15. L'Assassino e il tritone
«E ti bacio la bocca bagnata di crepuscolo»
- Pablo Neruda
«Hai trovato quello che ti ho chiesto?» mormorai, la voce bassa come la marea in un'alba rosa pastello, tenue come un alito di vento in un campo di vividi, azzurrissimi non ti scordar di me. Voce che avrebbe potuto essere impregnata di malinconia o di dolore a quel singolo ricordo, alla menzione di quei fiori, estremamente peculiari nel loro nome. Nel loro significato. In quello che volevano dire per me. Amore. Perdita. Sofferenza. Speranza. Lotta.
Ma questa volta il mio sussurro era dovuto a quell'atmosfera colma di tensione carnale, il piacere che tintinnava fra le pareti cosparse di vecchio broccato scucito, macchiato, sporco e puzzolente, misto all'odore dell'incenso al sandalo e alla magnolia. Il suo fumo nuotava nell'aria in virgole di fumo dense e nebbiose, spirali biancastre, penetrando nel naso e nei pori della pelle con un risultato stucchevole, a tratti stordente. Il timbro quieto delle mie parole, soffiato come una nota da un flauto di pan, era il risultato di un attento guardarmi intorno. Studiare l'ambiente.
I pirati venivano qui per divertirsi, dimenticare le loro pessime vite o al contrario decantare la libertà di esse danzando fra un bordello e l'altro, senza timore di come spendere le proprie monete guadagnate col sangue. Io ero venuto per tutt'altre ragioni, di nascosto come un ladro, deciso a mantenere un profilo basso fin quando non sarebbe arrivato il momento giusto. Pazienza, mi dissi. Pazienza.
«Non ancora, amore. Ma ci sto lavorando.» parlò il tritone al mio fianco, la pelle bruna di una tonalità più chiara dei chicchi di caffè amaro ma non abbastanza per essere paragonata al bronzo caldo. Piuttosto, l'incarnato pareva scolpito nel cioccolato dolce, il torace uno spettacolo di muscoli duri come il granito che sfilavano sul ventre e poi sparivano oltre la depressione a forma di V dentro ai suoi pantaloni stretti, che non lasciavano molto spazio all'immaginazione. Lunghi rasta nocciola chiaro, striati di biondo per la luce del sole o l'effetto di qualche erba schiarente, gli ciondolavano sul petto ed intorno al bel viso, dove occhi di un grigio metallo erano incastonati fra ciglia sottili.
Carnose labbra da baciare che gli avevano fatto guadagnare il favore di molti e una fossetta sul mento gli dava quell'aria ammiccante che era assolutamente adatta per un Tritone. No, non aveva gambe da pesce né era una creatura mitologica: avevo scoperto che si chiamassero così i gigolò e rispettivamente Sirene le prostitute, qui alla Baia del Teschio.
L'uomo al mio fianco era stato così gentile da spiegarmi anche il perché: si presumeva che i cortigiani come loro potessero ammaliare marinai e pirati proprio come facevano le creature da cui prendevano il soprannome; d'altro canto, se gli uomini - e donne - di mare si riconoscevano fra loro e differenziavano dal resto della plebaglia grazie a qualche simbolo della propria nave addosso, gli uomini di piacere lo facevano attraverso un tatuaggio sull'omero. Quello di una creatura metà umana e metà pesce. Riuscivo a vederne i contorni sulla sua spalla anche adesso, sbalzati sulla pelle scura con un inchiostro nerissimo, alla luce fioca della sua stanza.
Una serie di pellicce vecchie distribuite sul letto dove eravamo stesi teneva al caldo i nostri corpi seminudi, perché anch'io ero stato costretto ad abbandonare la camicia all'ingresso del bordello per sembrare più credibile, davanti agli occhi della donnina in lingerie che raccoglieva i vestiti dei clienti tenendo al "caldo" le loro armi. Io non ne avevo portate. Non mi fidavo affatto a lasciarle incustodite in un posto pieno zeppo di fuorilegge. Il fatto che fossi uno di loro - e forse uno dei peggiori - mi rendeva ancor più consapevole di ciò.
«Riuscirai a procurarmela prima dei combattimenti fra Capitani?» domandai, mantenendo un tono inespressivo, pur sapendo quanto mi stesse a cuore la questione. Oh, se Ezrael lo avesse scoperto... Ma non l'avrebbe fatto fino al momento giusto. In cui sarebbe stato troppo tardi. Mi morsi il labbro inferiore, trattenendo a stento un sorrisetto perfido.
«Ma a cosa ti serve?» disse il tritone, che da quanto avevo appreso veniva chiamato Spezzacuore da tutti. Un nome davvero suggestivo, ma che non mi sorprese affatto. A quel punto gli mostrai un sorriso dei miei, enigmatico, un filo seducente, troppo arrogante. Ero sicuro di quello che facevo. Un pessimo pirata cercava di fingersi me? Gli avrei presentato il conto molto presto.
«Chissà.» feci spallucce. «Tu sbrigati però, altrimenti dovrò chiederti indietro i soldi che ti ho dato.» Era un incentivo, più che una minaccia.
«A quello possiamo subito rimediare.» gongolò, la voce bassa e lasciva, una mano che si spinse verso di me tirandomi più vicino, le dita sulla natica sinistra che feci strisciare sul fianco, quando mi stesi di lato sulle pellicce. «Oh andiamo... Non saresti venuto qui se non ne avessi avuto voglia.» Un altro movimento felpato, che io assecondai, ritrovandomi sotto di lui, a fissare la fiammella di una candela dietro ad un paralume di vetro dipinto a fiori, che gli lasciava ombre floreali sul petto.
«Ma ti piace almeno quello che fai?» chiesi, sbuffando una risata, il sopracciglio alzato, i riccioli d'oro sparpagliati sul cuscino e gli occhi scintillanti come due tormaline.
