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13. L'Assassino e il Capitano




«La passione non è cieca, è visionaria»

- Stendhal






Esistono due tipi di persone in questo mondo o in qualsiasi altro.

Quelli che scappano e quelli che combattono. La gente ha una moltitudine di termini per quest'ultimi: istinto omicida, furia assassina, palle d'acciaio. E non c'era da sorprendersi che di fronte all'arrivo delle guardie di Ender - gli stessi che mi avevano frustato, umiliato, ridotto alla fame e al freddo - e dei soldati di Darlan - gli stessi che mi avevano percosso sul patibolo, incarcerato, imprigionato - invece di restare paralizzato in un angolo della Casa di Sapienza, invece di filare a nascondermi negli armadi delle mie stanze come avevo fatto a sei anni, invece di fuggire da una finestra per darmi ad una disperata fuga in mezzo alla neve, mi limitai a correre.

Era una cosa che facevo spesso. Correre. Avevo corso sui tetti verde smeraldo di Skys Hollow il giorno in cui avevo comprato e ottenuto la prima casa, tutta mia, mentre sentivo di avere un futuro immenso davanti, il mondo nelle mie mani. Avevo corso poco prima dell'esecuzione di Yul verso una piazza gremita di nobili e popolani inferociti. Ma adesso correvo verso un amico o un nemico, un alleato o un diffidato compagno di sventure. Correvo, ma non per scappare: correvo per combattere. Perché se avessi trovato lo straeliano, insieme, avremmo potuto fare qualcosa.

Ezrael?! Dove sei? Dove ti sei cacciato? Rispondi!

Gridai nella mia testa e fra i miei pensieri, speranzoso che potessero raggiungerlo. Ma non ne avevo alcuna certezza, perciò continuai a fiondarmi fra la folla di studenti che si riversavano nei corridoi, allarmati dal suono delle campane e da ciò che sarebbe successo di lì a poco. Nemmeno ai ricchi viziati piaceva chi lavorava ad Ender. Erano spesso individui sudici e sporchi, viscidi e violenti, alcuni alcolizzati, che non mancavano di sgradevoli battutine mentre te le alitavano in faccia col loro fiato di whiskey rancido. Ed erano quel genere di individui a cui non importava da che famiglia provenissi: bastava una parola sbagliata per un pugno nello stomaco.

«Spostatevi... Levatevi maledizione!» sibilai a denti stretti, mentre mi facevo largo a spallate e bracciate, quasi nuotando nella fiumana recalcitrante, nessuno voleva allinearsi nella sala grande, all'ingresso, per l'ispezione. E io meno di tutti. Senza capire dove si fosse cacciato Ezrael, che chiaramente non poteva sapere dei soldati, era un gran problema. Mentre la gente scendeva le striminzite scale a chiocciola di pietra che portavano ai dormitori, io le salivo, facendomi stretto come una sardina contro alla parete.

Ezra per favore! Siamo in pericolo! Soldati di Ender!

Ma non arrivò alcuna risposta. Finalmente libero dall'ingorgo sulle scale, corsi fulmineo verso la porta delle nostre stanze, spalancando dopo due frettolosi giri di chiave. Dell'albino non c'era nemmeno l'ombra. Il suo letto era ancora ben fatto, come lo avevo lasciato quella mattina prima della lezione di scherma, segno che non aveva dormito lì quella notte. Erano giorni che non dormiva nelle mie stesse camere. Doveva aver trovato un alloggio alternativo di cui io non sapevo nulla, ma questo non giovava a nostro favore, anzi: adesso non sapevo dove diamine fosse e la minaccia dei soldati incombeva più che mai. Anche perché, la Casa di Sapienza era una trappola senza uscita: le finestre erano in stile gotico, affusolate e slanciate, senza possibilità di apertura. Anche rompendole, forse io sarei riuscito a passare, con un po' di fortuna e diversi graffi, ma mai il mio guardiano.

L'unica possibilità era... Accarezzai le perline nel braccialetto, mordendomi il labbro inferiore. Senza Ezra teletrasportarmi era un tuffo nel vuoto. Non sapevo come funzionava, non potevo nemmeno farlo da solo perché avremmo potuto perderci nell'immensità dei boschi del nord.

