quel genere che stavo inseguendo anche io, che navigavo verso l'Oltretomba in cerca dell'uomo che amavo. Lanciai un'occhiata al Capitano Kenneth, che restituì lo sguardo, stavolta senza mostrare sdegno, solo una determinazione profonda e l'aria di chi sta cercando di capire in quale fazione infilarti. Nemico o amico?
«E' per questo che ti stavamo cercando.» rispose proprio lui. «Probabilmente i poteri del principe non sono arrivati per caso, non è stato nemmeno un caso sceglierti come candidato per il Torneo.» disse, avvicinandosi alle sbarre per stringerle fra i pugni, guardandomi attraverso di esse. «Lavorare dall'interno è più facile.»
Quindi erano questo genere di persone. Quelle folli e temerarie che costruivano piani suicida per un bene più grande. Maledizione. Proprio il genere di persone che apprezzavo di più. E quel principe ribelle, lo era nel vero senso della parola. Voleva iniziare una ribellione insieme al Capo delle Guardie, quello che sarebbe diventato in un futuro parallelo il mio amante... Diamine, avrebbe potuto avere senso.
«Cosa vi dice che possa fidarmi di voi? Venite qui, ad attaccarmi con una flotta della Marina, solo per millantare sogni irrealizzabili che chiunque a Darlan ha pensato almeno una volta nella vita.» risposi, senza abbandonare un tono distaccato, sulla difensiva. «Un abile specchietto per le allodole, ma non sono un credulone.»
«Se la mia magia non è abbastanza, allora...»
«Adrian, no! Non glielo devi dire per forza.» intervenne la guardia. Il passaggio dal voi al tu faceva intendere che stesse per rivelare qualcosa di importante, per cui tesi bene l'orecchio, stringendo le palpebre. Ascoltando con molta attenzione.
«Lasciami fare, Raven.» Sospirò pesantemente, mentre io incrociai le braccia, appoggiato contro al muro. «Quando ero piccolo... Mia madre è scomparsa in circostanze misteriose.» Un'altra cosa che avevamo in comune. «Per diverso tempo a corte è circolato il pettegolezzo secondo cui mi avesse abbandonato per fuggire dal Castello con un amante. Era stato un matrimonio politico quello dei miei genitori, ovviamente a Lui non importava. Non importava a nessuno» Ma, dal modo in cui ne parlava, evidentemente al principe importava eccome. Mi sforzai di non assumere alcuna espressione empatica o solidale. Non avrei provato compassione per uno avvolto nella seta e nell'oro mentre io vivevo per strada e rubavo avanzi dall'immondizia per sopravvivere.
Continuò: «Io però l'ho cercata. E poco tempo dopo, ho trovato dei resti dentro alle cucine... Accompagnati dall'anello con lo stemma di famiglia di mia madre.» Il resto di ciò che disse fu spaventoso quanto la sua espressione, che mi fece gelare il sangue nelle vene. «Io credo che...» sussurrò il seguito, come se fosse troppo scabroso per dirlo ad alta voce. «credo che Lui l'abbia mangiata.»
Mi si torse lo stomaco e dovetti ringraziare di avere già un muro alle spalle, altrimenti sarei caduto. Non mi ci ero soffermato molto, sulla storia riguardo le origini degli straeliani, il loro mito sul Redivivo, i sacrifici... Non avevo pensato cosa potesse farci coi sacrifici. Se li mangiava. Li mangiava. Mangiava.
Impallidii, col vomito che mi raschiava la gola e il disgusto accentuato dal fetore delle prigioni dell'Idra Spinata. Avevo decisamente bisogno di prendere aria. Vedere la bruma di mare salire all'orizzonte e l'odore salmastro riempirmi i polmoni, cancellare quelle idee, quelle immagini orrende. E forse era solo una farsa, forse era una marionetta mandata a fare il suo lavoro per confondermi. Sapeva i miei punti deboli: la morte di mia madre, il collegamento con gli straeliani. Giocarci sopra sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ma lo sguardo di Adrian Kavendish, il suo sogno, i suoi orrori, la sua magia... Poteva essere vero?
«Ho bisogno di pensarci.» sentenziai alla fine, ad occhi chiusi, che riaprii dopo un mezzo minuto di silenzio, pesante come un sudario inzuppato di sangue. Era una fatica immane trattenere il tremore che mi stava agitando le membra, figurarsi cercare di tenere alta la facciata dell'inscalfibile criminale. «E non credere di poter scappare con i tuoi poteri. Sei più al sicuro qui che in qualsiasi altro posto della nave.» Detto quello, alzai i tacchi e battei in ritirata, sentendo solo come una eco in sottofondo "non ce ne andiamo da nessuna parte" prima che salissi anche l'ultimo gradino e chiudessi la porta delle prigioni a doppia mandata.
