12. L'Assassino e la musica
«La musica è l'arte che è più vicina alle lacrime e alla memoria»
- Oscar Wilde
Che diavolo sta facendo?
Fu il primo pensiero che la mia mente formulò quando il letto sussultò insieme alla mia anima e al mio corpo, strattonato sotto al suo, la camicia aperta e strappata, bottoni all'aria, cintura slacciata, pantaloni calati fino alle caviglie, polsi intrappolati in una forte catena di dita da cui non sarei riuscito a liberarmi facilmente. La rabbia aleggiava nell'aria come nei momenti prima della tempesta, con l'elettricità che ti faceva rizzare i peli sulle braccia, i capelli sulla nuca. La pelle d'oca si sparse sull'epidermide concentrando brividi elettrici sulla colonna vertebrale, mentre le sue labbra si posavano brutali sul mio collo.
Eppure, non avevano niente di davvero brutale. Mi sorpresi che un uomo come lui, nato e cresciuto nelle caverne, uno che non sapeva nulla della raffinatezza dell'Occidente e che non era neppure umano, ma di una razza a parte, una che conosceva la magia antica piuttosto che la scienza delle grandi città, potesse essere così minuziosamente delicato con i baci. Sulla gola, sulla mascella, sulle guance, sulle labbra, sui lobi, sulle clavicole. Baci che bruciavano e che si infittivano sulla mia carne morbida come semi che desideravano, strepitavano per sbocciare.
Ma la sua delicatezza si fermò lì.
Non mi lasciò mai i polsi, consapevole di quanto fossi pericoloso, e fu grazie a quello che riusciva a tenermi a bada, per il momento. Riuscì ad intrappolare le mie mani usando la stessa camicia che indossavo, visto che era abbottonata stretta intorno ai polsi e avrei potuto liberarmene solo separando asole e bottoni. La seta ora mi si appallottolava intorno alle dita in un ammasso di stoffa che mi imprigionava dietro alla schiena, non avevo abbastanza forza per stracciarla.
«Ezrael! Ho detto di smetterla!» mugugnai, muovendo i fianchi nudi come un'anguilla, con i piedi bloccati dai pantaloni calati che armeggiavano per liberarsene. Eppure, quando i miei occhi di ghiaccio si posarono sul ragazzo smisi immediatamente di lottare: le iridi viola erano di una tonalità notevolmente più scura, come il colore di un livido che doleva al solo sfiorarlo. Pulsavano di astio e tristezza, con un pizzico di disgusto, quasi fossi ciò che odiava di più al mondo. Boccheggiai, colto alla sopravvista, sfarfallando le ciglia e distogliendo velocemente lo sguardo senza riuscire a reggerlo, non per l'imbarazzo della situazione, ma perché sentivo il suo vivo dolore, autentico, reale, come se avessi appena infilato una mano dentro ad una ferita aperta e avessi sentito la sua carne gridare. Non ebbi il tempo di chiedermi perché provava quelle emozioni.
"Mio fratello è un ragazzo strano. Ci sono volte in cui lo guardo e mi sembra di non conoscerlo, sembra che pensi e parli come un'altra persona..." Me lo aveva detto Kleira e iniziai a capire il significato di quelle parole.
Intanto, lo straeliano aveva smesso di guardarmi negli occhi, come se con la mente si fosse allontanato. Le mani grandi e callose si muovevano sul mio corpo, sul petto esile ed asciutto, sul ventre piatto, sulle linee della cresta iliaca evidenziata dal fisico magro e da qualche venatura che spiccava sulla pelle chiara, sull'inguine scevro da ogni pelo. Bastò un tocco deciso per far indurire la mia virilità: arricciai le dita dei piedi, serrai le ciglia, le mani intrappolate nella camicia si avvilupparono intorno alla stoffa graffiandola. «Fermo... Fermati... » brontolai, a bassa voce e denti stretti, soffiando un sospiro che sibilò fra la fenditura delle labbra. Ma lui non arrestò quello che aveva cominciato, preso dalla stessa smania furiosa che lo aveva animato quando mi aveva insultato dentro alle caverne di Astrea più volte. Riuscivo a sentire il sapore amaro della sua frustrazione e il modo in cui la sua mano tremava contro al mio membro per una specie di urgenza mal trattenuta che stava velocemente riversando su di me, con prepotente agitazione, la stessa ora che lo spingeva a slacciarsi i pantaloni.
Chino sopra di me, a carponi, con entrambe le braccia tese ai lati del mio viso, piegò i gomiti in modo da far combaciare i nostri fianchi. Sentii la sua intimità strofinarsi contro la mia ed inarcai spontaneamente la schiena godendo di quel contatto caldo ed intenso, con le palpebre socchiuse, gli incisivi a mordermi il labbro inferiore, il rossore ad imporporarmi le guance. Mosse il bacino in avanti ed indietro, unendo con una mano le virilità che si toccano insieme, tenendosi sollevato con un solo braccio per non schiacciarmi. Sentivo la pressione del suo peso vicino al mio viso, ad incurvare l'angolo del materasso; il suono del suo respiro roco vicino all'orecchio; la morbidezza dei suoi capelli contro la guancia; la ruvidità umida dei nostri genitali che combaciavano e della sua mano che li muoveva rapidamente provocandomi ondate di brividi.