«Non è che abbia molta scelta.» replicò, il tono divertito quanto amareggiato. «Ma nel tuo caso mi piacerà abbastanza da proporti uno sconticino.» Mi tamburellò lo sterno con la punta dell'indice, mentre io strisciavo sotto di lui per mettermi a sedere, la schiena contro alla testiera del letto e le braccia incrociate. Era un rifiuto abbastanza chiaro.
«Anche mia madre era una cortigiana.» Schiusi le labbra, lasciando indugiare lo sguardo sul mobilio: vecchie botti di legno scuro, vuote, erano usate come comodini, ricoperte da drappi rossi; un forziere ai piedi del letto con un po' di vestiti, un braciere acceso con gli incensi infilati al suo interno per sfumacchiare nebbia profumata, che riusciva difficilmente a cancellare l'odore onnipresente della Baia. «Non hai scelta perché devi comprarti la libertà?»
Scrollò le spalle. «Non esattamente. Prima della sparizione del Re dei Pirati, ero uno di loro anche io.» Si risistemò al mio fianco, il braccio piegato su un cuscino ed una mano sollevata a reggersi il capo. «Dopo, gli equipaggi hanno iniziato a farsi la guerra a vicenda e la piccola nave di cui facevo parte è andata distrutta.» Si batté una mano sul ginocchio destro. «Fra una lotta e l'altra sono rimasto ferito, per cui la mia gamba non funziona molto bene... » Aggrottai la fronte. Con tutti i pirati con le gambe di legno di cui si narrava nelle storie, era un dramma essere zoppi nella vita reale? «Gli uomini della mia nave, Piccola Lèa, sono diventati merce di uno dei Capitani a comando... E lui ha scelto di mandarmi qui.»
Mi spostai, alla ricerca di una posizione più comoda, puntellandomi sui gomiti. Sentivo che stavo per arrivare proprio dove volevo. Per me era una passeggiata pilotare una conversazione in modo che mi venisse detto ciò che volevo sentire, Alaister si era premurato di insegnarmi anche quello nel suo addestramento.
Ma stavolta non avevo fatto quasi nulla, a parte dargli un leggero imput: evidentemente Spezzacuore aveva un gran bisogno di parlare. «Non posso comprare la mia libertà, non è così che funziona. Sono di proprietà dell'equipaggio di cui faccio parte e così sarà finché qualcuno non reclamerà il bottino.»
«Reclamerà il bottino?»
«Sì. Uccidendo un capitano, prendi tutto ciò che possiede. Sono le nuove regole. Ecco perché vari equipaggi si combattono a vicenda: chiunque ne uscirà vittorioso, possiederà praticamente tutto nella Baia del Teschio.» spiegò, mentre mi torturavo il labbro inferiore fra indice e pollice, pensieroso. Le rotelle di nuove macchinazioni stavano iniziando a girare. «E sarà quindi il nuovo Re dei Pirati.» Scosse la testa. «Ma è da un anno e mezzo che si va avanti con questa storia.»
«Ma davvero?»
Il petto muscoloso venne scosso da una risata. «Si vede proprio che non sei di queste parti.» Il mio silenzio lo spinse a continuare. «Sono tre i principali Capitani, uno più famigerato dell'altro. I loro equipaggi si sono massacrati a vicenda, mentre distruggevano anche quelli degli altri. Ma nessuno di loro si è scontrato direttamente, sono troppo scaltri. Aspettano che qualcuno faccia la prima mossa cadendo in qualche trappola.»
O magari semplicemente avevano deciso di spartirsi il potere. Poi ricordai che erano pirati e difficilmente avrebbero condiviso qualcosa come in una normale democrazia. Oh andiamo, a Darlan era impossibile che accadesse qualcosa del genere.
«Chi è il peggiore?» Di chi si doveva preoccupare Ezrael? O meglio, di chi avrei finto che dovesse preoccuparsi?
Spezzacuore rimase a pensarci per un po', chiaramente indeciso. «Be', merda.» Si grattò la nuca, facendo sussultare il nido di rasta intorno al volto. «Gorfan Abardhon, il capitano dell'Idra Spinata.» Quella che seguì fu una pausa ad effetto. In un primo momento credetti fosse perché voleva spaventarmi, rendersi un narratore più interessante, ma a giudicare da come la sua faccia si torse, era lui ad essere particolarmente spaventato.
«Si dice in giro che abbia strappato i gioielli al padre e abbia stuprato sua madre. E che abbia gettato il fratello minore in pasto agli alligatori.» Era impallidito all'improvviso. «Il poveretto è sopravvissuto. Gestisce da qualche parte una taverna, è un busto senza gambe né braccia, seduto su una sedia a fissare il vuoto...»
Ora avevo voglia di vomitare. Il capitano Ren Uruj era senza dubbio un individuo affascinante, dotato di un innegabile carisma. Non era un folle sanguinario, almeno non da ciò che avevo percepito io: il solo fatto di lavorare per lo smantellamento della schiavitù lo rendeva umano. Un uomo da rispettare. Cosa diavolo avevo fatto, abbandonandolo al suo destino su un'isola deserta?
Mi stropicciai gli occhi fra indice e pollice. Dovetti ricordarmi che mi aveva sacrificato al Signore della Giungla per puntare ad un tesoro. Avevo fatto ciò che dovevo: il rimorso era per gli stupidi, non per gli assassini.
«E gli altri?» Se Gorfan non aveva ancora ottenuto tutto il potere per sé, allora gli altri due per tenergli testa dovevano essere al pari della sua orribile reputazione.
«C'è Belle Danzasangue, a capo della Morte Silente.» Alzai le sopracciglia, del tutto stupito. Quella sì che era una novità.
«Una donna? Una donna capitano di una ciurma?» esclamai, spostando il peso del corpo su un fianco, comodamente steso sulle pellicce, fronteggiarlo meglio. Il mondo dei pirati era fortemente impari, da quel poco che ne sapevo. Le donne servivano solo per divertirsi, utili nei bordelli, o per avventure diverse in ogni isola visitata. Lo dicevano i pirati, che non erano fatte per la vita di mare, ritenute troppo fragili, deboli, distraenti, un peso.