Con un mugugno di fastidio ingollai la saliva che mi si era formata in bocca e senza mettere troppo a soqquadro la stanza, recuperai il minimo indispensabile per la fuga: mi nascosi addosso tutte le armi che avevo portato nel viaggio, compresi i falcetti di cristallo delle grotte di Astrea e gli anelli legati a poteri sconosciuti che a volte evitavo di indossare per il timore che mi fossero rubati. Mi ficcai nelle tasche libere gli avanzi della colazione del giorno prima - accumulavo provviste proprio in previsione di una fuga come questa e, quando iniziavano a marcire, le buttavo.

Ero un assassino, allenato ad affrontare ed anticipare ogni imprevisto. Ma non ero preparato alla sparizione di Ezrael, proprio al momento meno opportuno.

L'intensità del suono delle campane mi fece intuire che era urgente che scendessi e mi unissi a tutti gli altri, così ricominciai la corsa. Tutto quello che era accaduto in mattinata, dalla sfida di scherma alla lezione che avevo dato al rappresentante di classe, fino ad arrivare alla convocazione nell'ufficio del Direttore, mi era completamente passato dalla testa. Ora i pensieri erano scevri di inutilità: sapevo cosa dovevo fare e quale storia inventarmi per affrontare gli uomini del Re. Era ridicolo pensare che, in un'altra situazione, quegli uomini avrebbero potuto essere al mio comando. Ero niente di meno che il principe di Darlan. Anche se il regno ne aveva già uno: si chiamava Adrian, alto e bello, amato da tutte le dame del globo. O almeno così si diceva ai grandi balli.

«Sti scimunit c'hann chiù sord d me cand lavorr per diesc cazz d'ann!»

Riconobbi quella voce mentre, ancora a testa bassa, scendevo i gradini di marmo fino all'opulento atrio insieme al resto degli studenti ritardatari. Non potevo trattenermi oltre per la ricerca di Ezra: un drappello di soldati aveva iniziato a diffondersi per la scuola setacciando sale ed aule in cerca di sospettati fuggiaschi e chiunque trovasse sul suo cammino era preso con la forza, trascinato per il braccio, il colletto della divisa o l'orecchio, e riportato all'ordine insieme a tutti gli altri.

Non mi ero lasciato afferrare, piuttosto ero sgattaiolato davanti alle guardie esattamente come uno studente sbadato che sapeva di doversi muovere in fretta e un paio di loro mi avevano seguito con lo sguardo perennemente incollato alla nuca, per assicurarsi che mi ricongiungessi davvero al resto del corpo studentesco.

«Che cazz, mò che so' costrett a fà...» ripeté la voce conosciuta mentre scandagliava la folla camminando avanti ed indietro con i movimenti irrequieti di uno struzzo. Non fu difficile ricordarmi chi fosse: lo chiamavano Strappa-scoiattoli ed era uno degli uomini più sgradevoli del pianeta, un ottimo candidato per diventare il reggente del posto peggiore del regno. Il capo delle guardie di Ender ora scandagliava gli studenti rigidi col piglio di chi poteva rivoltarli come un calzino sporco, sputarci sopra, ed usarlo per pulirsi il sedere dopo un'intensa seduta alla latrina.

Mi ricordavo di Strappa-scoiattoli perché era quello che faceva: catturava roditori davanti alla bocca delle grotte di sale del campo di prigionia, e poi li apriva in due. A mani nude, lasciandosi colare le viscere fra i piedi. C'era qualcosa di disturbante nel mettersi lì, seduto, davanti agli schiavi, ad ammazzare animali indifesi come avrebbe potuto ammazzare tutti loro. Come se non bastasse, completava il rituale ficcando l'animale in uno spiedo per cucinarlo: l'aroma di carne riempiva fino all'ultimo cunicolo delle caverne di Ender e ricordava a tutti che cosa sarebbero stati disposti a fare, per un misero boccone di quello scempio a cui avevano appena assistito.

Mi si richiuse all'improvviso lo stomaco.