Sentire di nuovo il suono della mia voce che gemeva, mescolata ai mugugni arrochiti di desiderio di un altro uomo, era ancora più strano di aver girato nell'ultimo periodo con una faccia che non era la mia. Il senso di alienazione crebbe mentre affondavo i talloni contro le lenzuola, sentendo tremare i muscoli di polpacci e cosce mentre contraevo gli addominali e mi preparavo ad una scarica di piacere: sentivo non soltanto il mio corpo che godeva, ma anche il suo, in una sensazione tattile che pareva amplificarsi ad ogni movimento.
Il suono della cinghia della cintura che cadeva sul pavimento, liberandomi le caviglie dalla trappola dei pantaloni, si intrecciò con l'impennata che ebbe la mia voce quando raggiunsi l'orgasmo.
Venne qualche minuto dopo di me, probabilmente sollecitato dal mio sguardo appannato dal piacere ma anche disorientato. Eppure lui si riprese subito, sollevandosi a sedere per mostrarmi la mano sporca del nostro seme viscoso. Sbatacchiai le palpebre, rosso. Non era il modo di fare dolce e un po' perverso che aveva Yul, che si compiaceva a gettarmi nell'imbarazzo più puro. Era una maniera per rinfacciarmi una colpa, per dirmi senza usare le parole che ero esattamente quello che pensava che fossi. Un ragazzo facile, sporco. Mi stava punendo per tutto quello che avevo fatto in quegli anni a cui lui era stato costretto ad assistere.
Con movimenti veloci della mano pulita mi aprì le gambe. Era ritornato eretto, come se non vedesse l'ora di compiere la sua effettiva vendetta. La velocità dei miei respiri aumentò vertiginosamente. «Smettila Ezra, smettila, per..» Mi tappò rapidamente la bocca con un lembo del lenzuolo, ficcandomelo fra i denti con brutalità, quasi non gli importasse nulla di quello che stavo per dire. Probabilmente era proprio così. Avvertii le dita premere sulle cosce mentre mi avvicinava a lui e quella presa, quei gesti, mi suscitarono un rapido ed agghiacciante deja-vù. Era lo stesso tocco impietoso dei soldati di Ender, che durante la notte avevano cercato di mettermi le mani addosso più volte. Svegliarsi da un incubo per esserne catapultati davanti ad un altro, ben più tangibile e pericoloso, cercando velocemente la prontezza per reagire: il disgusto mi assalì tutto insieme.
Lo sguardo che gli lanciai fu il peggiore che potei indirizzargli. Era come piantargli un coltello in mezzo agli occhi facendolo solo con un movimento di ciglia e un guizzo feroce delle pupille, fra le palpebre strette come due feritoie pronte a dardeggiare frecce infuocate. Non volevo essere toccato. Non così. Non da lui. L'unica persona che aveva il diritto di toccarmi in quel modo ormai era morta.
In fondo ero un sicario addestrato dal Re degli Assassini, non avevo bisogno delle mani per difendermi. Tutto il fascio di nervi che ero diventato non appena mi aveva sollevato la gamba si tramutò in peso morto, lasciandomi andare completamente. Accolse la cosa con un singolo istante di sorpresa che gli fece allentare il tocco, ed io sfruttai quell'istante: strappai la gamba dalla sua mano e gli piantai una ginocchiata dritta in faccia. Incespicò all'indietro sul letto, mentre mi tiravo a sedere facendo forza sugli addominali: ruotai le braccia legate con uno strattone vigoroso in avanti, sentendo le spalle dolere, ma finalmente avevo le mani davanti al petto, nonostante fossero bloccate. Intrecciai le dita attraverso la seta e con un pugno di stoffa mi lanciai contro di lui. Bastò un furioso manorovescio dritto alla testa, che non si aspettava dopo il colpo al naso: cozzò contro il muro e poi cadde ciondolando sul materasso.
Restai per qualche secondo ad osservare la scena, con un nodo che mi azzannava lo stomaco. Dopo qualche attimo mi alzai stancamente, libero di sistemarmi la camicia: i polsini mi avevano segnato la pelle di viola e sapevo che il livido non sarebbe sparito presto, considerando che il mio corpo guariva velocemente solo quando le ferite erano più gravi. Chiusi i bottoni sul petto senza accorgermi di averne saltato qualcuno, corsi a mettermi i pantaloni, le scarpe. Osservando il corpo svenuto del mio guardano sopra al copriletto mentre mi sistemavo la cintura, sibilai soltanto: «Stronzo.» Ed uscii sbattendo la porta.