«Chiunque abbia provato a sottovalutarla per questo è finito male. E' un'arciera infallibile e una vera matta.» Si premette una mano sul cavallo dei pantaloni con un fare protettivo. «L'ultimo idiota che ci ha provato con lei ha perso l'attrezzo. Lei lo porta appeso intorno al collo... Come avvertimento.» Una combattente. Dovevo tenerne conto.
«E l'ultimo è Leck di Zagalath, capitano della Madre Peste.» Navi con dei nomi davvero gentili, dalla prima all'ultima. Non potevano chiamarsi Cielo Primaverile o Nuvola Rosa? Avevo già abbastanza problemi così. Non sapevo cosa aspettarmi da tutti quegli equipaggi. «Forse non è famigerato come gli altri, ma è bravo con i raggiri. Ottimo contrabbandiere, se ne dicono di tutti i colori su ciò che è riuscito a portare via dai controlli del Re di Darlan. Tutti sanno che è lui uno dei principali gestori del mercato nero nel Regno.» Valutai bene quest'ultima informazione.
Chiunque avesse contribuito ad arginare le sue censure mi stava automaticamente simpatico. Ma, magari, era solo un modo come un altro di lucrare sulla tirannia del Re. Forse era solo un tipo furbo, questo Leck, non un benefattore.
«Sembri proprio un tipo informato.» Lo guardai dalla testa ai piedi: labbra carnose e pelle scura come una crostata alla cannella servita nella mia saletta da tè preferita. Mi mancava quel posto. Le vetrate sul fiume Tibor e il tramonto che filtrava colorando i piatti di porcellana d'arancio, il tè al gelsomino e l'aroma di caffè fra le pareti coperte di carta da parati azzurra. Ma stavo divagando, come al solito quando mi lasciavo prendere dalla nostalgia.
«Sai, se i soldi finiscono nelle tasche dei Capitani che controllano il bordello, piuttosto che il denaro mi faccio pagare con le informazioni. Cazzo, a nessuno frega niente di quello che sa un Tritone.» spiegò, con un sorriso che gli assottigliava le labbra mentre si accarezzava la fossetta sul mento. Sperai che non fosse una tattica in cui ero già caduto: magari lui era uno dei Capitani sotto copertura, che mi stava clamorosamente fregando perché aveva capito tutto e aspettava soltanto che cadessi in una trappola. Come aveva fatto Ren Uruj.
Ma lo esclusi. Non sarei stato fregato. Non questa volta.
«Ma ritorniamo a dove siamo rimasti.» Tornò ad appoggiare una mano sopra di me: dita callose sulla vita nuda, pelle color latte contro pelle appena più scura della cannella, o dei biscotti al pan di zenzero, che portavano con sé l'aria delle feste invernali di Skys Hollow. «Non vogliamo mica sprecare il denaro di questo giovane ragazzo di mare... Posso farti un bello sconto.» Si allungò verso di me, il suo odore - incenso al sandalo e magnolie - mi inondò quando si avvicinò abbastanza da scostarmi i capelli dal collo, insinuando le labbra dietro all'orecchio, sulla pelle sensibile.
Fremetti per qualche secondo, prima di sollevare una mano ed appoggiarla sul petto ampio del cortigiano. Non ero lì per quello, decisamente no. E poi da quando avevo bisogno di pagare qualcuno per guadagnarmi delle attenzioni? Era un insulto alla mia autostima. Già abbastanza lesa dopo essermi nascosto dietro alla facciata mediocre di Archibald Fleming, nella Casa di Sapienza. «Raccontami chi sei e ti garantisco che toccherai il cielo con un dito.» La sua voce aveva assunto un tono basso e roco, estremamente lascivo, già capace di farmi immaginare cosa potessi provare se glielo avessi permesso.
Ma non sarebbe accaduto. E, quasi ad accompagnare quella negazione interiore, all'improvviso una voce impetuosa mi esplose nella scatola cranica, facendomi sussultare.
Dove diamine sei?! Hai intenzione di lasciarmi qui per sempre?!
Oh merda, Ezrael.
Me ne ero decisamente dimenticato. Essendo ancora agli inizi del nostro addestramento - erano passati appena due giorni dalla nostra chiacchierata - avevo deciso di metterlo alla prova con piccoli test di resistenza. Be', chiamarli piccoli sarebbe stato riduttivo, ma in confronto a cosa affrontavano le reclute nella Gilda degli Assassini, quell'aggettivo era piuttosto idoneo. Proprio all'inizio della mattinata, lo avevo lasciato che penzolava per le braccia dal lampadario della nostra camera.
Non avevamo molti posti a disposizione per l'allenamento, così, per assicurarmi che non barasse, avevo spostato i letti agli estremi opposti della camera, sgomberando il pavimento, in modo che potessi disseminarlo di tutto ciò che avevo rubato nell'ostello dove dormivamo. Aghi da cucito, siringhe, forbici, posate affilate fra forchette e coltelli e parecchi vetri rotti. Avevo creato un tappeto ben affilato dove non poter atterrare se le sue braccia lo avessero, infine, tradito. Un ottimo incentivo per non mollare la presa, pensai, sogghignando. Lui, ovviamente, era scalzo secondo il mio comando.
Il problema era che lo avevo lasciato lì da più di un paio d'ore.
Con un sorriso da angelo, quelli che innocenti non lo erano per niente, feci scivolare un dito sulle labbra di Spezzacuore, mettendo distanza fra i nostri volti. «Magari un'altra volta.» bisbigliai, sbattendo le lunghe ciglia. In piedi, mi spolverai dai pantaloni una polvere invisibile e salutai il Tritone con un dondolio della mano, assorbendo l'ultimo calore del braciere dentro alla stanza prima di uscire, senza camicia, per il corridoio gelato.
