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10. L'Assassino e la scuola

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«Alla sapienza non si può nuocere; il tempo non la cancella; nessuna cosa la può sminuire.»
- Seneca




Un tempo

Il caos della Grande Foresta.

Così inesorabile, così solenne, così gelido. Spaventoso. Se lo sentivano vibrare dentro alle ossa, rispondendo al tremolio dei loro deboli corpi umani. Non erano bambini, non avevano l'ingenuità che scintillava negli occhi e nemmeno l'innocenza che orlava le loro ciglia. Nemmeno adulti, in realtà.

Un'età imprecisata che traballava fra la giovinezza e la maturità, eppure sembravano così piccoli mentre si tenevano per mano, con la paura che annodava i loro stomaci e le loro dita, intrecciate insieme talmente forte da far sbiancare le nocche.

I capelli scuri come il carbone venivano spolverati e soffiati via dal vento freddo e tossico, sbagliato, ogni inalata dentro ai polmoni era un lampo di dolore, come se respirassero vetro frantumato. Gli occhi gialli da felini, con la pupilla a mezzaluna tesa come un fuso in mezzo all'iride d'oro, continuavano a guardarsi intorno.

Sapevano che sarebbe apparso.

Lo capivano da quell'insieme di occhi rossi che baluginavano fra le fronde del folto, osservandoli con una bramosia di sangue così raccapricciante da farli tremare. La paura si era acuita al punto che loro, i mostri nascosti tutt'intorno al bosco, l'avrebbero fiutata anche a distanza. Ed era un male.

Ma forse nessuno li avrebbe toccati, terrorizzati all'idea di rubare le succulente prede del loro padrone. Avrebbero dovuto sentirsi lusingati di essere stati scelti come sacrifici? No, non provavano alcuna soddisfazione. Solo una paralizzante angoscia. Nessuno dei due voleva essere mangiato.

«Ti proteggerò, Qiana.» sussurrò il gemello alla ragazza al suo fianco, facendo scintillare gli occhi d'oro.

«Sarò io a proteggerti, Yaakov.» ribatté lei, seria come la morte che li avrebbe accolti di lì a poco, o almeno così pensavano.

Nessuno però fu in grado di proteggere l'altro quando videro il Mostro emergere dalla foresta, trascinando dietro di sé il caos.




Mi svegliai di soprassalto, tremando come una foglia e sudando freddo, agghiacciato.

Senza volerlo, nel sobbalzare avevo tirato una testata ad Ezrael, che dormiva col capo poggiato sopra il mio, il petto incastrato dietro la schiena e le braccia avvolte intorno alle mie ginocchia, completamente incurvato su di me come se io fossi un cuscino da stringere e lui un'alcova dove nascondermi. Era una posizione scomoda per dormire e né io, né lui, eravamo molto felici di dover stare appiccicati in quel modo. Ma c'era una ragione.

Dopo essere usciti da Astrea usando un tunnel a scivolo che per poco non mi aveva scorticato tutte le gambe eravamo semplicemente affondati nella neve. Era già inverno prima del nostro arrivo, ma sembrava che un paio di giorni chiusi nelle catacombe di Astrea – ora il rifugio del nuovo popolo – fossero bastati ai fiocchi per ricoprire tutti i boschi del nord, facendo scintillare gli immensi abeti e gli sconfinati terreni di un bianco perlaceo, accecante sotto i primi raggi dell'alba.

Il freddo aveva iniziato ad annidarsi fin dentro alle ossa e ogni passo era una sfida a liberarsi dai cumuli di neve che arrivavano fino alle ginocchia. Durante la notte le bufere si facevano più intense e l'unico modo per salvarci senza morire congelati era costruire una truna sotto terra grande abbastanza da ospitarci e da ripararci durante la tormenta. Lo spazio era così ridotto che dovevamo stringerci il più possibile, forse anche per ricercare un briciolo di calore l'uno nell'altro. Non avrei saputo dire quanto saremmo durati ancora con quel tempaccio, tipico degli inverni del nord.