Incollai lo sguardo a terra, ficcandomi disordinatamente fra le file di studenti ignorando il fatto che potessi non trovarmi insieme alla mia classe. O che ci fosse un qualsiasi tipo di ordine in un'occasione come questa, davanti a tanti soldati da cui ero sempre fuggito, ancor prima di finire all'Inferno: la Gilda dell'Assassino ti insegnava che cadere nelle mani delle pattuglie di Skys Hollow era pericoloso quanto rischiare di morire, bisognava evitare di esporsi, ecco perché mantenere la calma era difficile per me. Mi limitai a fissare la punta delle scarpe di chi mi stava vicino, continuando a sentire il brusio e lo scalpiccio delle guardie che vagavano dietro di noi, pronti a rovistare nella Casa di Sapienza, da cima a fondo, alla ricerca di un evaso che era proprio lì di fronte a loro. Ma che cosa ne potevano sapere? Era soltanto una delle altre vittorie di Sfavillo. Almeno per il momento.

«Tornare nuovamente nella mia Casa di Sapienza non vi sarà d'alcun aiuto, state perdendo tempo qui.» esordì ad un certo punto il vocione del preside, che si era finalmente unito al gruppo di professori e al custode, non troppo lontani da noi. Erano tesi anche loro, benché il Signor Custard mantenesse la sua aria arcigna anche di fronte a uomini armati fino ai denti e con nessuna remora nel trapassare a fil di lama chi si mettesse davanti alla loro strada.

«Tsk, c'hai...» Strappa-scoiattoli aveva appena iniziato, ma il suono di un semplice paio di passi lo zittì all'improvviso. Fu come se un'altra atmosfera fosse appena calata nel grande atrio: un profondo, rispettoso, temuto silenzio che si tagliava col coltello.

«Se il nostro intervento per recuperare un pericoloso detenuto di Ender non vi è congeniale, signore, farete bene a preparare un'istanza al Re.» disse l'uomo, con una voce piena e possente, di quelle capaci di riempire una stanza come avevano appena fatto. Una voce che io riconobbi all'istante, con un tremore dentro alle viscere e un brivido sulla schiena. «Ma immaginerete perfettamente come possa prenderla.»

«Temo abbiate ragione, Capitano Kenneth. Tuttavia, come potete vedere...» La conversazione passò in secondo piano, sostituita dal ricordo di un uomo con un cappuccio nero calato sul viso, che era andato ad Ender e mi aveva aspettato fuori dalle caverne con le chiavi delle catene, probabilmente, per uccidermi su ordine del Re. Perché mi ostinavo a non morire. Non era niente di meno che il Capitano della guardia reale, Raven Kenneth. Stavolta non si era cammuffato per cercare di farmi paura: mentre ingoiavo il rospo, sollevai lentamente gli occhi per studiarlo.

Non era esageratamente alto - difficilmente qualcuno lo sarebbe stato quanto lo era Ezrael - ma la statura possente, dalle spalle larghe e muscolose, non lo rendeva tozzo nemmeno un po'. Nel mio campo visivo entrarono prima gli stivali lucidi di neve, poi l'armatura d'argento ben lustrata, le rifiniture floreali dorate e il mantello pesante color bronzo con lo stemma di Darlan sulla schiena. Ed il volto. Per ultima cosa guardai il suo volto.

Fu come fissare dritto negli occhi il protagonista di un vecchio sogno, che non ti ricordavi, almeno non fino al momento esatto in cui il tuo sguardo non si è posato su di lui. Sapevo che avevo appena schiuso la bocca e sapevo anche che il mio stomaco si era appena intrecciato come la coda di un serpente intrappolato in se stesso.

Numi del cielo! Il mio cuore era appena balzato in gola e non sapevo se fosse stato per la paura o per quell'agghiacciante senso di deja-vù che mi portava a trovare attraente un nemico. Non era tanto per l'incarnato color caramello o per i capelli nocciola scarmigliato - ma nel modo giusto - all'altezza della mascella. Né per i muscoli sodi che trasparivano dai pantaloni stretti attorno alle cosce o per le mani grandi e forti ferme sull'elsa della spada scintillante. Doveva essere qualcosa nel suo sguardo.

Occhi dello stesso colore delle foglie secche in autunno, della legna appena tagliata che aspettava di essere arsa nel fuoco, della glassa al cioccolato più scintillante sulle torte di un luculliano banchetto. Calda e bruna terra fertile, da cui germogliavano occhiate dure come l'acciaio. La sua bellezza era sporcata da un rude ma virile velo di barba sparso sul mento e le guance, lo stesso stato in cui vertevano gli altri soldati, perché era chiaro che in un inseguimento così concitato nessuno aveva certo il tempo di radersi. Eppure, avrebbe potuto fare tranquillamente concorrenza alla fama di quel principe che proteggeva. O dell'altro principe a cui dava la caccia... Ovviamente parlavo di me. Ma era di un tipo di bellezza completamente diverso.