Fu un'ottima ragione per darsi una mossa, ma ciò che mi esortava maggiormente era l'idea che Ezra potesse guardarmi nella testa: non avevo ancora capito come facesse, talvolta, a guardare le scene che avvenivano nel mio quotidiano mentre io le vivevo, come uno spettatore davanti ad una rappresentazione teatrale. C'era da scommettere che non gli sarebbe piaciuto sapere che mentre lui sgobbava, io mi facevo alitare sul collo da un cortigiano.
Sperai comunque che la fatica fisica incidesse su quella mentale e fui lieto di avere, in quest'ultimo periodo, l'occasione di imparare. Avevamo deciso così: io gli insegnavo i rudimenti del combattimento, lui mi dava una mano con quella questione della telepatia. Non solo, aveva accennato ad un modo per schermarsi da essa. Nel caso in futuro incontrassi qualcuno che era capace della sua stessa abilità, diceva. E perché no: mi sarebbe servito anche per lui.
Afferrai farsetto e soprabito pesante dalla donnetta in lingerie davanti all'ingresso e mi ricomposi in fretta, calando il cappuccio per coprirmi capo e viso prima di uscire in strada. L'aria era frizzante e salmastra, ma soprattutto gelata come una cucchiaiata di granita ingoiata prima di sciogliersi sulla lingua. Ogni volta che respiravo, fetore e gelo mi accoltellavano i polmoni.
Prima di rintanarmi nel calore del mio alloggio, feci un salto al piccolo mercato sempre aperto fra le parti del porto, procurandomi il pranzo: triglie alla griglia e polipetti allo spiedo. Sentivo una gran mancanza del cibo offerto dalla mensa scolastica, pieno di salse sofisticate ed erbe aromatiche coltivate in un raffinato orto nella serra dove si svolgevano anche le lezioni di scherma. Per lo meno, il pesce era fresco.
«Donna! Mi serve un fottuto coltello! Non posso tagliare questa roba con la sciabola!» abbaiò un pirata, seduto ad un tavolo nella sala grande dell'osteria, osservando il piatto con un'aria particolarmente seccata. Mentre salivo furtivamente i gradini verso le camere da letto, rammentai che tutte le posate della locanda le avevo rubate io quella notte, per cui mi appuntai di restituirle prima di causare ulteriori guai.
Sgattaiolai nel corridoio e, dopo aver bussato un paio di volte per avvisare del mio arrivo, aprii l'uscio, sentendo l'anta della porta sferruzzare contro le lame e i vetri sul pavimento, spostandole e facendo largo al mio passaggio. Mi chiusi la porta alle spalle e mi tolsi il cappuccio dalla testa: una rapida occhiata all'interno della stanza mi fece sospirare.
Ezra era seduto sul suo letto a gambe incrociate, il petto nudo ancora rigato di sudore, qualche ciocca di capelli grigio mercurio incollati sulla nuca e sulla fronte, la faccia stropicciata in una smorfia malcelata guardandosi la pianta del piede, le dita sporche di sangue mentre armeggiava per levarsi una scheggia di vetro dalla carne. Alla fine aveva ceduto e la mia trappola affilata era scattata. Non che non me lo aspettassi.
«Quanto sei durato?» domandai, scostando vetri e posate con lo stivale mentre mi facevo strada fino al suo capezzale, sedendomi poi ai piedi del letto, il pacchetto di cibo caldo a fare da scudo fra di noi. Avevo ancora sulla faccia quel sorrisetto innocente che, sospettai, gli fece venire un desiderio ancor più forte di saltarmi alla gola, a giudicare dallo sguardo arcigno che mi gettò.
«Dove diamine eri finito?! Sai quanto tempo è passato?! Non posso restare mica per l'eternità a penzolare da un lampadario!» ringhiò, l'ultima sillaba pronunciata inasprita dallo strattone del polso che finalmente lo liberò dal pezzo di vetro. Un piccolo fiotto di sangue zampillò dalla ferita superficiale che si era procurato nel tallone. In mancanza di fasciature, si premette le lenzuola contro al piede, senza smettere di guardarmi furente.
Anch'io lo ero dopo che il Re degli Assassini aveva sguinzagliato mastini a digiuno per rincorrermi intorno alla Fortezza per due giorni filati, finché non avevo trovato un modo per ammazzarli a mani nude e non morire sbranato.
«Non fare il melodrammatico.» sbuffai, il tono vanitoso, il sorriso assolutamente sicuro di me. «Cosa saranno due o tre ore?» E con quello, mi ero definitivamente vendicato di lui. Ma, tutto sommato, lo stavo aiutando per davvero: restare a fare il peso morto mentre le cose si complicavano ci avrebbe messo nei guai. Non sapevamo cosa ci aspettava nei Regni del Caos. Non sapevamo neanche cosa ci sarebbe capitato nell'Oltretomba. Sempre se ci fossimo arrivati.
Lo straeliano aprì la bocca, preparandosi a contestare o mandarmi al diavolo, ma a quel punto gli avevo già messo davanti il pranzo. Non c'era cosa migliore, dopo un allenamento, che abbuffarsi. «In ogni caso, siamo ancora all'inizio.» Recuperai le posate dalla massa acuminata sul pavimento, ripulendole alla bell'e meglio in mancanza d'acqua, poi consumai il pasto mentre continuavo a chiacchierare e lui mi fissava incupito. «Ieri te la sei cavata bene, hai tenuto sollevato il letto abbastanza da farmi pensare che dobbiamo insistere sulla tua forza.» Masticai una forchettata troppo salata. «Mentre ci procuravo da mangiare, ho scoperto un paio di cosette...» E poi gli raccontai tutto quello che avevo saputo sui capitani e i loro equipaggi, tacendo il piano che avevo iniziato ad architettare alle sue spalle.
***
Calcio, pugno, schivata, pugno, parata. Contrattacco.
L'allenamento di Ezrael era praticamente giunto al termine e mentre l'inverno allentava la sua morsa gelata intorno alla Baia del Teschio garantendo un clima più favorevole per il nostro viaggio verso l'ignoto, lui aveva bisogno di ulteriore tempo. Non era ancora pronto, non abbastanza per sopravvivere... Almeno se avessimo seguito il piano originario, che prevedeva la mia totale esclusione dai combattimenti e tutta la responsabilità sull'imbronciato uomo delle caverne.