Ero sempre stato abituato al clima mite di Skys Hollow, abbastanza sopportabile durante l'inverno – perfino quando avevo iniziato a vivere facendo il ladruncolo di strada – e non ero davvero preparato a quello che stavamo patendo adesso. L'unica volta che avevo davvero sofferto il freddo era stato durante la stagione invernale di Ender. A volte era molto meglio morire per il gelo che per gli stenti della fame e della sete o per le infezioni in corso dopo le frustate. Così i prigionieri che non si lasciavano morire usavano i cadaveri altrui come coperte, finché quelli non diventavano gelidi. L'avevo fatto anch'io.

Il ricordo di quell'inferno mi fece tremare ancora più forte del clima polare fuori dalla truna o dell'incubo che mi intorpidiva la mente. Avevo iniziato a sognarlo dal momento in cui avevo saputo quella storia all'origine di Astrea, come se mi avesse suggestionato e ora non smettesse di gravare sulla mia sanità mentale. Per quanto ci ripensassi, al risveglio mi sembrava tutto più confuso, a partire dalle facce di Yaakov e Qiana sfumati come se fossero avvolti dalla nebbia, per finire con quel senso di caos selvaggio e primordiale che troneggiava come una presenza fisica in tutto l'incubo.

«Tsk...» sentii il verso di stizza di Ezrael farsi più forte mentre si svegliava, massaggiandosi il mento che gli avevo appena colpito con la testa. Non aveva apprezzato il brusco risveglio, a quanto sembrava. Sogghignai. «Prendi la pala.» non disse nient'altro, scoccandomi un'occhiata storta con lo sguardo d'ametista.

Sapevo che, alto com'era, non sarebbe stato nemmeno in grado di mettersi seduto dentro alla truna. Certe volte era estenuante stare a guardarlo quando ognuno dei due era in piedi, vicino: dovevo tenere la testa sempre reclinata all'indietro, il collo perennemente piegato come se avessi voluto guardare la luna.

«Piano a darmi ordini.» sbraitai, afferrando la pala solo perché volevo liberarmi dalla sua presenza in uno spazio così piccolo, al punto che sentivo le sue gambe stese fra le mie caviglie, nemmeno avessi messo i piedi nella nidiata di un serpente tutto attorcigliato intorno a me.

«Sono o non sono il tuo principe?» lo stuzzicai, con una punta di vanità e perfidia appena percettibile, a cui lui rispose affilando lo sguardo. Non gli piaceva per niente quando mi approfittavo del mio nuovo ruolo per farlo stare al suo posto.

Mentre ci scavavo un varco, ripensai a ciò che era successo dal momento che stavo vivendo adesso fino alla mia presentazione davanti al popolo di Astrea come loro principe. Era stato surreale: qualcuno guardava i miei occhi come se fossi un pezzo dell'anima del nemico, qualcuno piangeva di commozione, qualcuno esultava di speranza. Altri, semplicemente mi fissavano con lo sguardo ineluttabile di chi sa ed è assolutamente certo che avrei cambiato il loro destino. Non sapevo dire se fossero più illusi o creduloni.

Si inginocchiavano, chiamavano il mio nome, lanciavano fiori davanti al mio passaggio. Più che un principe, mi ero sentito trattato da santo, da qualcuno che aveva assolutamente bisogno di un miracolo. Loro non sapevano nemmeno chi fosse Sfavillo, l'Assassino di Darlan o Helias Bloomwood. Ero solo il prescelto per la risoluzione delle loro guerre e non c'era poi molto di cui sentirsi lusingati. Dal canto mio, era sufficiente sfruttare una leggenda per ottenere la vendetta. E forse anche qualcosa di più.

Nei due giorni che precedettero l'imminente partenza, tutto quello che feci fu venir scortato da Kleira ed Ezrael davanti ad un mucchio di straeliani dotati delle abilità più assurde, che caricavano i cristalli delle grotte con il loro potere e poi ce li donavano pronti a vederci sperimentare.

Ogni strumento a nostro favore sarebbe stato utile all'impresa, e così avevamo passato ore intere a provare poteri e scoprire quante volte e quanto tempo potevamo usarli prima che i cristalli perdessero la loro luminescenza, ormai inutili. Nessuno aveva mai fatto quel lavoro prima d'ora, semplicemente perché non ne avevano mai avuto bisogno. Anzi, a quanto mi aveva spiegato il vecchio Deaglan, prima della distruzione della grande città nessuno sapeva dell'esistenza di quei cristalli, a parte lui e la congrega dei vecchiacci maghi ormai morti.

