11. L'Assassino e la classe
«Le menti creative riescono a sopravvivere anche ai peggiori sistemi educativi»
- Anna Freud
Se c'era qualcosa che odiavo era iniziare una giornata di studio incontrando per il corridoio quell'idiota di Yul. Se due persone si piacevano, si impegnavano a fondo per portare avanti il loro rapporto. Se quelle due persone invece si odiavano, ci avrebbero impiegato la stessa forza per detestarsi, come io facevo con lui.
Sapevo di non dovermi rovinare così presto la giornata, ma lui contravveniva ad ogni mia regola naturale per stravolgerla e peggiorarla. L'idiota era quattro anni più avanti a me, perciò aveva concluso i suoi studi di base presso gli insegnanti privati che Alaister ci aveva obbligato a frequentare finché saremmo stati sotto la sua protezione. Voleva degli assassini, non dei muli, diceva.
Ogni volta passare metà mattina davanti ad una scrivania a farmi riempire le orecchie di parole vuote e le pagine di inchiostro inutile era una sofferenza e il rosso non perdeva occasione, quando mi incontrava, per sbeffeggiarmi decantando la sua libertà dai doveri di studente, o la sua cultura aulica – ma dove? – in confronto a me, che ancora dovevo imparare. Una volta come oggi.
Lo incrociai mentre camminavo verso la saletta designata come luogo di studio fra me e il mio maestro di grammatica ed eloquenza, con indosso una camicia sudata semi-trasparente, ravvivandosi all'indietro i capelli umidi a causa dell'allenamento, da cui si era appena preso una pausa. Il solo guardare la sua faccia mi faceva venire voglia di prenderlo a pugni, ma fissare i suoi muscoli torniti evidenti attraverso il cotone era anche peggio. Il destino era sleale. Avevo quindici anni e lui diciannove: il distacco fra noi era chiarissimo.
«Tské.» brontolai, incurvando le labbra verso il basso, costretto ad incrociare il mio cammino col suo, visto che io venivo dal corridoio delle camere da letto e lui ci andava per rinfrescarsi. «Vederti di mattina così presto mi fa incominciare male la giornata.»
«Quella è la mia battuta!» esclamò, con un ghigno sarcastico e gli occhi pieni di divertimento, prima di continuare. «Ma non sarebbe la verità.» Alzò le spalle ampie piantandosi le mani sui fianchi. «Se riesco a prenderti in giro ogni mattina allora saprò che la giornata andrà magnificamente.»
Che bastardo. «Ti faccio vedere io come ti andrà la giornata!» sibilai a denti stretti, preparandomi a sferrargli un bel calcio rotante in mezzo ai denti, una tecnica che avevo appreso solo di recente e che, appunto, avevo bisogno di allenare il più possibile.
Per sua fortuna, il mio insegnante uscì dalla porticina della nostra zona di studio e ci richiamò all'attenzione, usando il cognome falso che conosceva. «Ellis! Pevensie! State litigando di nuovo?!» rimproverò, senza avere paura del fatto che fossimo due assassini e potessimo reagire. Tutti i contatti di Alaister, dai più innocenti ai più loschi, sembravano non preoccuparsi di chi fossimo. «Se volete causare problemi andate a picchiarvi nella sala allenamenti!» Non aveva tutti i torti. «Ma adesso è l'ora della lezione.» Il vecchio brizzolato mi fece un cenno.
«Ptf... In palestra schiaccerò la tua faccia sotto il mio stivale» borbottai, stringendo forte i libri al petto per andarmene, ma lui mi fermò appena in tempo afferrandomi per l'avambraccio: inclinato in avanti, mi schioccò un bacio sulla guancia, ben sapendo che avrebbe scatenato le mie furie.
«Buono studio.» sussurrò, vicino alla mia pelle arrossata dalla rabbia e dall'umiliazione. «E mi raccomando, non ti addormentare!» ghignò, prima di spingermi con un colpetto dentro alla stanza, chiudendo la porta.
Avrei tanto voluto che Yul fosse con me per augurarmi con la sua beffarda verve di non addormentarmi sui libri di studio. Sembrava una possibilità talmente remota da far parte di un'altra vita, ma era solo un vecchio ricordo dimenticato di cinque anni prima, salito a galla grazie al fatto che oggi fosse il mio primo giorno di scuola.
Non la si poteva realmente chiamare tale, vista la fama rinomata e la meccanica totalmente diversa rispetto agli usi e costumi della società di Darlan. Niente solitarie lezioni private, prenotando i maestri più colti con grande anticipo, anche diversi anni prima che un figlio entrasse nell'età giusta per incominciare a studiare. Certo, c'erano anche delle scuole, ma erano piccoli centri aperti per i più poveri, dove governanti senza nome e senza fama distribuivano il loro modesto sapere a chi possedeva qualche spicciolo. E comunque il Re non approvava che la "feccia della società" si costruisse una propria cultura.
Questa invece era una Casa di Sapienza, un luogo di grande sapere e raffinatezza, dove studenti di elevato rango sociale ed età compresa fra i diciotto e i trenta imparavano a diventare uomini istruiti, di legge, di filosofia, di scienza, di arte o di ingegno. Tutte categorie in cui io non avevo assolutamente niente a che fare. Se uccidere fosse stata una materia, allora sarei stato il primo della classe... Ma purtroppo, la mia vera identità da assassino doveva restare nascosta nelle parti più profonde di me.
Mi guardai allo specchio con un senso di alienazione, fissandomi il viso come se fossi un estraneo nel mio corpo. Lineamenti morbidi e bocca rosata, viso a forma di cuore circondato da un'aureola di oro fuso. Occhi tempestati di acquamarina, ametista e argento, orlati da schegge di sole intorno alle palpebre. Ero il criminale più ricercato sulla faccia del pianeta, eppure ero anche il principe dello stesso regno che aveva ucciso le uniche persone che amavo, condannandomi ad una morte lenta e dolorosa.
Anni passati ad ammazzare schiere di nobili corrotti senza sapere di essere il loro principe. E poi, dall'altra parte della medaglia, ero anche il principe e il salvatore di un popolo che era stato oppresso nel sangue, i sopravvissuti costretti a nascondersi sottoterra come insetti, il loro passato trasformato in una leggenda. Ero il punto d'incontro di due forze in guerra, l'asso nella manica, l'arma finale.