Avevo lacrime di rabbia ed umiliazione raccolte agli angoli degli occhi, miste allo sgomento che mi faceva sussultare il cuore, ma non mi dimenticai di girare la perla della trasmutazione che tenevo al braccialetto. Camminavo per i corridoi come un'anima in pena, con corti capelli inspidi sparati da tutte le parti, labbra pallide ed esangui che bisbigliavano maledizioni e gli occhi scuri che non guardavano cosa avevano di fronte a sé con testarda fierezza, ma fissavano i pavimento, con un intoccabile nervosismo. Guai a chi mi avesse avuto davanti in quel momento. Desideravo solo avere fra le mani quel miserabile figlio di papà che aveva tentato di mettermi le mani addosso: gliel'avrei fatta vedere. Oh, se gliel'avrei fatta vedere! Quello Scott-qualcosa era ufficialmente sulla mia lista nera. I problemi erano iniziati anche per colpa sua.
Ma sapevo che quella schifosa nullità non c'entrava nulla con tutta questa storia. Ezrael era stato gentile con me solo quando ero sull'orlo della pazzia, perché non aveva avuto scelta. Appena avevo ritrovato la lucidità, non aveva fatto altro che disprezzarmi. Mi baciava, poi mi insultava e mi attaccava più forte di prima.
Nel mio rabbioso incedere a pugni chiusi e scarpe sbattute sul pavimento superai diversi alunni trafelati, che mi spintonarono per la fretta correndo giù dalle scale a chiocciola dai dormitori verso le aule. La pausa pranzo si era conclusa da un bel pezzo. Non ricordavo se nel mio programma ci fossero lezioni pomeridiane, oggi, e non m'interessava: non avrei frequentato altre spiegazioni noiose, nessun calcolo strano, nessuna miriade di puntini colorati a riempire una pagina. Al diavolo questa scuola. Ero pronto a precipitarmi dentro alla biblioteca per rinfrancare il mio animo fra le pagine di un libro coinvolgente, magari una storia fantastiche di avventure che andavano a finire bene. Di amori che non venivano ostacolati e poi recisi. Di combattimenti che venivano vinti e antagonisti che dal loro trespolo di malignità venivano estirpati da qualcosa di migliore: la felicità, il bene. Una cosa che a Darlan non esisteva.
Ma poi trovai qualcosa di meglio.
Era un salone d'intrattenimento. Ben oltre le aule, la mensa e altre stanze adibite allo studio individuale, dove studenti e scrivani erano chini su tomi polverosi, ognuno preso dai propri pensieri e approfondimenti. La stanza aveva volte altissime, lampadari di cristallo lucidi, qualche scacchiera di marmo ed ebano, un tavolo da biliardo. Un posto completamente deserto, talmente silenzioso che sembrava il mondo trattenesse il respiro. Nulla di tutto quello suscitava il mio interesse.
Finché non vidi la coda sinuosa di un pianoforte.
Una volta suonavo, amavo suonare, mi piaceva l'armonia che creava la musica, il modo in cui riusciva a cullarmi, e in cui rendeva l'impossibile, possibile. In cui tutto diventava splendido e magico. Con cautela, come di chi si avvicina ad un animale raro e stupendo e teme di spaventarlo, mi avvicinai allo strumento. Tirai verso di me la poltroncina scura, trasalendo al rumore che aveva emesso il pavimento a quel gesto. Sollevai il pesante coperchio, saggiai i pedali, spingendo i piedi. Osservai i lisci tasti d'avorio, poi quelli neri, simili ad un sorriso sdentato.
Ero un ottimo pianista, un tempo. Superlativo, tanto che Alaister Noir mi chiedeva di suonare ogni volta che era di buon umore e non c'erano missioni ad oberarmi di lavoro.
Chissà se sapeva che non ero più ad Ender. Avrebbe ancora cercato di liberarmi, se lo avesse saputo? Ancora non osavo chiedermi chi avesse potuto tradirmi. Era stato tutto così confuso e indistinto, il giorno della mia cattura: in un solo giorno, avevo perso Yul e la libertà, e anche una parte di me stesso.
Yul. Che cosa avrebbe detto di tutto quello? Se fosse stato ancora vivo, quando ero stato imprigionato mi avrebbe fatto uscire dalle prigioni reali ancor prima che il Re venisse a sapere della mia cattura. Ma, come me, anche lui era stato tradito. Era stato raggirato e poi ucciso, ucciso per proteggermi. Talvolta la sua assenza era così dolorosa da togliermi il respiro. Rintoccai una nota bassa. Era profonda e vibrante, piena di tristezza e rabbia.
Con una sola mano, suonai lievemente una semplice e delicata melodia sulle note alte. Echi, frammenti di ricordi, emergevano dal vuoto che avevo in testa. Nel silenzio assoluto di quel salone, quella musica leggera sembrava assordante.