Mentre mi perdevo in pensieri futili, gli occhi del Capitano si spostarono lentamente dal Direttore agli studenti, che soppesò severamente uno per uno. Dubitai che potesse mettere gli occhi sulla versione più mediocre di un borghesotto di campagna, cioè sulle fattezze che mi nascondevano, eppure accade. E fu quella la scintilla ad accendere la miccia che causò l'esplosione.

Io lo conoscevo. Non per l'uomo incappucciato che era venuto a prendermi ai cancelli del campo di prigionia per liberarmi o uccidermi. Lo conoscevo per l'uomo che era stato in quella specie di visione orrorifica in cui io perdevo la vita per mano del Re. Quello che gli straeliani avevano chiamato "un possibile futuro". Quello in cui l'avevo baciato e avevo creduto, in qualche modo, di amarlo. La lucidità di quella consapevolezza fu, a tutti gli effetti, la ragione del caos che avvenne dopo, nel momento esatto in cui i nostri sguardi si scontrarono l'uno contro l'altro.

Il sudore mi colava fra le scapole in una sola goccia salata che alla fine si scioglieva sulla pelle, assorbita dalla carne, spazzata poi via dal movimento sciolto delle spalle mentre le muovevo per allentare i muscoli dopo l'allenamento. Roteai la spada platealmente, un'ultima volta, prima di riporla nel fodero al mio fianco: piccole cose che mi piacevano fare davanti a lui per darmi un tono. Ma tanto non mi stava guardando.

«Vieni qui.» disse, mentre attizzava il fuoco davanti al camino nella sala d'addestramento. «O ti ammalerai.» Il che poteva essere vero, se solo non fossi stato più resistente rispetto a qualsiasi altra normale persona: a petto nudo, sudato, con i capelli incollati alla nuca e la brezza invernale che spirava dalle grandi porte ad arco. Mentre mi avvicinavo a lui a passo felpato, egli si tolse la spallina di ferro che sorreggeva la fondina ascellare per il pugnale che teneva in mano, usandolo per aprire la cinghia con una mano sola. Il suono del metallo cozzò contro il pavimento di marmo, risuonando per qualche secondo, l'attimo necessario a non farmi sentire mentre mi lanciavo al suo collo.

Una mano ad agguantargli la spalla, l'altra a puntargli un pugnale contro la giugulare. «Vi ho finalmente beccato, Capitano.» gongolai, premendo la lama contro la carne con un sorrisino vanesio e sardonico. Mi ero stancato dei nostri pareggi. Era troppo bravo per riuscire a perdere contro di me, troppo abile, ed io ero troppo ostinato per lasciar vincere quello che doveva essere un nemico, mai avrei ammesso che le sue abilità fossero migliori delle mie. Cosa non vera, infatti. Era piuttosto un continuo equilibrarsi: dove io usavo la velocità, lui rispondeva con la forza. Come accade ora.

Mi afferrò il polso armato ribaltandomi con un movimento saldo contro la panca su cui sedeva. Inchiodandomi. Il luccichio del camino gli faceva ardere gli occhi nocciola come castagne arrosto. «No, io non credo, Sfavillo.» mi canzonò, pur riuscendo a mantenere un'espressione seriosa. A volte non sapevo come ne fosse capace.

I nostri corpi vicini, sudati e mezzi nudi, illuminati dal chiarore del focolare, all'improvviso mi fecero arrossire. Dovevo sembrare una specie di creatura fatata, con i capelli dorati così avviluppati in spire colorate d'arancio, la pelle rosata, quegli occhi di vetro. E la sfida stampata nelle cortine delle pupille che non era mai sparita da quando l'avevo incontrato.

Lui si accorse di tutto questo. Così sollevai la mano sinistra e con un gesto pieno di grazia cercai di accarezzargli la guancia, senza esagerare. E anche in quel movimento delicato c'era una certa audacia, perché curavo ogni minimo dettaglio in quel gesto. Il modo in cui cadeva la mano, il tempo, lo sfiorare dei polpastrelli. Ogni singolo spigolo del viso, ogni singolo neo nascosto.