***
Mantenni la promessa con me stesso quando salii sul ponte di poppa per prendere aria, con un piccolo cannocchiale alla mano per scrutare l'orizzonte e il vento ruvido che mi tagliava le guance e mi frustava le ciocche. Un respiro dopo l'altro, cercavo di calmare il turbamento che mi sconvolgeva nel profondo, quasi come essere violato nell'intimo. Il ricordo di mia madre, accoltellata su quel tappeto, di fronte ai miei occhi... Che ne era stato del suo cadavere? Quell'essere mangiava straeliani.
Che ne era del corpo di mia madre?
Volevo urlare. Gridare la mia furia contro il mare che si stagliava libero sulle ombre della sera. Invece inghiottii ogni sentimento, sprofondando nell'ascolto passivo di qualche nota scordata di violino che arrivava da prua, lì dove un manipolo di pirati stava gozzovigliando per passare il tempo. Per fortuna nessuno decise di importunarmi alla ricerca di noie, ed io chiusi un occhio sul loro bighellonare. Poi, un respiro profondo dopo l'altro, mi avviai sottocoperta per ritornare in cabina. C'era ancora moltissimo da fare: calcolare una rotta precisa verso i regni del caos, analizzare i libri del mercato nero alla ricerca di indizi sulla profezia, allenare Ezrael in combattimento... In realtà non avevo voglia di fare nulla di tutto ciò.
Così oltrepassai la porta degli appartamenti del capitano e mi sorpresi di sentire ad accogliermi un paio di braccia salde che mi premettero forte contro un corpo altrettanto caldo. Io invece mi ero infreddolito parecchio sotto al vento impetuoso che spirava a poppa. Reclinai la testa per incontrare lo sguardo ametista dell'uomo contro cui avevo urlato pochi momenti prima, perché non volevo che mi accompagnasse in quella "riunione di famiglia". Lo avevo lasciato che calciava una poltroncina, furioso. Non lo sembrava più di tanto. Mi sentii stupido ad averlo escluso in quel modo, ancora una volta.
«Ti sei dimenticato che posso vedere tutto ciò che accade attraverso i tuoi occhi?» sussurrò, spazzolandomi un ciuffo di riccioli dalla fronte. Non mi ribellai ai suoi gesti, nemmeno alla sua stretta, al quale mi aggrappai appoggiando le mani all'altezza delle scapole di lui.
«Avevi detto che mi avresti insegnato come controllare questa cosa...» Frenarla, oppure fare come lui dentro alla sua, di testa. Era un buon metodo per tenere occupata la testa, per non pensare a tutto il resto. Quel mostro poteva averla man-... No. No. Non ci dovevo pensare.
Mi accompagnò verso il letto, che era l'unico che avevamo: sì, un grosso letto matrimoniale su cui dormire agli estremi opposti, rispettivamente sul bordo, per cercare di non sfiorarci. Mi poggiò delicatamente sul materasso, con i capelli lunghi che gli scivolavano sulla mascella a celargli parzialmente i lineamenti affilati, le orecchie a punta, i canini leggermente allungati, le labbra sottili ben definite. «Devi immaginare un muro...» incominciò, slacciandomi la bandoliera dalla spalla, che cadde sul pavimento con un leggero tintinnio metallico, l'elsa dei coltelli che stridevano sul pavimento di legno. «... un muro solido, dentro alla tua testa.»
«Mmhh» emisi un mugolio di gola, a mo' di cenno d'assenso. Lui continuò a sbottonare la camicia, un bottoncino dopo l'altro, finché non me la sfilò dalle spalle per lasciarmi a torso nudo.
«Può essere fatto di qualsiasi cosa. Purché sia indistruttibile, per te.» Allontanò l'asola dal bottone dei pantaloni, lasciandoli scivolare dalle cosce alle caviglie, finché non caddero al pavimento, lasciandomi con l'intimo addosso. «Deve essere grande abbastanza da coprire l'orizzonte, non deve esserci nemmeno uno spiraglio aperto.»
Lo guardai negli occhi, i suoi che ancora sembravano una pietra preziosa o glicine sotto resina. Il viola intenso dell'iris, sfumato nei toni chiari del lillà. Sembrava che quelle iridi si divertissero a cambiare in continuazione. Non seppi cosa aveva intenzione di fare, finché non sentii la camicia da notte calarmi da sopra alla testa. «Cosa... cosa stai facendo?» sussurrai, il tono basso di chi vuole sapere un segreto, oppure sta per mettere in atto qualcosa di proibito.
«Ti metto a dormire, come farebbe un buon guardiano.»