Mossi la mano destra su diesis, bemolle. Conoscevo quella canzone appena accennata, quelle note all'inizio dolci, poi sempre più veloci, sempre più gloriose e allegre. Era quella musica che avevo visto con Yul, quegli spariti che lui mi aveva regalato dopo essermi commosso davanti allo stesso concerto che amavo vedere a teatro, con mia madre.
Suonai un accordo, poi un altro, aggiunsi qualche nota argentina con la mano destra, premetti il pedale, e poi via. Dalle dita iniziarono a sgorgare emozioni, suoni, note, dapprima incerte, poi sempre più limpide via via che i ricordi prendevano il sopravvento.
Era un pezzo triste e allo stesso tempo beato, dolce ed insieme eroico, era un canto di trionfo, ed io lo trasformai ancora, in qualcosa di nuovo e puro. Mi sorpresi che le mani non l'avessero dimenticato, che da qualche parte nella mia mente, dopo un anno di sofferenza e schiavitù, la musica fosse ancora viva e palpitante in me. Che da qualche parte, fra le note, ci fosse ancora Yul, ancora vivo, ancora innamorato, ancora speranzoso per quel futuro che non avrebbe mai avuto. Le lacrime iniziarono a scorrere e, in quegli istanti, pur senza immaginare che qualcuno stesse ascoltando, mi dimenticai del tempo che scorreva passando da una musica ad un'altra, dando armonia a quelle vecchie ferite ancora aperte, inesprimibili, suonando e suonando ancora una musica che mi perdonava tutto il sangue che avevo versato e mi salvava da tutto il dolore che mi portavo nel cuore.
***
Le giornate erano passate in fretta e il candore della neve si era sciolto appena, non abbastanza da rendere i boschi sicuri e praticabili. La mia condotta poco ligia non aveva fatto piacere ai maestri e aveva fatto gongolare più di un compagno di classe, ma Tracy aveva prontamente messo una buona parola per me. Probabilmente mi proteggeva perché gli avevo salvato la pelle il mio primo giorno, ma anche perché aveva un cuore sinceramente gentile. A volte mi chiedevo quale fosse la sua storia, perché un tipo come lui fosse diventato un assassino, che era tutto fuorché quel che sembrava, tutto tranne ciò che sapeva fare.
Ogni tanto, quando camminavo per i corridoi, riempivo il piatto in mensa o bazzicavo fra gli scaffali della Biblioteca, perfino quando me ne stavo in silenzio curvo sulla mia porzione di banco, mi sentivo osservato. Sapevo che il rappresentante di classe e la sua cricca mi stavano tenendo particolarmente d'occhio. La comparsa di Ezrael davanti a Scott Adrerick aveva suscitato parecchi pettegolezzi circa la mia reputazione e quello che poteva esserci fra me e il mio "educatore". Tutto, perché avevo rifiutato le molestie di quel maledetto figlio di papà. Ogni volta che mi sentivo i loro sguardi appiccicati alla nuca, il mio istinto d'assassino si risvegliava. Non mi serviva neanche quello per capire che stavano covando qualche malsana idea, qualcosa che, sinceramente... Non vedevo l'ora di affrontare. Ero stanco dell'immobilità della Casa di Sapienza, desideravo davvero che accadesse qualcosa in grado di distrarmi dalla bolla soporifera delle lezioni e, al tempo stesso, dal clima di tensione che si stava sempre più amplificando fra me e il mio guardiano.
Quanto a lui, non era un capitolo che volevo affrontare. Ci evitavamo talmente bene che riuscivamo a non incrociarci nemmeno la notte. Non avevo idea di dove dormisse, ma la sola ed unica volta che l'avevo incontrato, in un momento di pausa fra una lezione e l'altra, mi ero limitato a chiedergli se aveva trovato qualcosa di utile in biblioteca. Non mi aveva neanche guardato negli occhi quando mi degnò di una risposta. Una che mi aveva spiazzato.
"No, maestà." Maestà. In altre circostanze, in altri momenti, quel titolo onorifico mi avrebbe fatto saltellare impettito come un pavone, ma nel contesto di Ezra pareva un ottimo modo per insultarmi. Per mettere in chiaro la distanza che c'era fra di noi, la diffidenza e differenza; una gerarchia invisibile ed insuperabile che si era creata all'improvviso, in virtù del fatto che si fosse ricordato che ero il suo principe. Sicuramente non mi avrebbe più messo le mani addosso, ma dubitai che fosse per il suo finto servilismo. Si doveva essere ricordato che ero anche un assassino, oltre che un membro reale di un popolo che nella storia non esisteva più.