Dopo essermi trasformato in una tigre bianca grossa quanto un cavallo e aver sputato fiamme dalla bocca come una specie di drago, potevo dirmi sicuro di dover stare attento ad utilizzare quei cristalli. Ezrael, che sembrava sempre saper fare tutto con una smorfia distante senza sbagliare, aveva realizzato che ognuno di quei cristalli duravano un massimo di sei ore, oppure un massimo di sei utilizzi – come quando lui aveva usato il cristallo del teletrasporto e nel momento più importante aveva smesso di funzionare, perché aveva esaurito gli usi.

Alla fine avevamo fili di braccialetti con perline cariche di potere intorno ai polsi, qualche anello alle dita e perfino delle cavigliere. C'erano cristalli capaci di mutare il mio aspetto umano o in animale o di rendermi invisibile; cristalli per lanciare palle di fuoco o di ghiaccio dalle mani; cristalli per il teletrasporto, quelli per una velocità sovrumana e quelli per il volo. E poi c'erano gli unici tre anelli, con cristalli che potevo usare una volta sola e non avevo ancora capito cosa facessero. Un potere me l'aveva dato una vecchia pazza che aveva perso la parola, uno il genitore da un neonato in fasce e l'ultimo il Saggio stesso, che mi aveva fatto giurare di usarli solo e soltanto quando la situazione sarebbe stata disperata, perché mi avrebbero aiutato al momento del bisogno.

Be', una promessa era una promessa, ma non riuscivo a smettere di guardare quei cristalli rosso sangue, viola ametista e blu zaffiro che pulsavano ad intermittenza come cuori dentro ad un petto, ora legati indissolubilmente alle mie dita. Ezrael non ne aveva.

Comunque, non erano le uniche cose che avevo ottenuto. I due gemelli mi avevano raccontato che quando Astrea era sprofondata, con lei erano caduti nelle catacombe anche molti edifici della città, la maggior parte dei quali con pochi danni grazie alla magia. Ristrutturarli era stato uno scherzo, per loro. Uno di quelli era la forgia di uno dei fabbri migliori, che erano in grado di creare armi talmente letali che un tempo tutti ne desideravano una e la pagavano per somme esorbitanti.

Con mia somma sorpresa, avevo scoperto che il fabbro era lo stesso uomo che avevo baciato disperatamente durante il mio crollo, e che mi aveva chiesto perché piangessi con una voce dolce e paziente, a cui non avevo risposto. Rivedermi gli aveva fatto tornare chissà quale estro creativo, e il risultato erano due splendidi pugnali a mezzaluna simili a falcetti, cesellati ed intagliati dai cristalli, con un'impugnatura di morbida pelle già modellata ed adattata per accogliere la forma delle mie dita. Sull'elsa di entrambi c'erano una serie di piccole perle che mi bastava schiacciare per rendere le lame infuocate, ghiacciate o avvelenate.

Pur avendo anche quelle caratteristiche speciali una durata di tempo limitata, restavano comunque le armi migliori che avessi mai posseduto. E per stare sicuro, avevo portato con me un piccolo pugnale da celare dentro alla manica e qualche altra arma nascosta d'emergenza. Era mia vecchia abitudine andarmene in giro quasi fossi un arsenale vivente.

L'ultima cosa che il popolo mi aveva regalato, erano delle parole misteriose. Quelle che mi aveva sussurrato Kleira la notte prima che partissi, con un filo di voce, guardandosi intorno come temendo di essere udita.

«Mio fratello è un ragazzo strano. Ci sono volte in cui scompare per giorni nei cunicoli più antichi di Astrea e nessuno sa dove sia andato a cacciarsi o cosa vada a fare. E ci sono volte in cui lo guardo e mi sembra di non conoscerlo, mi sembra che pensi e parli come un'altra persona... Credo abbia dei segreti, ma è un bravo guardiano. Puoi fidarti di lui.»