Non voleva essere alcun tipo di segnale, eppure lui lo colse lo stesso. Mi afferrò per il viso e mi baciò, con nessun tipo di grazia delicata, nessuna cura, solo un bacio forte che mi premeva contro alla panca e la mano che mi stava tirando contro di lui spingendo con due dita la cinghia della mia cintura verso di sé. Lo sentii mugugnare contro le mie labbra: «E' una nuova tattica per uccidermi?» Lasciai andare piccoli gemiti sordi ma udibili come aliti di vento contro alla sua lingua, che aveva preso nuovamente ad assediare la mia bocca.

Un bacio lunghissimo, paragonabile a qualsiasi unità di misura tranne che infinito, perché a quel bacio ne seguirono molti altri, baci dentro ad altri baci, come in una scatola più grande che ne conteneva di più piccole.

Il velo appena percettibile di barba mi graffiava la pelle ma era un fastidio quasi piacevole, come una coperta di lana che pizzica e al contempo ti tiene al caldo. Con un gesto piuttosto lento della mano - per come fosse costretto ad usarne una sola - mi slacciò la cintura e finalmente fui del tutto nudo, libero di sospirare con la pelle nuda ed umida al contatto con la sua, quando anche lui si liberò dei pantaloni.

Le sue dita scorsero come ghiaccio e fiamme contro le fossette delle mie anche. Il mio respiro divenne più affannoso e voltandomi e sospirando ruzzolai giù dalla panca ritrovandomi nuovamente sotto di lui, ma sul tappeto, proprio al fianco delle fiamme che scoppiettavano accompagnando il suono delle nostre carezze. Il desiderio era insopportabile e mi permeava completamente quando con le mani ferme e sicure lui mi esplorò il petto liscio come cera e la decisa linea a forma di "v" che conduceva verso il basso, contro il mio calore pulsante. Da capogiro.

«Capitano...» sospirai, con le palpebre socchiuse, le ciglia che fremevano come le ali di un uccellino intrappolato fra i rami. E la passione, bruciante, che mi inghiottiva in un sol boccone. «Fallo.»

Lui mi premette le labbra sul collo, in un impeto di passione, e mi sembrò che passasse un'eternità prima di avvertirlo, così caldo e tremendamente solido fra le mie gambe, che premeva contro il cerchio di muscoli. Sussultai, inarcando il bacino.

«Helias...» chiamò.

«...» mentre mi guardava, scandì qualcosa fra le labbra. Un nome. Qualsiasi cosa io avessi appena visto, l'aveva fatto anche lui.

Col cuore in gola e le guance bollenti feci un passo indietro e, in quel momento, mi sentii affiancare da qualcuno. Una figura poco massiccia e di qualche spanna più alta di me, che si chinò per sussurrarmi all'orecchio, proprio mentre Raven Kenneth si avvicinava: «Va' via...» E mi fece rotolare nella mano qualcosa. Un pezzo di carta stropicciata.

Era Tracy. Ebbi il tempo di lanciargli uno sguardo di sfuggita, un'occhiata in cui compresi, dal lampeggiare lucido delle sue iridi neri dietro agli occhiali, che aveva capito benissimo chi io fossi. Non sapevo come, non sapevo quando, ma l'aveva certamente realizzato. Forse non avrei dovuto mettermi così tanto in mostra a "lezione" di scherma. Forse non avrei dovuto suonare una canzone che probabilmente ero l'unico a conoscere visto che avevo avuto, anni prima, degli spartiti riservatissimi in regalo. Qualsiasi fosse stata la ragione, non c'era tempo.

L'unico amico che avevo mai avuto in tutta la mia vita si parò fra me e il Capitano delle guardie reali, iniziando a dire: «Scusate, signor Capitano, credete davvero che il vostro evaso sia qui? Ed è pericoloso? Moriremo tutti?!» Io, intanto, mi ero lentamente voltato di spalle ed in punta di piedi stavo scivolando verso la rampa di scale, sgattaiolando fra gli studenti. Dovevo andarmene di lì il prima possibile: trovare un'uscita secondaria era escluso, ma potevo rompere una finestra e poi cercare di contattare Ezrael fuori, accordandoci su un luogo dove ritrovarci dopo il teletrasporto.

«Toglietevi di mezzo!» esclamò Raven, rude, mentre io mi affrettavo verso i primi gradini. Poi mi bloccai.