Ogni tanto gettavo nuovi sguardi alla finestra per studiare i centimetri di neve: notte dopo notte l'inverno diventava più tollerabile, il candido panorama appariva sempre meno ghiacciato, ma mai abbastanza per decidere che fosse la giornata giusta per rimettersi in cammino. L'attesa mi logorava, ogni giorno appariva una perdita di tempo che mi allontanava dall'obiettivo. Almeno, potei concentrare i miei sforzi sul cercare indizi fra gli antichi tomi della Casa della Sapienza. Mi ero appuntato la profezia - che avevo imparato a memoria prima di lasciare i cunicoli di Astrea - e ne avevo sottolineato passaggi salienti, riempiendola di osservazioni.
"Solo il figlio della Corona (io?) il Signore dell'Oltretomba (il Redivivo) potrà ingannare, se dentro al suo regno riuscirà a scivolare, (bisogna cercare la porta dell'Oltretomba nei Regni del Caos, ma come? Dove?)
La pelle del caos sventrare, (dovrei scorticare qualcuno?)
La testa del buio afferrare, (da quando il buio è tangibile?)
La piuma del capro strappare, (un capro dovrebbe avere una pelliccia, perché si parla di piume?)
La mela delle fiamme salvare,
La maschera di sangue svelare,
E sulle unghie, (che significa sulle unghie? Come si dovrebbe impugnare una spada? Non sarà mica grande quanto una limetta!) la spada della sorella impugnare, (si riferisce alla leggenda di Qiana che ha creato la spada in quanto sorella di Yakov, non ci sono dubbi)
Finché dopo il nono fiume il giusto sacrificio dovrà pagare (qualcuno dovrà morire?) e dai vivi tornare per trionfare."
Riflettendoci avevo solo pulito la profezia dagli orpelli esagerati, realizzando che dovevo trovare la pelle e la testa di qualcuno - dubitavo della stessa persona -, una piuma, una mela e una maschera. I primi due elementi presagivano qualcosa di macabro, gli altri tre invece erano talmente generici che la ricerca mi avrebbe fatto impazzire. Niente era abbastanza specifico da poterlo cercare fra gli scaffali della biblioteca, ma almeno potevo provare ad informarmi sui Territori Sconosciuti o sulle porte dell'Oltretomba.
Passarono giorni, ma gli studi non portavano risultati: sospettai che i libri che cercavo fossero proprio quelli che il Re aveva fatto bruciare, tuttavia non ne possedevo la certezza. Ogni tanto compariva un bibliotecario basso e tarchiato con un'aria piena di disgusto per chi interrompeva le sue letture chiedendo informazioni, ma non osavo fare domande che avrebbero destato sospetti e attirato l'attenzione. Almeno su quello dovevo mantenere un profilo basso.
Sovvertii invece il volere del mio guardiano, sfruttando la sua momentanea sparizione, quando venne la resa dei conti che aspettavo. Era la fine del mese ormai e, a quanto avevo saputo dalle voci di corridoio e da Tracy, oggi si sarebbe finalmente svolto l'allenamento di scherma mensile nella grande palestra della scuola. Più che un allenamento, mi aveva spiegato, si trattava di un pareggio di conti, un'umiliazione pubblica ai danni degli sfortunati che non stavano per niente simpatici a chi comandava fra il corpo studentesco della Casa di Sapienza. Facevo fatica a trattenere un ghigno malevolo: ci sarebbe stata un'umiliazione in effetti, ma non si trattava della mia.
Quella deliziosa consapevolezza mi scivolava fra lingua e palato col sapore della colazione mattutina, dei caldi croissant alla ciliegia e della fredda vendetta. Ero tornato da Ender anche per farla pagare ai nobili ignoranti che credevano di stare nel giusto, con la loro politica dittatoriale, piena di soprusi e di violenze gratuite. Era buffo come il rappresentante stesse cercando di riprodurre in piccolo il sistema dittatoriale di Darlan dentro alla scuola. Un vero peccato che fossi arrivato io, con tutti i buoni propositi per agitare un tumulto portando tempesta.
Continuai a camminare in fila indiana col resto della classe verso la palestra, che assomigliava più ad una grande serra con una struttura in vetro spesso, abbastanza ampia da lasciar pensare che ci fosse lo spazio di manovra necessario da non causare incidenti sbattendo contro alle pareti, spaccandole e causandosi gravi ferite. Saltuariamente piante a foglia larga si alternavano negli angoli della sala, ma nel complesso era un luogo semplice e privo di fronzoli, il pavimento era ruvido per non scivolare e segnato da linee di pittura che facevano intuire dove due avversari dovevano posizionarsi per combattere di scherma. Il tutto si vedeva ancor prima di entrare grazie ai muro di vetro trasparente.
Aprivano il gruppo i rappresentanti delle varie classi, facendo le veci dei professori, o almeno così sostenevano. Il mio istinto d'assassino aveva capito subito che c'era puzza di menzogna. L'allenamento era pilotato dagli studenti e, se anche il preside o i maestri lo sospettavano, evidentemente non avevano abbastanza potere per opporsi senza che sembrasse un oltraggio alla famiglia dello studente.