Non avevo saputo come interpretare quelle parole. Mi avevano tormentato nelle ultime notti insieme agli incubi e a quell'imbarazzo perfettamente celato che mi aggrediva quando mi ricordavo di Mel e di Elynor. " Lo sanno tutti che i membri della casata reale e i loro guardiani sono destinati all'amore eterno." Aveva detto mia madre, con la più grande naturalezza del mondo, come se fosse una cosa a cui tutti sarebbero stati destinati. Io ed Ezra però non avevamo decisamente l'aspetto o le intenzioni di condividere un eterno amore. Nemmeno per sogno.

«Allora? Non abbiamo tutta la giornata.» sbraitò il ragazzo dalla chioma argentea, scintillante come le punte di una forchetta. Mi indignai a tal punto che, pur avendo già liberato il passaggio, gli spalai un cumulo di neve dritta in faccia. Mugugnò un verso di malcontento, agitandosi nella neve.

Mi ricordai delle sue braccia calde intorno a me, mentre accoglieva le mie lacrime e mi sussurrava parole calmati con pazienza, come la prima volta che mi aveva visto, quando avevo perso il nome della ragione. Sospirai ed allungai una mano verso il suo braccio, liberandolo quel tanto perché potesse tirarsi su da solo. Poi ripiegai il manico della pala per conservarla dentro allo zaino, sempre più leggero man mano che le scorte finivano, e aspettai che il mio guardiano si sistemasse al mio fianco per ricominciare il viaggio.

«Ricordami perché non abbiamo un cavallo.» sbraitai, arrancando nella neve con movimenti vigorosi delle ginocchia e un agitarsi costante di gomiti.

«Perché non ne avevamo. E comunque non sarebbero passati dal buco.» cominciò l'altro, facendomi pentire di averlo chiesto. «Sarebbero morti di freddo o avremmo dovuto passare gran parte del tempo a cercare del cibo per loro.» Non aveva tutti i torti. La cosa che proprio non mi andava a genio, era l'idea che non potessimo usare qualche perla del teletrasporto per arrivare dritti alla nostra destinazione. Me l'aveva già detto più di una volta, che anche lui aveva provato ad arrivare da Astrea dritto verso Ender, ma gli era stato impossibile. Semplicemente non funzionava nelle grandi distanze, specie in quelle mai visitate prima d'ora.

Quindi, il piano era di scendere fino a sud per arrivare sino alla Baia del Teschio, dove avremmo comprato una nave abbastanza robusta da resistere al viaggio verso i Regni del Caos. A dir la verità, io lì c'ero già stato. Avevo ripensato più volte alla taverna lurida dove avevo raccattato le informazioni sul Re dei Pirati e avevo perfino provato ad usare di nascosto il teletrasporto, ma nemmeno quello funzionava. Eravamo ancora troppo lontani.

In più, Ezrael mi impediva di usare qualsiasi tipo di potere per spostarci, perché secondo lui "erano necessari una volta arrivati nei Regni del Caos e poi nell'Oltretomba, non dovevo sprecarne per stupidaggini". Cosa che, ancora una volta, non era del tutto errata, ma... Una misera perlina che male faceva? Il problema però erano i suoi occhi. Non mi perdeva di vista neanche per un momento. Forse volevo usare i cristalli semplicemente per il gusto di disobbedirgli.

Dobbiamo esercitarci

Interruppe le mie elucubrazioni intrufolando quelle parole sin dentro alla mia mente, suscitandomi un'espressione indignata. Quando non aveva davvero bisogno di farlo, parlarmi con la telepatia era il suo modo irritante per richiamarmi all'attenzione. Adesso che avevamo tanto tempo libero durante le camminate, si era messo in testa di insegnarmi come rispondere col pensiero, perché sosteneva che anch'io fossi in grado di farlo. Ci avevo provato sporadicamente e, poi, gettato subito la spugna nel vedere che proprio non ci riuscivo. Forse perché non c'era una vera intenzione da parte mia: che senso aveva parlargli nella testa quando eravamo distanti l'uno dall'altro di un passo?