Mai prima d'ora avevo desiderato così tanto di spaccare il mio riflesso nello specchio, vederlo moltiplicarsi per ogni scheggia creata fino a sparire nelle crepe macchiate del mio stesso sangue, se ci avessi tirato contro un pugno. Eppure non lo feci. Mi limitai a lisciare il panciotto di taffetà grigio topo che aderiva per bene alla mia figura, allungando le braccia per indossare anche la giacca nera, con lo stemma della Casa di Sapienza – un sole pieno di raggi al cui interno si inseriva un libriccino aperto – cucito all'altezza del cuore.
Il resto della divisa obbligatoria era comprensiva di un paio di pantaloni neri dal taglio dritto che non evidenziavano la gamba, seguiti da un paio di scarpe in lucida vernice nera, chiuse con qualche nastro grigio sul collo del piede. All'occhiello avevo infilato una gardenia di stoffa bianca, dettaglio evidentemente messo a sostituire un fazzoletto di seta intorno al collo che in questo caso non c'era. La gola era esposta dallo spiraglio aperto della camicia di seta bianca che s'intravedeva sotto a panciotto e giacca, candida.
Ero pronto, eppure esitai a lungo davanti all'uscio del mio caldo appartamento. Quasi sobbalzai quando la porta si aprì prima che potessi spalancarla io: Ezrael mi venne praticamente addosso, facendomi barcollare; mi acciuffò per un polso prima che potessi cadere a terra, tirandomi involontariamente verso di lui. Petto a petto, ci guardammo vicendevolmente negli stessi secondi, senza sapere cosa stesse pensando l'altro. Io mi ero appena ricordato del bacio che aveva schioccato sulla mia fronte la notte prima, quando mi aveva sussurrato che mi avrebbe protetto.
Una frase inaspettatamente dolce per un individuo che non si era sprecato in gentilezze, con me. Mai un gesto cortese, se non frecciatine velenose e insulti che non avevano nulla di velato. Però mi aveva salvato la vita due volte, aveva accolto le mie lacrime e mi aveva baciato con il trasporto di chi i sentimenti li sapeva provare eccome.
Mi scostai velocemente strappandomi dalla sua presa, deglutendo un nodo che mi si era appena formato in mezzo alla gola: non avevo bisogno della sua protezione, ero un assassino perfettamente addestrato. Non sapendo cosa dire, puntai al piatto che stringeva in una mano, sollevato in alto così che non rovesciassi il suo contenuto nello scontro. C'era qualche croissant, uno sbuffo di marmellata e burro ed un paio di panini.
«Hai preso la colazione? Fantastico.» finsi gratitudine prendendo una brioche calda, mordendola distrattamente per restare sorpreso da un cuore di marmellata alla ciliegia, gli occhi ora impegnati a guardare un altro punto nella stanza, qualcosa che non fosse lui. Sempre, anche durante il viaggio nel bosco innevato, mi sembrava di camminare sui carboni ardenti con Ezra. La nostra era la missione più folle che avessi mai fatto prima d'ora, perfino più pazza degli incarichi mortali che mi affidava Alaister, e sapevo che l'affinità fra di noi sarebbe stata il nostro più grande punto di forza al momento del bisogno.
Ma proprio non riuscivamo ad averla. C'era istintivamente qualcosa che lo frenava e lo rendeva scontroso, qualcosa che portava me ad essere sulla difensiva. Nonostante ci fossero quegli sporadici momenti dove lui si esponeva, si addolciva. Momenti come quelli di ieri sera.
Gli lanciai uno sguardo di sbieco, in silenzio, spiluccando la crema rimasta sulle mie labbra. I corti capelli d'argento erano mal pettinati e se li era ravvivati all'indietro portandoli tutti a sinistra, quando solitamente se li apriva al centro della fronte. La punta delle orecchie allungate spuntava dalle ciocche, mentre una camicia nuova si chiudeva a malapena sul petto muscoloso, segno che era di una misura troppo piccola. Con la perdita delle valigie, avevano pensato di portarci dei ricambi ma evidentemente non avevano niente di abbastanza grande per lui.
«Sì, ho fatto un salto nella mensa prima che si riempisse. Meglio non farmi vedere.» rispose, appoggiando il piatto sulla scrivania. «Mentre tu frequenterai le lezioni, io farò qualche ricerca sui Regni del Caos o sulla profezia nelle biblioteche.» Annuii, spolverandomi mani e pantaloni da un residuo di pasta sfoglia, la lingua a strofinare il palato ancora addolcito dal sapore di ciliegie. Mi lanciò un'occhiata indagatrice. «Sei pronto?»
«Sì.»
«Allora cambia aspetto.» Dal suo tono, sembrava quasi che non vedesse l'ora. Forse per lui era più facile avere a che fare con me se indossavo le fattezze di un estraneo: mi aveva spiato troppo quando era diventato capace di farlo, e adesso non riusciva più a guardarmi in faccia? C'era da chiedersi cosa avesse visto, di cosa fosse consapevole. Tutte le volte che avevo fatto sesso, tutte le volte che ero stato in bagno... E in qualsiasi situazione imbarazzante mi fossi ficcato. Lui era lì a guardare?
Girai una perlina nel braccialetto della trasmutazione e ringraziai che il mio volto fosse cambiato, perché nei miei soliti occhi chiarissimi l'imbarazzo era fin troppo facile da leggere, così come l'impulso di tirargli un pugno sul naso per aver violato la mia privacy. Non che l'avessi ammesso in qualche modo, soprattutto la vergogna, anche se avevo la mezza idea che lui percepisse le mie emozioni senza aver bisogno di dimostrazioni. Anche questo era imbarazzante ed irritante.
«Non esserne troppo contento.» borbottai, ricordandomi sempre di dar voce alla mia lingua tagliente. «Quando saremo fuori di qui, col cavolo che ripeterò l'esperienza!» lo avvisai: non mi sarei trasformato in uno con la frangetta floscia a vita.
«Vedremo.»
Alzai gli occhi al cielo e mi tastai la manica e i luoghi dove avevo nascosto altre armi: un pugnale allacciato al polso sinistro e un coltellino in un taschino interno al panciotto dove uomini stimabili avrebbero infilato una penna. Nascosti sotto agli orli della camicia c'erano i bracciali con i cristalli di Astrea e infilati a tre dita gli anelli con poteri sconosciuti, che non mi sentivo di lasciare in camera incustoditi. Ero sicuro che molti altri studenti portassero anelli con gli stemma di famiglia esibiti all'anulare, oppure gioielli inutili per esprimere la propria ricchezza anche attraverso la divisa neutra della Casa di Sapienza.