Mentre proseguivo sentii qualcuno sussurrarmi alle spalle: «Oggi ci divertiamo!» o «Vedrai che ti aspetta, raccomandato campagnolo!» tutte minacce davanti a cui incurvavo le spalle, impaurito, come un cucciolo con la coda fra le gambe in cerca della sicurezza della calda cuccia sotto alla pioggia. Ma la pioggia ero io. Ed ero tempesta, ed uragano, e terremoto, e molte altre cose ancora per questo postaccio.
«No.. No.. basta che non sia con Scott... » bofonchiai mentre solcavo l'ingresso, con una voce smozzicata che imitava un bisbiglio ma non lo era per niente. Tracy mi lanciava occhiate interrogative, come se intuisse che stavo esagerando e che era una pessima idea alzare la voce in quel modo. Ma il piano era proprio quello e, a giudicare dalle gomitate che davano all'odioso rossiccio allampanato, stava funzionando a meraviglia.
Mi morsi le labbra, frenando un risolino maligno che cercava di sgorgarmi sulle labbra, mentre uno dei rappresentanti iniziava ad assegnare da una rastrelliera fioretti che brillavano d'argento. La luce del sole che filtrava dentro alla serra rendeva tutto più luminoso, facendo scintillare i bottoni dei panciotti oltre le giacche, che uno degli sgherri più deboli del gruppo stava raccogliendo da tutti gli alunni lasciandoli in camicia, donando libertà di manovra. O rendendo più facile picchiarli.
Quando ricevetti il fioretto, lo ritrovai più leggero dei miei soliti pugnali, bastava muovere leggermente il polso per sentir ondeggiare l'arma fino alla punta tondeggiante - del resto non era affilata, non era fatta per combattere o uccidere, era un accessorio sportivo, più che altro - eppure se usata in determinati modi era possibile far male anche con quella. La sua flessibilità la rendeva simile ad una frusta, ma col bonus di essere più rigida e di un materiale ben più resistente, che avrebbe lasciato un segno sulla carne alla prima stoccata. Essendo uno degli assassini di Alaister, conoscevo tutto ciò che occorreva sapere su ogni tipo di arma, dalle più semplici ed innocue a quelle più temibili. La semplicità a volte poteva sorprendere. Io stesso usavo sempre i soliti pugnali, discreti abbastanza da passare inosservati - come lo facevano ora - dentro alle maniche della camicia.
Feci roteare l'arma dentro alla mano e, per non destare sospetti, la lasciai cadere goffamente a terra. Sobbalzai, biascicando lamenti imbarazzati mentre mi chinavo a raccoglierla con poca grazia. «Patetico!» mi apostrofò qualcuno fra la folla, ridendo e facendo ridere gli altri, indicandomi. Se volevano uno zimbello da prendere in giro, mi sarei prestato per loro... Non vedevo l'ora di ridere anch'io, di loro.
Mentre mi rimettevo in piedi spolverandomi pantaloni e camicia, Tracy si avvicinò sussurrandomi all'orecchio: «E' meglio se ci allontaniamo se non vogliamo problemi, qui sta per accadere qualcosa di brutto. »
«Ma no, è un'attività consigliata da tutti i professori! Ho già pessimi voti, se evitassi l'ennesima lezione...» feci il finto tonto con voce lamentosa, mentre mi spazzolavo il frangettone dalla fronte, che calava fastidiosamente sugli occhi.
Proprio ascoltando il mio commento, uno degli alunni più giovani parlò verso il gruppo. «Mi scusi?» Alzò la mano, cercando la loro attenzione. «I professori ne sono al corrente?» Ci fu un attimo di silenzio, in cui lo sguardo duro del rappresentate della mia classe dardeggiò fino al malaugurato tipo che aveva fatto la domanda. Poi, uno dei collaboratori di Scott-qualcosa si avvicinò per tirargli un ceffone talmente forte che quello cadde carponi a terra, proprio vicino ai miei piedi, tenendosi la guancia ad occhi sgranati. Anche il resto della folla era stupita, ma nemmeno troppo, almeno non chi aveva l'aria di essere arrivato oltre quello stesso anno accademico. Intanto, il figlio di papà stava facendo ribalzare il fioretto contro al palmo della mano, osservando divertito mentre i suoi amichetti prendevano a calci il povero ragazzo che aveva osato mettere in discussione il loro potere decisionale.
«Allora... Altre domande?» domandò con un sorriso tranquillo, scandagliando le matricole. Nessuno fiatò. Mi guardai intorno, osservando con aria timida e remissiva la folla. Tracy, al mio fianco, mi stava toccando il braccio: scuoteva impercettibilmente il capo. Non capivo come, ma aveva intuito che qualcosa mi frullava nella testa, qualcosa che portava guai.
Sfavillo adorava i guai.
Scott-qualcosa aprì le labbra per aggiungere altro, ma non fece in tempo. «Io ho da chiedere qualcosa.»