Avanti, dimmi qualcosa

Alzai gli occhi al cielo, borbottando qualche imprecazione che fui assolutamente certo sentì, ma ignorò bellamente scrollandosi da dentro agli stivali un ammasso di neve e muschio. Pensai a qualcosa da dirgli, qualcosa che avrebbe raggiunto il destinatario e che mi avrebbe anche soddisfatto: "Sei davvero un acido antipatico". La sua espressione non variò di un millimetro, segno che non aveva sentito nulla. Mi massaggiai la radice del naso cercando di mascherare il mio disappunto, dal quale avrebbe capito che avevo tentato e fallito.

Riprovai ancora. "Fanculo, non è così facile!" Cercai di borbottargli, ma senza successo. Era comunque vero, ciò che pensavo. Lui aveva avuto tutta la vita per provarci e i suoi pensieri mi avevano raggiunto solo quando mi ero ritrovato nei guai col vampiro, quindi non era per nulla scontato che imparassi nel giro di qualche giorno. Poi mi ricordai di quanto sembrava naturale fra mia madre e la sua guardiana, Mel. C'era davvero qualcosa di intenso, fra loro. Il vero amore, immaginai. Anzi no.

Amore eterno

Gli occhi di Ezrael scattarono verso di me così velocemente che incespicò nella neve e fu impossibile non capire cos'era appena successo. Gli avevo appena detto quelle due pericolose paroline dritte nella testa, senza accorgermene. Avvampai dalla vergogna. Lui aprì la bocca, poi la richiuse. E poi la riaprì ancora.

«Tu... Non starai-»

Prima che potesse finire la frase, un boato scosse l'intero bosco, facendo tremare gli abeti come fossero di gelatina. All'improvviso quella figuraccia perse importanza e alzai gli occhi verso il colle più in alto, da cui veniva un rumore simile ad un suono per nulla armonioso di tamburi. Ma non erano tamburi. Era un'enorme, gigantesca, massa di neve

«Ez... Ezra.. Ezrael.» Mi aggrappai al suo braccio, pallido in viso come tutto il bianco che ci circondava. «Valanga.»

Non ebbi nemmeno il tempo di realizzare che saremmo morti di lì a poco, perché il mio compagno di viaggio mi strinse in un abbraccio del tutto inaspettato. Poi, il mondo si ridusse ad uno scintillio violaceo negli occhi mischiato ad una nausea martellante nello stomaco, che mi fece cadere carponi a terra, le braccia affondate nella neve fino ai gomiti. L'albino mi aveva lasciato e ora mi guardava dall'alto senza preoccuparsi di darmi una mano.

«Non avevi detto che...» ansimai, riprendendomi dallo shock del teletrasporto che stava soffrendo il mio corpo. «... non avremmo usato i cristalli, qui?» gli ricordai, mettendomi in piedi, scuotendomi il mantello di lana pesante dai granelli che non si erano sciolti lasciando una pioggia di chiazze sul petto. Poi mi risistemai il cappuccio sulla testa, cercando di salvaguardare almeno le orecchie. Mentre lo facevo, mi accorsi che ci eravamo spostati su una collina poco più lontana rispetto a dove ci trovavamo prima, da cui potevo vedere la valanga abbattersi sugli alberi spezzandoli in due, travolgendo tronchi e rami senza fermarsi davanti a nulla.

La brutalità della natura fu la risposta che mi occorreva e lui lo capì. «Non possiamo continuare così.» Levò gli occhi verso il cielo, che nonostante fosse mattina appariva come quello di un tardo pomeriggio, così scurito da nuvoloni carichi di neve, che si abbatteva furiosa su di noi.

E ancora una volta, per l'ennesima, Ezrael aveva ragione. Avevo le mani gelate dentro ai guanti bagnati, così come lo erano i pantaloni, dagli alluci alle ginocchia. Il naso mi si era ghiacciato e le labbra dovevano aver assunto un colorito bluastro, che non andava a migliorare nemmeno se mi alitavo fra le dita raccogliendo calore sulla faccia. «Be', non possiamo tornare indietro.» Questo era fuori discussione, per me.

«Ho in mente un'idea migliore.» disse l'altro.