Presi fra le dita la maniglia d'ottone lucido, ma la mano libera mi venne stretta da quella fredda e grande di Ezrael, trattenuta dentro alla stanza. Sapevo che voleva dirmi qualcosa ma, istintivamente, ritrassi il braccio così velocemente che lui strabuzzò gli occhi. Lo feci anch'io, sorpreso dal mio stesso gesto: non sapevo se il motivo fosse perché mi aveva dato della puttana e non volessi che pensasse male di me, se il ricordo dei suoi baci mi mettesse in soggezione o se semplicemente non fossi più abituato ad essere toccato da altri, né pronto.
Un silenzio ghiacciato scese fra di noi, mentre lui strizzava le palpebre in due spicchi sottili, fissandomi, con gli occhi che parevano esser diventati di un viola più scuro.
Colsi quel momento per uscire frettolosamente dalla nostra camera, con il cuore che batteva inspiegabilmente nel petto e le mani madide di sudore. Che era appena successo? Cosa voleva dirmi che non mi aveva detto? Scossi la testa ed iniziai a camminare per i corridoi, calpestando il pavimento di marmo a scacchi bianchi e neri che percorreva tutta la sezione degli appartamenti in cui dormivano gli studenti della classe A, che sarebbe stata anche la mia classe. C'erano pochi studenti ad affollarla e troppo rapidi perché potessi fermarli a chiedere informazioni: fissavano orologi da taschino o sfogliavano libri senza interrompere il passo, così mi limitai a seguire il via vai.
Scesi la scaletta a chiocciola che separava le stanze private dal resto della struttura e proseguii per i grandi parquet scuri coperti da tappeti raffinati; gli archi spalancati della mensa impregnavano il mio percorso con l'odore del caffè caldo ma lo ignorai, superando a grandi passi quel richiamo tenendo sempre il mento alto, impettito. Sapevo che dovevo mantenere un atteggiamento mediocre, ma il mio corpo, il mio profumo di vaniglia e le mie movenze felpate da assassino restavano le stesse. Forse avrei dovuto strascicare un po' più i passi visto che non emettevo un singolo rumore... E forse avrei dovuto anche abbassare la testa liberandomi dal solito cipiglio altezzoso, ma non sarei stato io, altrimenti: già era abbastanza difficile restare nell'anonimato per più di cinque minuti.
Lo squillo del batacchio d'ottone contro le pareti di una campana interruppero i miei pensieri, facendomi sussultare: era stato il custode dall'aria arcigna della sera prima, che scuoteva una corda collegata ad una piccola campanella alla fine del corridoio, riempiendolo col suono quasi fosse un allarme. Capii che fosse un avviso per l'inizio delle lezioni quando notai come gli altri studenti si affrettassero verso le porte delle sezioni, contrassegnate da targhe di marmo incise.
«Archi!» una voce risuonò proprio vicino alla grande porta a doppio battente dove sarei dovuto entrare, mentre un ragazzo si scostava dalla parete contro cui era appoggiato. «Ehi, Archi.» Mi puntò con i suoi occhi azzurri, allungando le labbra sottili in un sorriso spolverato da un velo di barba bionda ramata che gli rendeva ispide le guance, dello stesso colore dei capelli lisci, lunghi quel tanto per legarseli in un minuscolo codino sulla nuca. Era abbastanza alto e ben piazzato da far notare la differenza rispetto ad un fisico come il mio e la gardenia al suo occhiello era rossa invece che bianca.
Mi guardai intorno, cercando di capire se parlasse con qualcuno alle mie spalle, visto che non avevo idea di chi fosse. «Non sei tu Archibald Fleming?» Con tutte le false identità che avevo avuto, mi ero appena dimenticato quella che sarei andato ad interpretare da oggi fino a chissà quando. Il mediocre nobile di provincia, non c'era tortura peggiore per me!
«Ah, sì! Sono io.» mi sforzai di allargare le labbra in un sorriso appena accennato, invece che dargli dell'idiota per avermi chiamato con un nomignolo senza nemmeno avermi mai visto prima.
«E' un vero piacere conoscere un nuovo studente raccomandato dal preside, visto che non è possibile iscriversi nel bel mezzo dell'anno!» esclamò, con un sorriso gentile come il miele, lasciandomi completamente di stucco. Raccomandato? Io? Ma che cavolo? «Oh suvvia, non fare quella faccina.» Mi porse la mano per stringerla fra entrambe le sue senza curarsi se ricambiassi o meno, con un luccichio sinistro negli occhi chiari, non tanto quanto i miei, un po' più cerulei, un cielo del pomeriggio. Aveva le mani lisce di chi non aveva mai fatto nulla in vita propria, che stridettero con le mie, piene di tanti piccoli calli... Cosa che suscitò un inarcarsi del suo sopracciglio: evidentemente mi aveva appena visualizzato con una zappa in mano. Conoscevo lo sguardo sudicio di un nobile quando ti giudicava.
Eppure, sorrise tranquillo mentre continuava, scrollando le larghe spalle che la natura gli aveva ingiustamente donato. «Sono il rappresentante di classe, quindi è mio dovere presentarti agli altri.»
«Ah.» Dovetti mordermi la lingua per non aggiungere altro, ma l'individuo particolare che avevo di fronte, il classico belloccio, rampollo aristocratico e magari viziato figlio unico, sfidava la mia pazienza già all'inizio dell'incarico.
«Speravo in qualcuno di un po' meno...» Strinse le labbra studiandomi dalla testa ai piedi, ed io strizzai le palpebre, piccato. Mi avevano guardato in quel modo solo quando ero piccolo, uno sporco ladruncolo di strada che insozzava le loro tasche prima di rubare i portafogli. «... Ma be', andiamo Archi.» Sorrise ancora, accarezzandosi il mento ruvido con un'aria falsamente simpatica, che il mio buon vecchio istinto d'assassino identificò come una facciata. Avevo l'impressione che in futuro mi avrebbe dato filo da torcere.