Ma il mio corpo e la mia testa erano ancora carichi delle emozioni di quella giornata. La sua lingua sul e nel mio corpo, le sue mani sulla mia pelle. L'attacco della marina, le rivelazioni di mio fratello. Dormire? Non volevo dormire. Non sarei nemmeno riuscito a farlo. Io volevo... Volevo... Mi alzai dal letto. Dentro a quella stanza c'erano parecchie cassette con bottiglie di vino e riserve di rum pregiato. Ecco cosa volevo fare. Berci su e... Ignorare quello stupido senso di colpa che mi affligeva ogni volta che guardavo Ezra a petto nudo, come adesso, con i muscoli torniti che non si nascondevano alla luce delle candele.
«Non sei il mio governante, non devi badare a me come se fossi un bambino.» esclamai, acciuffando una bottiglia di rum che aprii col pollice facendo rimbalzare il tappo da qualche parte dentro alla stanza. Forse sotto al letto, quello su cui era seduto lo straeliano. Le gambe lunghe un sogno e i capelli simili ad argento vivo. «Perché non lo sono affatto.» esclamai, seduto sul tavolo, il collo della bottiglia contro alla bocca. Tracannai avidamente l'alcolico, con qualche goccia che mi scivolò lungo la gola e sparì oltre lo scollo a V della camiciola che mi arrivava a metà coscia. E poi mi tolsi i boxer, lasciandoli a penzolare per una caviglia con un'espressione giocosamente bramosa.
«Helias...» sospirò, contraendo i muscoli sul letto, col paravento che tipicamente separava lo spazio da pranzo da quello da notte ovviamente tirato indietro, in modo che ci potessimo reciprocamente vedere. Lasciai cadere l'intimo a terra e continuai a bere, a gambe incrociate sopra al tavolo, fissandolo con un volto colmo di concupiscenza che lo spinse ad alzarsi di scatto dal letto per prendermi in braccio. Avvolsi le gambe intorno al suo bacino, da cui sentii la forte pressione della sua durezza avvolta dai pantaloni, ed intanto bevvi un altro lungo sorso che mi bruciò la gola. Trattenni un po' di liquido in bocca e lo lasciai rotolare sulla sua lingua attraverso un bacio che non aveva nulla di casto.
Il cigolio delle molle del letto mi fece capire che fossimo infine atterrati lì, fra le pellicce e le coperte. Era steso sotto di me, con le mani infilate sotto alla camicia, che mi strattonavano le natiche con gesti decisi e possessivi. Sapevo che era sbagliato, ma sapevo anche che lo desideravo. Che era troppo piacevole per tenerlo distante, che era quello che volevo per allontanare gli incubi dalla mia testa. E lo voleva anche lui. Il cervello vagamente appannato dal rum rendeva ogni sensazione tattile migliore, mentre io gli sbottonavo i pantaloni e lui mi accarezzava la virilità già resa dritta dal desiderio.
Con delle lappate lunghe e persistenti iniziò a stuzzicare i capezzoli attraverso la camicia, mordicchiando e succhiando, incurante del tessuto che si bagnava leggermente, quasi ci fosse del piacere anche in quello. In quel non denudarmi del tutto, vedermi ma non completamente, avermi ma non fino in fondo.
Mugolai, inarcando la schiena, le dita aperte a spazzola per passare fra le sue ciocche e stringerle un poco, beandomi con sensazioni ancora premature, in vista dell'appagamento maggiore che sarebbe arrivato dopo. Impossessato da quella spasmodica smania di avere di più mi spostai, ruotando sul posto per invertire la posizione del mio corpo, offrendogli frontalmente le cosce e ciò che vi si annidava in mezzo, mentre il mio viso si accostava ai suoi boxer di lino e con le mani gli liberavo il membro. Scattò verso la mia guancia come una molla, in cerca di attenzioni. Erano decisamente maggiori le volte in cui qualcuno aveva assaggiato me, piuttosto che il contrario. Si poteva dire... Un territorio inesplorato, per me.
Eppure le mie papille fremevano per il bisogno di apporre le labbra sulla punta pulsante del suo sesso. Sentire la sua lingua premere sul cerchietto di muscoli fra le mie natiche fu una specie di incentivo, un invitante brivido, un incentivo per impegnarmi quanto lui. Gemetti a labbra strette ed occhi chiusi, iniziando ad abituarmi a quelle attenzioni grazie al quale il mio corpo stava diventando sempre più caldo. Poi incominciai anche io. Leccai la sua intimità dall'elsa fino alla punta, con una certa concentrata dedizione, l'attenzione che ci si mette quando cola una goccia da un ghiacciolo e tu la devi inseguire per evitare che ti cada sulle dita, che il ghiacciolo si sciolga. Maggiori erano le mie attenzioni, maggiore era la sensazione che pulsasse dentro alla mia bocca. E il suono dei suoi gemiti rendeva il mio corpo ancora più recettivo verso quello che lui stava facendo a me.