Non si era rivelato uno studente pessimo, o un totale incapace come mi aspettavo: Kleira, la sua gemella, faceva parte della sovrintendenza del corpo di guardia di Astrea, per cui di combattimenti ne sapeva abbastanza da insegnare un paio di cose al fratello nel corso degli anni. "Quando riusciva ad incastrarmi e voleva farmela pagare per qualcosa" mi aveva spiegato Ezra. Ma erano conoscenze basiche, il minimo indispensabile per l'auto-difesa contro un avversario poco esperto. Tirando le somme, sapeva come tenere in mano un'arma o poco più.
Lui invece mi aveva spiegato meglio come funzionava con la telepatia: dovevo immaginare che il mio pensiero si trasformasse in una sorta di oggetto, che volava nell'aria consapevole della traiettoria, della distanza, fino ad infilarsi nelle sue orecchie. Con delle frasi intere era troppo complicato, perciò avevo iniziato con semplici parole. Con i primi tentativi mi occorreva considerevole concentrazione, poi avevo scoperto che il procedimento era simile al tirare un pugnale da lancio. Dovevo capire dove volevo mirare, calcolare le distanze, misurare il tempo, la velocità, la solidità del mio pensiero come avrei fatto col peso dell'arma. Adesso che ci riuscivo meglio, azzardavo piccole frasi.
Troppo lento.
Gongolai nella sua testa, mentre scartavo di lato sfuggendo facilmente ad un suo affondo: sfruttai il suo braccio ancora teso per tirarlo in avanti, così che potessi piazzarmi alle sue spalle e piantargli un calcio in mezzo alla schiena. Si sbilanciò verso terra, incespicò per un momento che sarebbe bastato ad un qualsiasi avversario per accoltellarlo in mezzo ai reni spezzandogli la spina dorsale, poi tornò dritto e si voltò per fronteggiarmi ancora una volta.
Portava soltanto una camicia aperta sul petto, a mostrare una fila di muscoli scolpiti, madidi di sudore per le ore ininterrotte che lottavamo. Giorni prima, gli avevo chiesto scherzando - ma nemmeno troppo - com'era possibile che sembrasse così ben allenato. Fra un'occhiata torva e un borbottio, mi aveva infine rivelato che sin da piccolo correva fra i cunicoli di Astrea e scalava le pareti rocciose aiutando i costruttori del regno a fabbricare nuove case per gli abitanti. Al tempo stesso, cercava l'uscita, una fessura, un punto da cui poter vedere il sole.
Doveva essere soffocante nascere e vivere sottoterra, io probabilmente non ne sarei stato capace. Ma loro che scelta avevano? Sembravano così diversi dagli abitanti del mondo esterno... Gli occhi di un viola vibrante di magia, le orecchie appuntite e i canini più affilati del normale. E quell'aria di potere che trasudavano, come se fossero diversi dagli altri, arcani, antichi. Appartenenti ad un'altra stirpe, qualcosa che non era davvero umano. Il mio guardiano, alto due metri nella sua appariscente meraviglia, ne incarnava assolutamente l'esempio.
«Non. Provocarmi.»
Lo spazio era ristretto nella nostra stanza, i letti attaccati alle pareti opposte facevano da ring e tutto ciò che avevamo intorno era utilizzabile come terreno da combattimento. Arma o difesa. Nessuno si lamentava del casino, perché diamine... Eravamo in territorio pirata. Il casino era la norma.
Puntò nuovamente la sciabola davanti a me, avanzando, ed io assecondai l'attacco facendo scontrare la lama di una spada corta con la sua arma. Il ferro fischiò con qualche scintilla, mentre la sua forza pareva sopraffarmi: una sciabola gli offriva una presa maggiore, a due mani, su cui esercitare una potenza ottimale per un fisico come il suo. Reclinai la schiena, facendo un passo indietro, mentre il gomito tremava nel tentativo di sopportare il peso di tutto il suo braccio, i suoi muscoli, il suo torace, sull'esile lama dello spadino. Ma stavo soltanto giocando.
«Lasci troppi punti scoperti.» Con l'altra mano gli stavo già puntando un secondo spadino sotto alla giugulare. Se fossi stato un nemico, sarebbe già stato infilzato, la gola tagliata da parte a parte. Mosse la sciabola di lato, spostando via da sé la mia arma, che rispose con uno sferruzzare deciso. «Devi avere occhi dappertutto, specialmente se il tuo avversario combatte con una sola mano. Evidentemente ha una seconda arma a disposizione.»
Avanzai, muovendo sia la mano sinistra che la destra: un colpo verso la gola, un altro contro l'addome. Mi stava dietro a fatica, agitando la spessa lama che rispondeva con fischi e scintille. Le nostre ombre si allungavano sulle pareti creando un doppio duello di chiaroscuri. Le sue iridi guizzavano instancabilmente sulle mie mani, seguendo il movimento troppo veloce delle spadine per non perdersi nemmeno un mio attacco o una finta. Ma mentre si occupava di respingere le lame, grazie ad un balzo improvviso gli assestai una testata in piena faccia con la base del cranio, dove non mi avrebbe fatto male.
«Ugh-» gemette e sussultò, ma io infierii, piazzandogli un calcio al ginocchio che lo fece perdere forza nella gamba e lo costrinse a terra. Se il mio attacco fosse stato più forte, gli avrei senz'altro spezzato l'osso. Invece, mi limitai ad un manrovescio, disarmandolo. L'elsa della sciabola rotolò a qualche metro dal possessore, stridendo con un lamento metallico.
«Te l'ho detto, non devi guardarmi solo le mani!» gli stavo ripetendo le stesse cose da giorni, ormai. Ma una cosa era imparare il concetto, un'altra metterlo in pratica. Lo sapevo perfettamente.