Senza aspettare che dicessi nulla, si voltò e spalancò le porte abbassando entrambe le maniglie centrali. La stanza in cui entrai era molto più che ampia: pareti bianche si innalzavano in volte altissime, ampie finestre a bifora riempivano tutto di una luce solare scintillante, resa ancora più pura dal candore della neve nel giardino che s'intravedeva appena dai vetri opachi. La sala si equilibrava su due poli opposti, ben contraddistinti: da un lato un'unica cattedra di palissandro lucidissimo, con fogli, calamai e una lavagna che si estendeva su tutta la parete dietro alla sedia; dall'altro lato una fila lunghissima di banchi s'intervallava su gradinate rialzate, così che tutti potessero avere un'ottima visuale sulla lezione.
Il profumo di legno e di libri antichi conferiva alla situazione un contesto serio, solenne, nonostante gli occhi di tutti puntassero su di me; le piume d'oca dentro ai calamai infilati in fori appositi dei banchi, i candelabri appesi alla parete ancora spenti, i gessetti nuovi nel piccolo contenitore al fianco della lavagna, il grazioso mappamondo antico accanto alla poltrona vuota del maestro. Tutti dettagli che raccontavano qualcosa di questo posto, ma non della gente che lo abitava.
Ricambiai lo sguardo della moltitudine facendo zampillare le pupille un po' dappertutto, sicuro di come sarei apparso: noioso quanto lo era la divisa che indossavo. Frenai l'impulso fremente di piantarmi le mani sui fianchi, alzare il mento e dire qualcosa di arguto e provocatorio, per far capire a tutti questi damerini che ero a diverse spanne sopra di loro, ma sapevo che così facendo avrei attirato non poco l'attenzione, così abbassai la faccia ficcandomi le mani in tasca senza dire niente. Ora che ci pensavo, partire dal basso era un ottimo punto per risalire. Se dovevo rimanere poco tempo, non me ne fregava nulla di incasinare la vita di questo posto.
«Ehm-ehm.» Il rappresentante si schiarì la voce, restando in piedi di fronte a tutti i banchi. Batté le mani. «Posso avere la vostra attenzione? Abbiamo un nuovo alunno, raccomandato dal preside per di più!» ghignò, senza preoccuparsi di dire quella cretinata. E dire che dovevo passare inosservato... «Si chiama Archibald Fleming, è stato fra le montagne per tanto tempo, quindi inutile che chiedete ai vostri mamy e papy se conoscete la sua famiglia!» Gettò occhiolini a destra e a manca credendo di essere molto divertente e continuò: «Mi raccomando, trattatelo bene!»
Non mi servii sentire i risolini rimbombare nella sala per capire che era sarcastico. Ma dove ero appena capitato? Non in una scuola, ma nella tana dei leoni. Non immaginavo nemmeno quanto potesse essere pericoloso rinchiudere una mandria di uomini a lungo dentro ad un edificio, senza donne per chilometri di distanza da tormentare e contro cui scatenare i propri bisogni ormonali. Forse, il piccolo e mediocre Archi era più in pericolo di quanto avessi immaginato.
Dopo il discorso di scoraggiamento, il rappresentate mi tastò un fianco per richiamarmi, cosa che mi fece accigliare, ma poi allungò l'indice verso un posto vicino alla finestra in quarta fila che non era niente male. «Quello sarà il tuo posto.» Con una pacca rumorosa contro il mio didietro si dileguò in fretta verso i primi banchi, lì dov'era il suo posto. Trotterellai silenzioso, a testa bassa, per le gradinate e per le file di legno, sentendo su ogni punto del corpo premere sguardi curiosi e famelici, accompagnati da sussurri velenosi di vario tipo: «Raccomandato!» e «Ah, ti diplomerai prima di noi perché sbatti il culo davanti al preside?» oppure «Borghesotto di provincia, torna a zappare!»
Non ero abituato a quel tipo di comportamento, proprio per niente: alla Fortezza dell'assassino mi avrebbero camminato a metri di distanza – forse anche per la paura di insultare indirettamente Alaister, visto che ero il suo protetto – e ad Ender per quanto piacesse ai soldati stuzzicarmi, sapevano che rischiavano una picconata nello stomaco. Perciò, era difficile non sogghignare maligno all'idea che questi poveracci non sapessero in che guai andavano a cacciarsi.
Mi sedetti con nonchalance e un'aria neutra sul posto contrassegnato, felice di avere una visuale così bella accanto a me: fuori dalla finestra si vedevano le montagne innevate e una distesa infinita di abeti verdissimi, che sotto al sole sembravano di velluto bianco e smeraldo. Era lo stesso scenario che vedeva mia madre d'inverno, dai balconi del suo palazzo? Per la prima volta, mi chiesi cosa sarebbe successo se il Redivivo non fosse mai arrivato a distruggere il loro regno rivoluzionando il resto del mondo: non sarei nemmeno nato. Ma... Se c'era la possibilità di vivere quell'esistenza, come sarebbe stata mia madre e la mia vita nel castello di Astrea? Saremmo stati bene. Sicuramente Mel mi sarebbe piaciuta. Ed Edna non avrebbe avuto quello sguardo malinconico impresso negli occhi viola.
«Non ci badare, il loro giudizio è inutile.» mormorò a bassa voce, in modo che solo io potessi sentire, un ragazzo tono dolce e tranquillo. Uno che mi era estremamente familiare. Prima di guardarlo in faccia puntai il suo banco, attaccato al mio: era graffiato, riempito di parolacce incise fino al fondo del legno che altrimenti sarebbe stato pregiato. "Sfigato" era fra le cose più carine. Onestamente, la situazione mi faceva ridere. Erano delle bambinate ridicole, al punto che le semplici minacce di Alaister in confronto li avrebbero tutti fatti morire d'infarto.
«Figurati, me ne infischio altame-» L'errore che feci fu quello di alzare gli occhi scuri su di lui, proprio mentre stavo finendo la frase. Restai a bocca aperta, senza parole, il cuore schizzato in gola così in fretta che dovevo star soffocando. Non potevo crederci. Non poteva essere. Sbottai il suo nome così velocemente da dimenticarmi di non essere io, di non essere l'Helias che conosceva. O meglio, il Valentine. «Tracy?!»