«Cazzo... Helias..» lo sentii ansimare, il fiato condensato contro la mia pelle umida e sensibile, prima che la sua lingua riprendesse ad infierire sul centro nevralgico del mio piacere. Strinsi le coperte dentro ai pugni, con i fianchi che si muovevano come dotati di vita propria, spingendosi verso il suo viso, ritmicamente alle sue labbra.
«Aaah- Ez.. mmh!» gemetti, chiudendo gli occhi, l'erezione che si irrigidiva con una forza dirompente fra le sue dita che accarezzavano, coccolavano e muovevano, mentre allo stesso tempo la sua lingua non si fermava un attimo. Quasi al limite. Ero quasi al limite. Perciò mi ripiegai su di lui e ripresi il mio operato. Ben presto delle lappate si trasformarono in gesti più decisi, profondi. Il sapore salino della sua virilità si mischiava a quello del rum rendendo quell'atto alcolico, stranamente surreale, ma decisamente percepibile. La stanza era colma di suoni e risucchi lascivi, resi ancora più vividi dal cigolio del letto.
Lo spinsi fino in fondo alla gola, aumentando la velocità della mia bocca, un'operazione che soffocò in maniera abbastanza efficace tutti i miei gemiti, ridotti a semplici mugolii confusi. «Helias.. Aspetta... Fermo.. Vieni...» mi accarezzò la testa, spingendomi ad alzarla senza completare l'atto, leccandomi le labbra e osservandolo con un'espressione stravolta dalla cupidigia. Le guance rosse, il fiatone, il cuore in gola.
Sollevò la schiena e mi attirò vicino a sé, petto contro petto, seduto a cavalcioni all'altezza del suo inguine, i miei glutei sodi appoggiati contro l'erezione pulsante di lui, senza che entrasse dentro, piuttosto obbligati in un piacevole strofinio. Non fu proprio come fare sesso, ma ci si avvicinava: muoveva il bacino sbattendo il corpo sotto al mio in modo che la sua virilità strusciasse fra le mie natiche, ed intanto frizionava con una mano il mio membro seguendo lo stesso ritmo frenetico.
Fino ad allora, al piacere si era accompagnata la sensazione di sentire le mie stesse labbra lappare la mia intimità. Come se ciò che stavo facendo ad Ezrael, come se ciò che provava lui, fosse anche l'eco di una mia sensazione. Fino a dove si spingeva il nostro strano collegamento mentale? Il mio corpo avvertiva ciò che sentiva il suo?
Con la mano libera mi accarezzò la nuca, accostando il mio collo alle sue labbra, che poi tempestò di tanti piccoli morsi, baci e risucchi, segnando spalle e clavicole. Segni rosa-viola simili a fiori dipinti su una tela bianca ed intonsa, che andava via via scoprendo tirando il tessuto della camicia. «Nnn...on.. fermarti..» ansimai, ad un passo dall'orgasmo, stavolta deciso a non essere più interrotto. Mossi il bacino andandogli incontro per un'ultima volta, poi venni copiosamente contro al suo petto, come fece lui sul mio fondoschiena, senza troppo ritegno o pudicizia. Il fatto di essermi trattenuto tanto aveva fatto sì che i desideri del mio corpo si manifestassero ed esplodessero con violenza, senza poterli più fermare. Stasera non l'avevo fatto.
E la cosa mi era piaciuta anche troppo.
Decisi, mentre il mio corpo tremava per riprendersi dall'orgasmo e poi rilassava i muscoli tesi, che non l'avrei reputato un problema. Mi avvolsi in una pelliccia, troppo pigro per pulirmi nell'immediato, e mi lasciai stringere alle spalle dalle braccia dell'uomo che aveva il compito di proteggermi. I contorni della nostra relazione stavano diventando sempre più complicati, ma ci avrei pensato in futuro.
C'erano altri guai più urgenti in vista, no?
***
*NDA - Angoli di gatti e tisane*
Hola a tutti!
Fra un cumulo di gatti addormentati intorno al mio letto e una tisana in mano, posso solennemente dire di aver finalmente finito questo capitolo. Cioè, l'avevo finito circa ieri notte-mattina verso le quattro e mezza, ma ad un certo punto il cervello parte ed inizio a scrivere cavolate, per cui sempre meglio un'ultima controllatina. E niente, solito ritardo, solita storia! Non cambio mai... Ma almeno spero che il capitolo vi sia piaciuto XD
Detto ciò, ci vediamo al prossimo <3
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