Si rimise in piedi, ignorando lo sgocciolio di sangue che gli colava dal naso dopo la mia testata. Su una cosa era bravo, incassare. Forse nella consapevolezza della sua rapida guarigione, forse per la costituzione muscolosa. Senz'armi, si limitò a caricarmi a testa bassa, forza bruta contro velocità affilata. Tentò di agguantarmi un braccio armato, scuotendomi nel tentativo di strappare via l'arma, ma io sfruttai la presa che lui aveva creato: gli calciai la caviglia e usando il suo peso come leva, lo ribaltai a terra con uno schianto fragoroso.
Poi mi piantai a cavalcioni sopra di lui ed iniziai a caricarlo di pugni. Non ero minimamente forte quando Ezra, ma sapevo dove colpire. Quando comprese che non mi sarei fermato al primo ceffone, incominciò ad impegnarsi seriamente per schivarmi: muoveva il collo a destra e sinistra, cercando di evitare il mio pugno, che altrimenti si scagliava sul pavimento lì dove prima c'era la sua faccia. Io però ero bravo a bluffare, fingevo di colpire in un punto e mi spostavo alla fine, centrando la zona dove si spostava anche lui. Picchiando ancora e ancora. Il sangue aveva preso a zampillare più forte dalle narici, colandogli sulle labbra e sul mento.
Capì dopo l'ennesimo pugno cosa doveva fare: in fondo, era forza bruta contro velocità affilata, ancora una volta. Spinse il corpo in avanti, ribaltando la situazione. Fu lui a ritrovarsi a cavalcioni sopra di me, la presa stretta sulle spalle, scuotendomi come una bambola di pezza: mi afferrava e sbatteva testa e schiena contro al pavimento, ripetutamente. Bum, e la mia testa si schiantava sulle assi di legno. Bum, e nei miei occhi danzavano piccoli puntini luminosi. L'osteria sotto di noi doveva pensare sicuramente che ci stavamo dando dentro in qualche maniera selvaggia. Che idea assurda. Quella fantasia doveva essere arrivata solo perché ero troppo intontito.
Ma avevo ancora le braccia libere. Gli spadini erano stati abbandonati mentre lo prendevo a pugni, lontani ormai dalla mia presa. Comunque, non erano necessari. Con un solo gesto, gli tirai un pugno alla gola, proprio in quel punto fra le clavicole, qualche centimetro più su, dove erano piazzate le corde vocali. Il singulto che liberò fu un gracchiare sofferente: mentre si riprendeva dal momentaneo soffocamento, strisciai fuori dalla sua portata e recuperai le armi. Gli lanciai uno spadino contro, che si piantò dritto in mezzo alle sue gambe, ad un soffio dai gioielli di famiglia, ficcandosi nel pavimento mentre l'elsa dondolava. In segno di sfida.
Non avremmo finito finché non lo avessi deciso io. Perciò strappò l'arma dalle tegole irregolari della stanzetta e tornò in piedi, schiarendosi la voce, gli occhi scintillanti come un fulmine in mezzo alla tempesta, palpebre affilate. Non si arrendeva: era convinto ad andare avanti per la sua idea. Man mano che lo allenavo e gli facevo notare che la sua era stata una trovata idiota, che potevo ancora essere io a lottare, Ezrael aveva scovato altre motivazioni fastidiosamente coerenti per impedirmelo: e se, sfruttando la taglia sulla mia testa e scoprendo che ero il vero Sfavillo, mi avessero messo nei guai? E se, vedendomi sbaragliare la concorrenza, mi avessero preso di mira in massa? Le cose avrebbero potuto precipitare in mille modi diversi.
Tutti scenari che avevo messo in conto per il mio piano. Tutte cose di cui non mi preoccupavo affatto.
Ma gli lasciai credere così, anche adesso, mentre le nostre lame si scontravano di nuovo, acciaio contro acciaio, fil di lama che vibrava e volti vicini, qualche centimetro di distanza, gli occhi incrociati in una danza duellante e un sorriso impertinente sulle mie labbra, contro la rabbia bruciante altrui. L'impotenza. Tre settimane erano troppe poche perché riuscisse a fare qualcosa.
Piroettai sul posto, una giravolta mentre schivavo un fendente, la lama che guizzava in un lampo argenteo facendo saltare via la sua dalle dita, nello stesso istante in cui la punta acuminata del mio spadino gli finiva sotto al mento, minacciosa.
«Fine dei giochi. Hai perso.» soffiai, in un sussurro basso, mentre la tensione guizzante nei muscoli dell'altro mi lasciava presagire che si sarebbe mosso ancora. Spinsi più a fondo la lama, una goccia di sangue gli colò lungo il collo costringendolo ad un passo indietro. Mani alzate, iridi di un viola ancora collerico, come lava che covava sotto alle ceneri, in attesa di scatenarsi. Sapevo che nel momento in cui avrei abbassato l'arma, lui avrebbe caricato ancora una volta. Me lo aspettavo. Così agii prima di lui.
Lo strattonai per un lembo della camicia e lo spinsi sul letto, ruzzolando insieme a lui, ritrovandomi però incastrato fra il suo muro di muscoli e la parete fredda alle mie spalle. «Ehy, ho detto fine dei giochi.» dissi, il tono che doveva essere più severo e duro, ed invece si trasformò in uno strano sussurro, mentre mi rimirava a quella vicinanza. La fiammella di un paio di candele sul comodino gli era alle spalle, per cui mi schermava dalla luce. Il suo volto, scuro di ombre, era ancora sporco di sangue e sudore. L'adrenalina ancora in circolo.
Non so che cosa mi prese esattamente, in quel momento, ma sollevai una mano scacciandogli col pollice una goccia di sangue dal mento, poi da sotto al naso, poi dalle labbra. Mi afferrò il polso senza esitazione, la presa fulminea e costrittiva dentro alla sua mano. Ma non faceva nient'altro oltre che guardarmi, tenermi fermo l'arto e fissarmi. Trafiggermi con lo sguardo, inchiodarmi.
«Stai bene?» mormorò.