Era proprio lui. Uno dei sicari meno abili della Gilda dell'Assassino, quello a cui avevo fregato la valigetta con tutti gli attrezzi da disegno per fingermi un architetto durante la missione di Costantinopoli. I briganti del deserto l'avevano aperta e sparso il contenuto dappertutto fra le dune, convinti che potessi nascondere chissà quale ricchezza: non c'era stato modo di recuperare ciò che era andato perso. Così, un po' come un regalo d'addio, quando lasciai la Gilda mi premurai di comprargliene una nuova, piena di tutto ciò che avevo smarrito.
Nella Gilda tutti mi volevano morto, ma non lui. Nonostante avesse poca abilità rispetto agli altri, provavo un certo rispetto nei confronti di Tracy: sapeva che cos'era la gentilezza nonostante avesse versato sangue umano. Di sicuro era l'ultima persona che mi sarei aspettato di incontrare in una Casa di Sapienza, a miglia e miglia di lontananza da Skys Hollow e dalla Fortezza. Non riuscivo a trovare un solo motivo valido perché il Re degli Assassini avesse mandato qui uno dei suoi.
«Ci conosciamo?» mi chiese, alzandosi gli occhiali dalla montatura precisamente rettangolare che gli calavano sul naso, dietro ad uno sguardo scuro senza troppi fronzoli, come i corti capelli neri, che si scompigliò con una grattata della testa. Non era minuto – praticamente ero l'unico sicario esile fra quelli di Alaister – ma non era nemmeno muscoloso quanto lo erano gli altri, con la pelle olivastra e uno strano trittico di nei che seguivano la linea della mascella, sul lato sinistro della faccia.
E adesso che cosa gli dicevo? Che ero lo Sfavillo che conosceva, quello che aveva ripudiato la protezione di Alaister per poi venir catturato? Quello che aveva fatto uccidere il suo amico Yul? Quello che era finito ad Ender e poi era clamorosamente fuggito? «Uhm... Ehm...» Mi grattai la testa imitando il suo stesso gesto di confusione. «Ad un corso d'arte a Skys Hollow.» trovai frettolosamente quella scusa, col cuore che mi palpitava forte nel petto, sperando che ci credesse. «Forse non ti ricordi.» Feci spallucce: era chiaro, non aveva mai visto questa faccia prima d'ora.
«No, ma hai una voce davvero familiare.» La risposta bastò a farmi gelare il sangue nelle vene e, al contempo, a farmi desiderare immediatamente di far calare la maschera, di dirgli chi ero, di chiedergli cosa ne era stato del corpo di Yul, cosa aveva fatto Alaister dopo la nostra dipartita – nostra, perché finire ad Ender significava morte certa.
Prima che potessi dire qualcosa, un maestro in completo elegante color blu notte fece il suo ingresso e tutti si alzarono in piedi in segno di rispetto, cosa che feci anch'io per conformarmi alla massa, anche se l'idea di mostrare deferenza ad uno con quei baffoni grotteschi, gonfi e sollevati verso l'alto come la coda di un gatto, era ridicolo. Non diede il buongiorno agli alunni né si soffermò a far qualcosa di superfluo: poggiò i libri sulla cattedra ed esordì perentoriamente: «Aprite le pergamene e copiate gli esercizi.» Si tolse la giacca e, rimboccandosi le maniche, iniziò a scrivere col gesso contro l'ardesia, lasciandomi di stucco. Era la formula più strana che avessi mai visto.
«Che cosa stiamo facendo?» sussurrai a Tracy, vedendo che era calato un silenzio tombale, dove tutti avevano preso rapidi ad intingere la penna nel calamaio per scrivere quell'insieme improbabile di numeri, segni e ghirigori che ero certo di aver visto solo su uno spartito musicale. Anche lui era molto concentrato, quasi mi dispiacque rompergli le scatole.
«E' il maestro d'ingegno. Esercizi di algebra avanzata.»
Intinsi la penna nel calamaio ed iniziai a scrivere. Che strana sensazione era averne una in mano! Non potevo essermi dimenticato come si scriveva, giusto? Le dita si mossero impacciate quando tracciarono i primi numeri nella carta, tremolanti ed insicuri. Non era perfetto, ma potevo farcela... Per lo meno, a ricopiare le formule.
Quell'algebra avanzata fu la mia tortura per tre ore filate, in cui io passai più tempo con le mani fra i capelli che sul foglio. Non c'era un punto che capissi e, con un'imbarazzante presa di consapevolezza, capii che non c'era stato bisogno degli avvertimenti di Ezra per essere mediocre. O molto peggio. Quando il terzo scampanellio scandì la fine della lezione, per poco non piansi di gioia. Tracy invece aveva completato tutti gli esercizi sul foglio con mezz'ora d'anticipo e la sua spettacolare gentilezza l'aveva spinto a tentare di spiegarmi qualcosa, fallendo.
«Mi sembra che non ti abbiano preparato adeguatamente al programma...» mugugnò pensieroso, guardandomi come se avesse un nome sulla punta della lingua ma non riuscisse proprio a trovarlo, ad inquadrarmi nell'album immaginario di conoscenti racchiuso nella sua testa.
«Mi chiamo Archibald.» gli feci notare, non certo per sollecitare la sua memoria: non mi avrebbe riconosciuto con questa faccia, il che mi faceva quasi innervosire. Volevo che si ricordasse di me e volevo chiedergli tantissime cose, ma ero costretto a tacere e a seguire la seconda lezione della giornata impegnandomi per non essere un completo inetto nemmeno questa volta.
Di sicuro fu più tollerabile della prima: il professore di arte era un uomo strampalato con un lungo codino tinto di pittura azzurra acciambellato su una spalla, con un basco rosso in testa e un'aria svampita incredibile. Faceva cadere tubetti di colori ad olio da ogni dove e il cavalletto che si era portato sotto braccio era una specie di arma letale visto che era riuscito a colpire le poche cose nell'aula. Gli alunni ridevano sotto ai baffi e si sforzavano di non farsi scoprire, ma io non sottovalutai la sua lezione: come potevo immaginare che anche l'arte sapesse diventare una noia mortale? La tecnica del puntinismo poteva tranquillamente rientrare fra le torture di un assassino: qualsiasi prigioniero avrebbe confessato pur di mettere fine al centesimo punto nell'infinità di una pagina bianca.