Feci un passo avanti, a capo chino, mentre un ghigno incominciava a farsi strada sul mio volto quasi potessi percepire il suo sgomento per averlo interrotto, nonostante la dimostrazione di poco prima, proprio davanti a me. Alza il capo e gli sorrisi, candido. Oh, col mio vero volto, i miei capelli avrebbero brillato al sole come oro e le mie labbra carnose sarebbero sembrate un frutto maturo! «Quando si inizia?»
Il mio amico artista si irrigidì, come lo fecero anche i vari rappresentanti, voltandosi a guardare Scott sorpresi dalla mia stupidità o dal mio masochismo. Lui abbozzò una risatina, appoggiando la schiena contro alla parete di vetro, a braccia incrociate ma un sopracciglio inarcato verso il basso, innervosito, come se tutto quest'improvviso coraggio non gli piacesse.
Uno dei suoi amici si mosse verso di me palesando un'aria ilare, con una smorfia superiore e malevola, pronto a cogliere l'occasione per darmele di santa ragione. Così iniziò: «Se riuscirai a toccarmi, avrai...»
Un botto tremendo arrestò bruscamente la frase, lasciandolo di sasso, immobile, come tutti gli altri, che stavano osservando congelati l'elsa del fioretto che tintinnava contro il vetro, conficcato nella parete dove io lo avevo lanciato, proprio accanto alla faccia di Scott, scagliato così rapidamente che nessuno se n'era accorto. Una serie di crepe andavano a diramarsi lì dove si era infilata l'arma, aprendo un buco nel muro della palestra.
«Oh.» sospirai, deluso, mentre mi raddrizzavo, ancora col braccio teso dopo aver lanciato il fioretto come una specie di giavellotto. «Ti ho mancato.» Aggrottai la fronte, perplesso. «Ma immagino che la scherma funzioni in modo un po' diverso...» sospirai. «Lasciate che ci riprovi!» Acciuffai velocemente uno stocco dalle mani di chi mi stava più vicino, quest'ultimo troppo sbigottito per non assecondarmi. Roteai l'arma intorno al mio corpo e una sferzata colpì la faccia di uno dei collaboratori del rappresentante, che sapevo perfettamente fosse alle mie spalle. Cadde a terra coprendosi gli occhi con le mani, imprecando e gemendo di dolore.
«Ops, colpa mia.» mi massaggiai i polsi, aggrottando la fronte senza celare un'evidente traccia di esasperazione. «Eri nel mio campo d'azione, perché te ne stavi lì impalato?»
Il gruppo di bulli fecero tutti insieme un passo in avanti, atterriti ma anche molto arrabbiati. Solo che io stavo guardando il rappresentante e il buco che avevo fatto nel muro, proprio vicino alla sua testa, dove l'elsa del fioretto traballava ancora. Aveva un colorito terreo, lui, i denti digrignati e le palpebre strette a figurare uno sguardo torvo. «Colpitelo!» ringhiò agli altri, mentre ancora ci guardavamo negli occhi. Doveva essere molto infelice dopo aver capito che la sua vendetta per l'orgoglio che avevo ferito, rifiutandolo, non sarebbe stata poi così semplice da compiere.
Alla richiesta del loro capo caricarono contro di me insieme, accerchiandomi: erano una decina, ma tutti terribilmente goffi. Il numero stesso dei loro corpi li ostacolava, visto com'erano impacciati. Si scontravano l'uno contro l'altro, ma l'importante per loro era riuscire ad arrivare a me. Un compito tutto fuorché semplice.
Roteai in mezzo alla folla di attaccanti come una trottola, ora colpendo la tempia di uno con l'elsa, ora sferzando la nuca dell'altro con un colpo di punta. Cadevano a terra come sacchi di patate, molti lamentandosi dal dolore, altri semplicemente tramortiti, a crearmi intorno un tappeto di immondezzaio umano. I restanti avevano smesso di fingere con i fioretti ed erano passati a calci e pugni, che io schivai abbassando la testa, saltando, scartando a destra e poi sinistra. Il contrattacco era così semplice: bastava un dito in un occhio per farli gridare, una pedata contro il cavallo dei pantaloni. Sapevo che i miei movimenti dovevano essere risultati troppo veloci, troppo puliti, troppo eleganti; sapevo che apparivo come tutt'altro che un nobile di provincia e che un sorriso colmo di gioia sfrenata doveva essere comparso sulla mia faccia. Mi sentivo un po' più me stesso come non lo ero da tempo, perché tutti gli occhi erano finalmente canalizzati sopra di me ed io assaporavo ogni attenzione carica di ammirata, temuta sorpresa.
Quando volsi lo sguardo al rappresentante, mi accorsi che non c'era più. Il codardo se l'era data a gambe, e non solo, mi resi conto: aveva cambiato la situazione a suo favore. Questo perché le porte della palestra si spalancarono e lui mi additò come fossi un criminale - cosa che ero, effettivamente -, parlottando concitato verso i professori che lo avevano accompagnato.