«E scommetto che non prevede cristalli.» Niente teletrasporto facile.

Ma lui mi guardò, il capo scosso in un cenno di negazione, dicendo: «Ti sbagli.» E sorrise. Il che era decisamente un brutto segno.

***

La bufera continuava ad infuriare, frustandomi le guance con un misto di vento gelido, nevischio e capelli bagnati, le cui ciocche mi schiaffeggiavano imperterrite anche se le nascondevo sotto al cappuccio o dietro alle orecchie. Evidentemente il mio corpo si ribellava con tutto se stesso all'idea che avremmo messo in atto di lì a poco.

Purtroppo però, le possibilità di oppormi si riducevano vistosamente con il peggiorarsi del tempaccio che ci si scagliava addosso e l'avvicinarsi del monumentale edificio di pietra che riusciva ad essere visibile anche attraverso la patina di neve che mi teneva quasi incollate le palpebre. Ed eravamo ancora piuttosto lontani: il puntino grigio era l'unica ancora di salvezza in mezzo al rigido inverno del nord, ma più ci avvicinavamo più quello sembrava allontanarsi.

Ezra ne approfittava per scrivere una finta lettera di raccomandazione sotto al riparo degli alberi, facendomi pentire di avergli dato dello stupido nel portarsi fogli ed inchiostro, che secondo me non sarebbero serviti assolutamente a nulla. Ancora una volta, dimostravo di avere torto e costringevo il mio animo testardo a dargli ragione. Niente di più fastidioso. A parte l'inchiostro che, per colpa del ventaccio, continuava a schizzare via dalle pagine della lettera, rischiando di farmelo finire addosso, visto che camminavo dietro ad Ezrael e godevo del riparo degli alberi quando lui arzigogolava lettere su carta.

«Affrettiamoci.» disse una volta concluso, ripiegando con precisione senza poter chiudere la lettera con un sigillo di ceralacca che almeno avrebbe dato autenticità a quello che era un mero pezzetto di pergamena con l'inchiostro sbavato.

Avevo troppo freddo per aggiungere altro, così mi avvolsi un lembo di mantello sotto gli occhi, alitando contro la lana per riscaldarmi le guance congelate. Sperai di arrivare il più presto possibile, perché il vento riusciva ad arrivare così bene attraverso gli intrecci della stoffa che ogni centimetro di pelle si era ghiacciato e non riuscivo più a percepire sensibilità alle dita di mani e di piedi. Non le sentivo semplicemente più. L'unica cosa percepibile era il rumore costante dei miei denti che battevano.

«Allora è confermato.» esclamò lo straeliano, notando che l'edificio di massiccia pietra era vicino e ogni suo dettaglio era distinguibile attraverso la foschia bianca che ci circondava. Un imponente cancello di ferro battuto era aperto, quasi volesse accoglierci o introdurci al maniero: finemente decorato da architravi, intrecci di foglie in marmo, finestre ad arco e bifore con i vetri delicatamente istoriati, era preceduto da un'imponente scalinata e ancora prima da una sontuosa fontana a strati, dove sull'apice un uomo incappucciato faceva cadere l'acqua dalle mani, quasi fosse una magia. Era congelata, comunque.

«Sarai il figlio di una famiglia borghese che è sempre rimasta fra le montagne, perciò nessuno della nobiltà ha sentito parlare di te e dei tuoi genitori.» spiegò, ricordandomi l'identità falsa che sarei andato ad interpretare di lì a poco, per i prossimi giorni. O forse anche di più. Era una piccola pausa sulla nostra tabella di marcia, ma necessaria per poter proseguire senza che nessuno dei due morisse assiderato: dovevamo solo aspettare che il clima rigido si addolcisse. E intanto, sarei stato lo studente di una delle più famose Case di Sapienza del regno di Darlan.

Un tempo ce n'erano molte di più sparse per tutto il Continente Occidentale ma, dal momento che erano nate come scuole di magia, con l'avvento di Re Kavendish un numero spropositato di Case di Sapienza erano state fatte chiudere, alcune letteralmente rase al suolo. I libri bruciati, i maestri condannati ai campi di prigionia, gli studenti accusati di tradimento.