«Eh?»
«Hai sbattuto forte la testa.» Pausa. «Quando ti ho spinto a terra.» Ah giusto. Quando mi aveva sballottato come uno yo-yo contro al pavimento, ripetutamente.
«Sì.» risposi, monocorde. La presa sul polso si allentò gradualmente, fino a diventare una strana specie di carezza, fatta quasi con cautela, come se fossi un animale facile allo spavento, oppure all'aggressione. Si avvicinò. Io, invece, mi spinsi di più contro alla parete, le scapole che aderivano alla pietra.
Il silenzio si protrasse finché la sua voce non tagliò l'aria come un coltello col burro. «Posso baciarti?» Sussultai. Doveva essere stupido, o recidivo, o terribilmente caparbio. Tutt'e tre le cose insieme. Tanto che quella non fu una domanda, bensì un'affermazione. Un avviso gentile, che scivolava sulla mia pelle un attimo prima che la sua bocca si posasse sulla mia.
Pensavo di non aver capito Ezrael. Pensavo che fosse una specie di rude buzzurro, un lunatico al limite della follia, un tipo frustrato per colpa del ruolo che gli aveva appioppato la vita quando non aveva la minima voglia di passare del tempo con me, di condurre una missione che credeva di poter portare avanti benissimo da solo. Diamine, quanto mi sbagliavo.
Col passare del tempo, con quello che mi avevano detto gli altri, con ciò che avevano svelato i suoi gesti, lentamente ogni sua mossa mi era sembrata più comprensibile. "Credo sia sempre stato difficile per lui. Vedere tutto quello che ti succedeva e non poter fare niente. Affezionarsi a te mentre tu neppure sapevi della sua esistenza." Aveva detto la sua gemella.
Ero abbastanza convinto che mia madre e la sua guardiana si fossero incontrate sin da piccole, costruendo insieme il loro destino senza mai essere separate. Quello che doveva essere il compito di Ezrael, la ragione della sua esistenza e del suo potere, era stato vano. Quando mi aveva trovato, era troppo tardi.
Ero già completamente distrutto, stravolto. Dopo Ender, mi aveva trattato con una cura quasi esagerata, miscelata probabilmente al sapore amaro del pentimento. Poi, ritornato in me, dopo avergli praticamente fatto notare che nella mia vita non avevo avuto bisogno di lui, che era stato del tutto inutile e che non mi aveva salvato, anche senza usare le parole, avevo ricevuto una risposta estremamente aggressiva. Crudele quasi. "Assistere mentre altri uomini ti facevano di tutto e non poter distogliere lo sguardo." Uno spettatore inutile della mia vita. Avevo vanificato il suo compito. Peggio, il destino lo aveva escluso. Non gli aveva dato neanche la possibilità di farmi scegliere fra lui e gli altri.
"Praticamente sei tutta la sua vita."
E se ero la ragione della sua vita, allora lo avevo rifiutato, facendolo sentire ancora più inutile. Mi ricordai quello che aveva detto nel bosco: "Sei tu il mio padrone. Usami per sopravvivere". Sperava di recuperare un po' del tempo che ci eravamo lasciati alle spalle? Non c'erano dubbi che mi avesse salvato la vita, in quelle notti complicate fra i boschi del nord. Sarei morto: per la follia, per gli stenti, per i segugi o per il volo che avevamo fatto oltre il crepaccio, dopo che si era beccato tutte quelle frecce nella schiena al posto mio.
Ricordai gli unici due baci che aveva osato posarmi sulle labbra da quando avevamo fatto il nostro incredibile incontro davanti ai cancelli di Ender. Il primo, in mezzo alla boscaglia, ad un soffio dall'essere scoperti da un manipolo di guardie: sotto ad una coperta, a simulare l'impeto appassionato di due amanti. Che non avrebbero dovuto essere lì, di notte, in pieno inverno. Ma assurdamente, stupidamente, aveva funzionato.
Dopodiché mi aveva insultato, arrabbiato forse più con se stesso che con me per quello che aveva fatto: non era abbastanza definito, il confine fra lui e gli altri che c'erano stati prima. Non era un'avventura occasionale delle mie, fatta durante una missione, senza pensare alle conseguenze e senza aspettarsi che quelle mi portassero a qualcosa.
Decisamente non sarebbe stata un'avventura, lui. Poi mi aveva baciato un'altra volta ancora, nelle caverne di Astrea, dopo che avevo saputo chi ero davvero, chi fosse mio padre. "Sei bello quando piangi". Lo aveva sussurrato a fior di labbra, in un tono morbido, stranamente comprensivo. "Ti rende umano".
Era stato facile in quel momento, cullarsi nel sapore delle sue labbra per non sentire quello delle mie lacrime, per soffocare la disperazione crescente. Una consolazione dolceamara, quella di un protettore verso il suo protetto, più di affetto che di romanticismo, che era durata per il tempo necessario del mio ritorno alla realtà. E dopo? Non ci volevo neanche pensare. Quello che era successo nella Casa di Sapienza, proprio qualche sera prima che mi aveva baciato la fronte, promettendomi che mi avrebbe protetto. L'impeto di furia era arrivato ancora una volta: sospettavo che avesse creduto che il rappresentante di classe, quell'idiota, fosse una specie di nuova fiamma. Lo stavo escludendo di nuovo. Anzi, lo stavo... Tradendo?
Chi poteva sapere cosa gli stava passando per la testa in quegli istanti.
Era stato piacevole, sentire la nostra carne che si strofinava mentre raggiungevamo l'apice insieme, uno scossone per il mio corpo dopo un bel po' di tempo. Ma non aveva il diritto di toccarmi in quel modo con la forza. E quando aveva provato a prendermi con la violenza, come avrebbe fatto qualsiasi guardia di Ender, il minuscolo legame che si era andato a creare, ancora una volta si era leso. Un rapporto altalenante, il nostro. Non perché lui fosse lunatico, in fondo. Era piuttosto... Complicato. Non c'era altra parola per descrivere meglio la cosa.