«E' all'improvviso impazzito!» strillò, mentre io mi voltavo a fissare lui e i maestri spolverandomi le mani da uno sporco invisibile, con aria soddisfatta. Non importava che fossi stato colto in flagrante, né aveva senso che inscenassi una recita in cui mi fingevo innocente, visto che ero accerchiato da studenti svenuti e malmenati.
«Seguiteci immediatamente nell'ufficio del Direttore, signor Fleming.» esclamò il governante della scuola che mi aveva aperto le porte della Casa della Sapienza quando ero arrivato, il tizio burbero col bastone e il naso a forma di becco da pappagallo. Mi ficcai le mani in tasca, superai il tappeto umano senza curarmi se avessi "per sbaglio" calpestato qualcuno nel percorso e poi, a mento alto e un sorriso sadico, proprio nell'istante in cui passavo oltre Scott-qualcosa dissi, a voce abbastanza alta perché gli altri potessero sentirlo, una parola che cambiò la sua espressione facciale.
«Coniglio.»
E la palestra si richiuse alle mie spalle recidendo il collegamento fra la mia schiena e la moltitudine di occhi che fino a quel momento mi stavano scandagliando con shock, Tracy compreso.
***
«Mi stavo solo proteggendo!» piagnucolai, lamentoso, mentre percorrevamo l'ennesimo corridoio, l'ennesima scala, poi dritti verso la presidenza. Proseguendo busti e ritratti mi squadravano autoritari, con sguardi accusatori pieni di biasimo, tanto quanto quello dei professori che non erano molto impressionati dalla mia recita. Purtroppo, con la mia faccia l'effetto sarebbe stato più efficace. «Quei ragazzi sono così crudeli!» continuai, sospirando sconsolato, fingendo di asciugarmi una lacrimuccia di paura che mi si era formata all'angolo degli occhi. Nessuno mi porse un fazzoletto.
Ci fermammo davanti all'ingresso dell'ufficio, il governante batté le nocche contro l'anta di legno pesante un paio di volte, seccamente, e il vocione del Direttore ci invitò ad entrare. Non avevo nemmeno finito di infilare entrambi i piedi all'interno, che lui mi puntò con una mezza smorfia e gli occhi delusi, quasi si aspettasse qualcosa di sorprendente in un dozzinale nobile di provincia che era si era iscritto in ritardo a scuola e, finalmente, si fosse accorto che non ci poteva esser nulla di buono in me.
«Le mie lezioni di etica non vi sono servite a niente, signor Fleming?»
Aprii la bocca per commentare e continuare la recita, eppure un fracasso lontano - nitriti di cavalli, scalpiccii di scarpe, tintinnii metallici - mi spinse a tenere la bocca chiusa. Aggrottai la fronte, assistendo all'austero signore che si alzava da dietro alla scrivania per gettare uno sguardo scocciato verso la finestra, come se sapesse chi o cosa era appena arrivato.
«Signor Custard, vi prego di andare a suonare le campane.» asserì verso il guardiano, che si girò di fretta in preda ad una strana e nuova agitazione che ancora non gli avevo mai visto dentro agli occhi. «Voialtri, andate a raccogliervi nella sala grande come il resto del corpo scolastico.» Mosse le mani liquidando i professori che mi avevano accompagnato ed erano ancora fermi sulla soglia. La mia confusione era ancora più evidente.
«Perché, cosa sta succedendo?»
Il Direttore sembrò ricordarsi solo allora che quello era il mio primo mese nella Casa di Sapienza. Così disse, con un'espressione contrita: «Sono i soldati di Darlan con le guardie di Ender. Vengono spesso ad assicurarsi che non ci sia il loro fuggitivo.» Si mise a sedere nuovamente, riassettando delle carte e cercandone altre, che evidentemente gli servivano ad accogliere i nuovi arrivati. «Com'è che si chiamava...»
Con un'espressione di ghiaccio, sussurrai: «Sfavillo.» Che ora si trovava in un mare di guai.
***
*NDA - Angolo dell'arresa di un'autrice veramente terribile*
Hola!
Ok ok, mangiatemi a colazione, mi immolo volentieri! Che poi, fare così tanto è anche controproducente visto che perdo molti lettori, but... La scrittura è una passione, è se l'ispirazione non arriva non ci posso fare niente ç_ç
Quanto al capitolo, spero che vi sia piaciuto! L'ho scritto fra ieri e oggi senza nemmeno correggerlo, quindi come al solito prego che non ci siano strafalcioni e che vi sia piaciuto. Stanno succedendo tante cose e ne succederanno ancora di più, praticamente siamo solo all'inizio... Ah, come farò, non voglio finire questa storia fra cinque anni xD devo diventare più veloce u_u e comunque google drive mi sta semplificando tantissimo la vita!
Ci rivedremo presto con gli aggiornamenti cari <3
Alla prossima ~
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