Anche la quinta ora finì, segnando la fine della mia prima giornata scolastica, o almeno la fine della prima giornata di lezioni: tre alla settimana comprendevano anche il pomeriggio, altre tre consigliavano caldamente studio individuale in biblioteca. Prima di preoccuparmi sul prossimo passo da compiere, decisi che fare un passo in mensa non mi avrebbe fatto male: ne avrei approfittato per chiedere qualcosa di più a Tracy, cercando di capire perché diavolo un sicario facesse lo studente. Purtroppo però, si era già dileguato allo squillo della campanella, con una fretta davvero sorprendente: mentre mi alzavo, la maggior parte della classe si era dileguata.
Sospirai. Ma che diavolo ci facevo, lì? Volevo soltanto correre nei regni del caos e arrivare nel mondo dell'Oltretomba per completare la missione e prendermi ciò che m'interessava davvero. Cosa ci facevo, in una scuola di nobili viziati?
Impettito e con i pugni stretti, abbandonai il mio banco e uscii dall'aula per avventurarmi fuori, alla ricerca della mensa: avevo un ottimo senso dell'orientamento e, a giudicare dall'affluenza di persone che si spingevano verso quel punto della scuola, l'avrei trovata immediatamente.
Quello che non mi aspettavo di trovare era il pessimo scenario che mi si parò davanti quando girai un angolo, in cerca di una scorciatoia meno affollata, spuntando davanti ad un sottoscala lontano dalla vista innevata delle finestra, a candelabri spenti. Una zona perfetta per attività losche. Ma quello... Anche se andava contro i miei principi, specie se cercavo di passare inosservato interpretando un'identità fittizia, l'avrei ignorato.
Ma il ragazzo che gli idioti della mia classe stavano calciando, curvato a terra a coprirsi la faccia fra i pugni chiusi per non farsi spaccare il naso, era indiscutibilmente Tracy. Il rappresentante idiota rideva, restando a guardare inginocchiato verso il basso, quasi volesse trovare la visuale migliore per non perdersi l'angolazione precisa dei pugni e dei calci che scagliavano rabbiosi contro il mio amico. Che, inspiegabilmente, si faceva picchiare. Quella scena mi fece una tale rabbia che dovetti impiegare tutte le mie forze per non estrarre il pugnale celato dalla manica e tagliare la gola uno ad uno.
«EHI! Che cosa gli state facendo?!» urlai, incombendo sulla scena non come una furia, ben sapendo che picchiarli uno ad uno sarebbe stata una pessima scelta per il mio esordio scolastico; più come un novellino che non sapeva in cosa si era cacciato. «Oh! Professore, professore!» chiamai, sporgendomi dall'angolo del sottoscala con una voce lamentosa da ragazzetto innocente e spaventato: mentre il gruppo di imbecilli sobbalzava per prepararsi ad una fuga rapida, io acciuffai il polso del mio amico ed iniziai a correre per il corridoio, infiltrandomi fra la folla in fermento così che non potessero più vendicarsi quando avrebbero scoperto che non c'era nessun professore in arrivo ed era tutta una finta per distrarli.
Lo trascinai in tutta fretta dentro alla mensa e occupai un tavolo, ancora con un po' di affanno e gli occhi pieni d'ira. Sapevo di dovermi alzare a riempire i piatti dalle tavolate che venivano man mano riempite da una schiera di servi, ma prima mi premurai di metterci la giusta dose di rabbia: «Ma che cazzo fai? Perché non stavi contrattaccando quei coglioni?» Sbattei il pugno sulla tovaglia di seta, mentre lui scuoteva la testa.
«Tanto servirebbe solo a cacciarsi nei guai.» Si tamponò il labbro spaccato con un tovagliolo, macchiandolo di sangue, raddrizzandosi gli occhiali storti che non si erano miracolosamente rotti nella colluttazione. «Non è che non voglia proteggermi, ma è meglio che non mi faccia notare... Voglio diplomarmi in fretta nelle arti e poi andarmene di qui. Ribattere per me sarebbe problematico.» spiegò, facendomi spiegazzare gravemente la fronte dalla perplessità. Che avrebbe detto Alaister se avesse scoperto che uno dei suoi le prendeva di santa ragione da un gruppetto di incapaci?
Scossi la testa, troppo infuriato per accettare quella spiegazione: mi alzai dal tavolo e andai a riempirmi il piatto di cibo così buono che dopo la solita selvaggina – lepri, per lo più – e dopo i licheni e i funghi di Astrea, quelle pietanze erano un sogno. Filetto di maiale in agrodolce con le mele tirato col vino bianco, oppure omelette ripiene di formaggio che filava appena ci affondavi la forchetta. Porridge salato e profumate zuppe di vario genere aspettavano di essere prese da raffinate coppe di ceramica, il mestolo a portata di mano, che mi spinse a riempire generosamente il mio piatto. Alla fine, ritornai al posto precedente col vassoio che straboccava di cibo.
«Si può sapere perché lo fanno? Cosa hai fatto?» borbottai, di nuovo di fronte a Tracy, che si era riempito il piatto con il minimo indispensabile: un po' di pane, un po' di zuppa di piselli. Gli fumava davanti al viso facendogli appannare tutti gli occhiali.
«C'è uno spirito di competizione davvero fatale in questa Casa di Sapienza. Il mio unico problema è essere un bravo studente.» Alzò le spalle, affondando il cucchiaio nella crema verde sotto alla sua faccia. In effetti, era stato impressionante con quelle formule e ancora di più nella lezione d'arte, la ragione per cui lo ricordavo.
Prima che potessi infondergli un po' di buon senso e rispetto per se stesso, un duo di studenti che camminavano sotto braccio con aria strafottete si avvicino abbastanza da riuscire a lanciare uno spunto nel mio piatto, con una precisione fin troppo calcolata. Mentre fissavo la saliva galleggiare al centro della mia saporita zuppa, nella mia testa iniziò un fatale conto alla rovescia.
Tre, due, uno... Scattai in piedi così in fretta che rischiai di far ribaltare la sedia dietro di me. Potevo anche passare per un mediocre, ma mai per un debole. Non l'Assassino che si era infiltrato nell'harem di Costantinopoli, non quello che aveva affrontato il Re dei Pirati e sconfitto un vampiro. Non Sfavillo.
Afferrai il mio vassoio mentre con uno scivolare rapido di gambe mi allontanavo dal tavolo. Raggiunsi immediatamente il ragazzo che mi aveva sputato nel piatto, avendo pure il coraggio di dire "mangia contadinello, ora è più buono!" e lo afferrai per la spalla, costringendolo a voltarsi.