Così eccoci lì, l'uomo delle caverne e l'assassino, stesi su un singolo materasso stretto. Il suono del mare mosso oltre il balconcino e la luce ovattata di una piccola fiammella che danzava silenziosa, tingendo il crepuscolo d'oro. Le sue labbra sulle mie, gli occhi semiaperti, il sapore metallico del sangue sulla lingua mentre mi faceva scivolare una mano sulla nuca, le dita che si insinuavano fra le mie ciocche, separandole e pettinandole per sentirne la morbidezza. Sapeva ancora di pini e di frutti di bosco. Di sogni arcani dimenticati al risveglio, promesse mai mantenute dal destino. Di un passato che avrebbe potuto esserci ma non c'era mai stato.
Era il primo bacio veramente consapevole, almeno da parte mia, di ciò che stavo facendo. Quando schiusi le labbra, la sua lingua incontrò la mia quasi timidamente, esplorando l'interno della mia bocca con calma. Un contatto che lasciò scivolare lungo la mia schiena una serie di piccoli brividi, talmente tangibili da sembrare piccoli folletti che mi scalavano la spina dorsale, aggrappandosi velocemente alle vertebre. La mano di Ezrael mi cinse la vita, tirandomi a sé fino a far combaciare il nostro torace. Il suo odore mascolino mi invase per qualche secondo, mentre lasciavo scivolare una mano fra di noi, le dita appoggiate sul petto nudo, ancora umido di sudore.
Fui io a porre fine a quella cosa, che non necessitava per forza di definizioni, mentre mi tiravo a sedere. Mi pulii le labbra col dorso della mano, sperando di cancellare quella sensazione, mentre lui ancora mi fissava, mordendosi il labbro inferiore.
«E' il caso che vada giù a prendere un po' d'acqua per lavarci. E la cena.» Strisciai i fianchi fino a raggiungere il bordo del letto, toccando il pavimento con le scarpe per poi issarmi in piedi. «Ti devi riposare. Domani è il giorno.» E recuperai il mantello col cappuccio, solo perché così "avrei tenuto nascosta la faccia". Una piccola bugia a fin di bene.
Si limitò ad annuire, mentre si puliva con un lembo della camicia il sangue dalla faccia, quindi uscii dalla nostra stanza e sgattaiolai silenzioso sui gradini, lasciandomi dietro il primo piano, la sala grande dell'osteria, la porta chiusa dell'ingresso. La fredda brezza marina mi investì in pieno viso, facendomi quasi cadere il cappuccio dalla faccia. Lo trattenni per la punta, tenendolo tirato verso il basso, mentre mi inoltravo fra le stradine umide della Baia del Teschio, un dedalo di viuzze puzzolenti d'urina, birra, pesce e sangue.
Una decina di minuti dopo, mi ritrovai ad incrociare lo sguardo maledettamente scaltro di Spezzacuore, il tritone dall'aria avvenente di uno dei bordelli più frequentati del luogo. Non che fosse un pregio, considerato il postaccio. I rasta scompigliati, l'aria satura di piacere e il profumo dell'incenso passarono in secondo piano, quando scompose la sua aria indolente alzandosi dal letto di pellicce.
«Ce l'hai?» domandai, e stavo già sorridendo, visto che teneva in mano una bustina di raso chiusa da un fiocco, mentre avanzava verso di me.
«Siano dannati tutti gli Dei del mare se Spezzacuore non riuscisse a portare a termine un compito così facile.» gongolò, facendosi dondolare dall'indice il nastrino, la stoffa leggera davanti al mio naso, in attesa che la raccogliessi. Il fatto che parlasse di sé in terza persona mi fece ridacchiare, ma mai quanto la sensazione di avere il mio trionfo in mano.
«Oh...» acciuffai la bustina di raso, aprii il fiocco, diedi un'occhiata rapida all'interno. E sorrisi. «Tante grazie.»
«Domani non mancherò. Voglio proprio vedere che te ne fai di una cosa come quella.» disse il cortigiano, accarezzandosi la fossetta sul mento, mentre già mi giravo verso la porta, pronto a tornare all'osteria prima che Ezra iniziasse a farsi due domande.
Mi fermai giusto l'attimo necessario per dirgli, di spalle, mano appoggiata sulla maniglia: «Scommetto che sei un tipo intelligente, Spezzacuore. Penso che tu sappia già a cosa mi serve.»
Ed uscii, soddisfatto al pensiero del giorno dopo. Non senza gettare un ultimo sguardo al contenuto della busta che avevo ricevuto: una maschera dorata, quella che Sfavillo avrebbe indossato in una delle sue missioni a Skys Hollow. Proprio come se nulla fosse cambiato da allora.
Proprio come allora, la gente si sarebbe aspettata dall'Assassino di Darlan un esagerato, epico, glorioso spargimento di sangue. Perciò, perché avrei dovuto negarlo?
***
*NDA - L'angolo pruriginoso di un'autrice ammazzazanzare*
Hola!
Le mie cattive abitudini non moriranno mai. Continuerò a postare sempre di notte fonda (mattina presto?), vittima di malvagie zanzare che vogliono punirmi per questo! Su una cosa c'è da punirmi veramente, però: mi sono accorta che è passato esattamente un anno da circa cinque capitoli fa. Cioè, ci ho messo un anno per scrivere cinque capitoli?! Sono un essere abietto!
Stendiamo un velo pietoso e parliamo di cose migliori... Avrei voluto scrivere in questo stesso capitolo, secondo i miei programmi, di tutta la parte del combattimento contro i pirati, poi mi sono resa conto che sarebbe venuto biblicamente lungo e ho detto "okay Lotty, facciamo al prossimo". E così è venuto fuori questo... Non so se sono soddisfatta o meno, diciamo di sì, in trepidazione per i soliti casini di questo protagonista. Arriveranno: arrivano sempre!
Nella speranza che il capitolo vi sia piaciuto, vi mando un salutino e ci vediamo al prossimo~
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