In cima alle scale era appena apparso Ezra, affiancato da due guardie che lo tenevano per le braccia. Aveva tentato in qualche modo di camuffarsi da studente, ma la divisa stretta, i capelli color mercurio e gli occhi di glicine non lo avevano certo aiutato. E quella, ovviamente, era la definitiva conferma che serviva a Kenneth per rendersi conto che i fuggitivi erano lì. Ci fu un istante di scioccata, meravigliosa, immobilità generale.

Poi il caos.

Estrassi due pugnali dal retro degli stivali così velocemente che non li videro neppure: uno si ficcò nell'occhio del soldato a destra, l'altro nella gola di quello a sinistra. Caddero come birilli al suolo, rotolando sulle scale fino a me. Fu la perdita di qualche tipo di anonimato, o forse di concentrazione, ma non appena Strappa-scoiattoli urlò: «PRENDETELO!» il mio incantesimo si spezzò con un lampo violaceo che accecò tutti per la frazione di un solo secondo.

Dopo tornai ad essere me stesso: onde di capelli d'oro, occhi di ghiaccio tempestati d'argento e ametista, il sorriso sbarazzino e pericoloso che in questo momento stavo mostrando mentre mi giravo per evitare di dare le spalle a studenti e guardie. Fronteggiandoli tutti: volti scioccati, spaventati, ammirati; quello che avevano provato a deridere e bullizzare, in verità, era un assassino che poteva sventrarli tutti con una facilità disarmante..

Liberati i falcetti di cristallo dal loro nascondiglio - nelle tasche interne della giacca - li sguainai appena in tempo, parandoli davanti alla mia faccia a formare una X che frenò con uno stridore rumoroso la spada del Capitano. Era stato il più veloce degli altri a raggiungermi e, adesso, incombeva sopra di me con tutta la sua incontenibile forza. Avevo le gambe piegate nel tentativo di resistere ad una montagna di muscoli, le braccia tremanti, le dita sbiancate contro l'elsa dei falcetti. Il cristallo sembrava tanto fragile da rompersi, ed invece era solido come il più solido dei diamanti.

«Chi sei veramente, Sfavillo?!» sibilò il bruno dall'altro lato delle lame, solo pochi centimetri e armi affilate a separare i nostri volti. Dietro di lui, talmente tante spade sguainate da farle sembrare il manto di un riccio: alcuni tentavano di calmare la folla sconvolta, altri stavano alle spalle del loro capo in attesa di un segnale. E altri ancora si stavano fiondando verso Ezrael, che invece correva giù per le scale verso di me. Questione di secondi.

Tre secondi, quelli che mi servirono per scandire con la faccia rossa e fra i denti stretti dalla fatica: «Chiedilo al tuo Re!»

Due secondi, quelli che servirono all'albino per superare le guardie a spallate allungando la mano verso di me. «Andiamo!»

Un secondo, quello che servì alla magia per compiersi. Lo straeliano mi attirò a sé, lasciando la spada del Capitano affondare nel vuoto, mentre l'aria crepitava per farci scomparire sotto agli occhi basiti di tutta la Casa di Sapienza. Ma in quell'attimo cruciale mi ricordai del biglietto che mi aveva dato Tracy: nello scompiglio della lotta lo avevo tenuto fra il palmo e l'elsa dell'arma. Ma mi era scivolato.

Adesso era a terra e, l'unica cosa che riuscii a leggere mentre scomparivo, fu:

"Alaister in realtà è m..."

Però le tenebre vinsero, e tutto svanì.

















***

*NDA - L'angolo come sempre nottambulo dell'autrice BOH*
Hola a tutti!
Non voglio imprimere questo angolino (in cui di solito faccio auto-commiserazione per il mio ritardo) di negatività, almeno questa volta non è successo! Spero che tutti stiate bene in questo periodo così concitato, io non mi posso lamentare per fortuna <3 Parliamo invece del capitolo: spero che vi sia piaciuto, come lo spero sempre. Manca poco per entrare nel clou della storia (lo dico tutte le volte, lol) e so che questo capitolo è un po' più breve degli altri, ma penso che se mi fermassi a scrivere capitoli stralunghi tutte le volte, sarò una lentona per sempre! Diciamo che vado a sentimento ahah.

Detto ciò ci vediamo al prossimo capitolo! ^^

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