«Uhm?» Ebbe il tempo di girare la faccia, la giusta angolazione che mi servì per sbattergli il vassoio in faccia, con la zuppa calda che gli volava dalla fronte alle guance e il filetto gli seminava una scia oleata sul panciotto mentre cadeva a terra. Sotto allo strato di sporco che albergava sulla sua faccia, immaginai che potesse formarsi un bel bernoccolo: gli avevo sbattuto così forte il vassoio in testa che doveva fargli male.
«Tu! Maledetto! Che cazzo fai?!» ringhiò col sedere a terra e la faccia che sgocciolava zucca liquida: un pezzetto arancione gli era rimasto sulle sopracciglia. L'amico era fermo accanto a lui senza parole, a bocca aperta, come la maggior parte delle persone che avevano assistito alla scena intorno a noi. Sorrisi, mostrando un'espressione innocente che sarebbe stata a meraviglia col mio solito visetto... In questo caso meno, ma mi affidai alle mie doti interpretative.
«Non lo vedi?» Mossi un braccio verso di lui, patetico, a terra e sporco. «Ti restituisco il generoso dono, era troppo per me!» Gli feci l'occhiolino, ridacchiando felice prima di voltarmi dall'altra parte, camminando a grandi passi fuori dalla mensa con una furia che mi faceva desiderare di abbandonare il calore dell'edificio per rimettermi in viaggio nel gelo invernale.
Superai le porte con la pancia piena solo di un pezzetto di pane alle olive, lasciandomi anche Tracy alle spalle – mi innervosiva il suo subire senza nemmeno alzare un dito – per poi vagare in giro per la scuola in esplorazione, senza sapere bene dove andare, sospinto solo da quel senso di inadeguatezza crescente, non mia, ma di tutta la situazione; non c'entravo nulla ed era chiaro non solo dai miei risultati scolastici, ma dal fatto che li avrei volentieri uccisi tutti quanti. La mia pazienza era quasi al limite mentre i miei passi rimbombavano fra il parquet e i muri di pietra, quasi, perché poi notai uno spesso portale in legno di palissandro e manticore che spuntavano dal marmo spiegando le ali, con gli occhi fatti di luccicanti rubini.
La targa su cui vi era inciso "Biblioteca" ebbe l'effetto di una folgorazione. Prima ancora di pensarci afferrai le maniglie di pietra a forma d'ali ed entrai, aprendo con tutta la forza che riuscivo ad esercitare sulle mie gracili braccia. Arrivato da un corridoio inondato di luce solare, la biblioteca pareva cupa e tenebrosa, ma non appena scorsi i candelabri d'oro accesi, il pavimento di marmo con grossi motivi a rose dei venti, i grandi tavoli di mogano con le sedie foderate di velluto verde, un fuoco scoppiettante, balconate, ringhiere, passerelle, scale e libri, libri di tutte le misure, libri di tutte le epoche, libri ovunque... Non potei che spalancare la bocca in un'espressione colpa di pura meraviglia.
Avevo appena varcato la soglia di un mondo perfetto, di carta e inchiostro, dove i problemi non esistevano e il domani era un ricordo lontano, fra una pagina e l'altra. Mi portai una mano all'altezza dello stemma cucito sulla divisa, lì dove c'era il cuore.
Al diavolo la Casa di Sapienza, al diavolo il Redivivo, al diavolo la missione!
«Oh mio Dio... Quanti volumi ci sono?!» esclamai, estasiato, ma nessuno mi rispose. Era l'ora di pranzo e la biblioteca era praticamente deserta. Tutta per me. Corsi verso le scalette scorrevoli appoggiate agli scaffali e salii sino all'ultimo gradino per far viaggiare la mano diafana sui dorsi di stoffa, di pelle, per sentire il profumo della carta antica, per leggere i titoli.
Non ne conoscevo nessuno e questo mi fece capire che avevo un modo molto più bello per passare il tempo a scuola, piuttosto che studiare. Raggiante, scesi e proseguii verso le librerie che non erano infilate nei muri ma si estendevano nel resto della biblioteca, innalzandosi dal pavimento, una dietro l'altra come tessere del domino fra cui fare slaloom.
«Ai provinciali piace leggere?»
Sussultai. Ero così gioioso per la biblioteca che non mi ero preoccupato di essere seguito. Stropicciai le labbra già abbastanza sottili ed inesistenti in un sorriso ingenuo. «Oh, il mio rappresentate di classe, che piacere vedervi qui!» finsi di non aver sentito il commento ilare. «Anche voi vi rifugiate dal chiacchiericcio della mensa?» Non avevo la minima voglia di mettermi a chiacchierare con un idiota del suo calibro, ma era meglio fingersi sciocchi che rispondere alla provocazione.
«Il tuo rappresentante ha un nome. Scott della stirpe degli Adrerik, rinomati imprenditori di Skys Hollow.» disse, con un tono a metà fra il vanto e il solenne. «Mio padre ha lavorato per diverse aziende del Re.» fece la voce grossa, mentre io lo bollavo automaticamente come il peggior figlio di papà sulla faccia del regno. Invece di storcere la bocca e gridargli che erano gli uomini come suo padre quelli a contribuire alla rovina del mondo appoggiando e supportando il Redivivo, invece di svelargli che quello che aveva di fronte altri non era che il figlio dell'uomo più importante di Darlan, battei le mani con un sorriso falso stampato fra le guance.
«Wow, che onore!» la mia voce puzzava pericolosamente d'ironia, ma era talmente accecato dal proprio orgoglio che non se ne accorse minimamente.
«Esatto, una merdina come te dovrebbe sentirsi onorata di aver acceso il mio interesse.» sentenziò, acciuffandomi per il polso disarmato con una presa tanto stretta che sentii male alle ossa. Mi sbatté contro uno scaffale e qualche libro vacillò cozzando contro le mie spalle, cadendo dall'altro lato. «Ho visto come hai portato via quello sfigato e ho notato come ti sei comportato in mensa... Hai un bel fegato a fare il ribelle.» Mi acciuffò il mento fra le mani, mentre ridacchiava con un'aria sinistra. La mia schiena e il resto del corpo premeva prepotentemente contro la libreria, la frangetta mi penzolava come una tenda quasi sugli occhi mentre l'odore della polvere mi stuzzicava nelle narici. La sua gamba si spostò fra le mie, il ginocchio intrusivo fra le mie cosce. «E questo mi piace.»
Cercai di restare nel personaggio. «Non... non so di cosa parli!» balbettai, abbassando la testa ed incassando timidamente le spalle, spaventato. Il ferro del pugnale stretto al polso sinistro sembrò farsi più pesante, un richiamo oscuro a quello che mi sarebbe piaciuto fare.
«Parlo di questo.» La sua mano scivolò viscidamente sul mio posteriore, strizzandomi una natica fra le dita e la stoffa, cosa che mi fece sussultare. «La tua faccia è dozzinale quanto la tua famiglia.» Se solo avesse saputo... «Ma non ho mai visto un culo così bello prima d'ora.» Sogghignò, stringendo più forte, mentre io premevo le labbra fra loro in un'espressione infastidita. «Lo sai, senza donne c'è bisogno di adattarsi... E se mi metti i bastoni fra le ruote, ti meriti una bella punizione.» Iniziò ad armeggiare con la mia cintura per allentarla, ma io gli afferrai un polso.
«Ti consiglio di fermarti...» se non vuoi morire «Sono un uomo! Non c'è niente di bello in me!» sbraitai, inalando forte l'aria intorno a me per trattenere un'ondata di disgusto e furia omicida. Sarebbe stato così facile ficcargli in gola il pugnale.
«Una cosa sì, a quanto pare.» gongolò, voltandomi petto contro gli scaffali, tenendomi i fianchi all'infuori con una mano così che potesse strusciarsi col bacino come un animale in calore. Fu abbastanza. Con la mano libera acciuffai un volume massiccio quasi quanto un dizionario e con una torsione del busto glielo sbattei in faccia. Prima che potesse reagire ed io picchiarlo di conseguenza, un rumore violento di passi schioccò fino a noi: Ezrael ci fissava con uno sguardo duro come un pugno nello stomaco.
«Che cazzo sta succedendo qui?» Mi agguantò per il braccio strappandomi dalla presa del rappresentante così velocemente che mi scontrai col suo corpo, riparato nel suo petto caldo. «Gira al largo.» sibilò lo straeliano al figlio di papà, bullo e pervertito, che si girò e se ne andò così velocemente che riuscì quasi ad eguagliare la velocità di Ezra mentre mi trascinava via a sua volta, violentemente, come un leone avrebbe portato via un cucciolo molestato da un altro predatore tenendolo per le zanne. Rabbia palese gli lampeggiava negli occhi malva e aveva le labbra ritratte, quasi gli si vedevano i denti vagamente più appuntiti del normale.
«Ehi?! Ma che cavolo ti prende? Mi lasci?!» sbraitai, cosa che gli servì solo a stringere la mia mano e il mio polso ancora più forte di prima. «Mi fai male!!»
Gli servì uno schiocco di chiave per aprire la nostra stanza. Poi, il mondo si ribaltò molto in fretta: fui scaraventato sul mio letto che emise un cigolio di protesta quando il ragazzo dai capelli d'argento mi sovrastò con un'aria furente, sollevandomi entrambi i polsi sopra la testa per tenerli fermi con una mano. Prima però, mosse la perlina del mio braccialetto magico e subito tornai ad essere me stesso. Intrappolato sotto di lui, lo fissai a bocca aperta, senza capire cosa stesse succedendo, né cosa gli fosse scattato nella testa per farlo reagire in quel modo.
«Allora sei davvero una troietta.» ringhiò, così vicino alla mia faccia che sentii il suo respiro fresco sulla bocca. Inarcai gravemente le sopracciglia, divincolando senza successo le braccia, come un matto. Stavolta l'avrei colpito e dritto in faccia, tanto da spaccargli il naso. «Tutti ti possono toccare, tranne me, giusto?» sputò, velenosamente, aprendo la giacca e poi strappando panciotto e camicia tutto insieme: sentii i bottoni schizzare da qualche parte sul pavimento rumoreggiando come chicchi di grandine sui vetri.
«Ma di cosa diavolo stai parlando?!» Abbassai gli occhi sul mio petto nudo, eburneo, puro come l'avorio. Il freddo e le sue mani, ora intente a scorrere sul mio ventre, avevano fatto sì che i miei capezzoli diventassero duri come due bottoncini rossi, che lui andò a premere e a stuzzicare senza cura, forte, facendomi sussultare e ansimare di dolore. «Sei.. Ngh.. Sei impazzito?!»
«No.» replicò, smuovendomi pantaloni e boxer verso il basso con un unico strattone rabbioso. «Non sono mai stato così lucido.» disse, con una voce possessiva, virulenta e perentoria, scandagliando ogni punto del mio corpo nudo e arrossato con le iridi glicine che mandavano lampi di furore, in uno strano modo gelido ed infuocato insieme. Una mano mi strinse a pugno le ciocche d'oro per sollevarmi la testa verso la sua, così che non potessi fuggire al suo sguardo. «Ho passato anni a guardare il modo lascivo con cui ti fai toccare dalla gente, anche se sei destinato a me da tutta la vita.» C'era rancore e una punta, quasi impercettibile, di tristezza e frustrazione.
Ero destinato a lui? Da quando? «Ora basta.» Lo vidi, lo sentii abbassarsi sul mio corpo, ingabbiato sotto al suo. «Ora mi prendo ciò che mi appartiene.» disse, ed io capii che non sarebbe stato facile sfuggirgli.
***
*NDA - Angolo d'agosto di un'autrice perplessa*
Hola a tutti!
Da dove cominciare? Sono perplessa perché ho scritto questo capitolo tutto di getto negli ultimi quattro giorni e non so nemmeno se è decente - a parte il lessico e la grammatica, intendo proprio il senso, le vicende, tutto... Boh, spero che vi sia piaciuto, seriously!
Sono perplessa anche perché ho notato che rispetto a cinque capitoli fa fra voti e letture vi siete proprio dimezzati, tipo... Ma dove cavolo siete finiti tutti? Capisco che è estate, però.. ewe (io di solito leggo molto di più in estate!). Comunque, alla fine seguendo il vostro consiglio sono tornata su efp e sto ripubblicando dalla prima storia facendo una revisione della revisione... Iniziare a rileggermi tutto è illuminante su alcuni punti!
In conclusione, vi mando un beso <3
Al prossimo capitolo!
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