Soltanto due si erano salvate, spacciate come luoghi dove istruire i nobili del più alto rango – e comunque riaperte solo dopo un numero spropositato di controlli e la distruzione massiva dei volumi dichiarati non idonei, insieme alla censura delle lezioni "pericolose". Le uniche rimaste erano all'estremo sud, una Casa di Sapienza unicamente femminile, ed all'estremo nord, una maschile. Ed era proprio quella che ci aspettava oltre i cancelli.

«Tieniti pronto a cambiare faccia.» mi avvisò, scuotendosi il mantello pieno di neve mentre incominciava a salire le scale. «Mi raccomando, pensa ad essere mediocre. Una faccia mediocre. Voti mediocri. Non siamo qui per restare.» si raccomandò, come se stesse parlando con un bambino che aveva tanta voglia di fare amicizia. Non capiva che forse fremevo più di lui dall'impazienza?

«Ma, non ho ancora capito perché dovrei cambiare faccia! Nessuno conosce la mia, il Re non ha mai voluto che vedessero il processo, e-» Mi interruppe con un'occhiataccia delle sue.

«Ne abbiamo già parlato. Vuoi che un centinaio di persone possa fornire la tua descrizione ad un manipolo di guardie quando loro la chiederanno?» Ingoiai il nodo che mi si era fermato in gola, a corto di risposte taglienti. «A proposito di mediocrità. Il tuo nome sarà Archibald Fleming.»

Questo era troppo. Non avevo fatto tutta questa strada al freddo e al gelo per sapere che avrei avuto un nome da vecchio senza nemmeno un consulto. «Col cavolo, il mio nome falso lo decido io!» sbraitai, serrando le mani a pugno sul mantello, salendo i gradini a due a due per stare al suo passo, visto come andava di fretta con quelle gambe lunghissime.

«Troppo tardi: già scritto sulla lettera.» mi freddò, allontanando le dita dal corrimano di pietra zuppo di neve, scavalcando l'ultimo gradino. Era serio, ma avrei giurato si stesse divertendo un mondo.

«Dammela! La straccerò in mille pezzettini e te la farò ingoiare!» ringhiai, ma lui mi ignorò, spingendo il battente sull'immenso portone di legno che ci si parava di fronte. Mi sembrò di intravedere l'ombra di un sorrisetto, ma quando lo fissai apertamente negli occhi non ce n'era traccia.

«Non fare i capricci.» Scrollò una spalla come se si stesse sciogliendo i muscoli da un fastidioso dolore passeggero e continuò: «Ti conviene sbrigarti con la trasformazione. A momenti...» Prima che potesse finire la frase, le porte iniziarono a cigolare sui cardini. Mi voltai precipitosamente di spalle, mentre con un dito ruotavo due volte in senso orario la perlina della trasmutazione dentro al braccialetto, che aveva una meccanica per cui gli altri cristalli stavano fermi dov'erano a meno che non li spostassi io, attivandoli. Desiderai di cambiare aspetto, concentrandomi sull'idea che mi aveva costretto ad avere Ezra: se Archibald Fleming avesse avuto una faccia, quale sarebbe dovuta essere? Mediocrità, antiquata mediocrità.

L'idea di restare così com'ero per ribellarmi ai suoi ordini dispotici mi aveva convinto fino a pochi minuti fa, poi l'apertura inaspettata delle porte aveva fatto sì che cambiassi frettolosamente idea, muovendomi ancor prima di pensare.

Quando mi girai a guardare chi ci aveva aperto sapevo perfettamente di non avere più la stessa faccia. Non gli occhi di ghiaccio screziati di viola-argento, non i capelli d'oro come i raggi diretti del sole, non le labbra carnose che disegnavano un perfetto arco di cupido sotto al nasino all'insù. Il tipo che ci aveva aperto era un vecchietto baffuto e peloso ingobbito su un ricurvo bastone di legno e avorio, ben vestito ma non abbastanza da sembrare un nobile. Ipotizzai fosse un servitore, il governante, oppure un semplice guardiano incaricato dell'accoglienza.

«Uhm? Non aspettavamo nuovi studenti in stagione.» Si accigliò visibilmente, come se non fosse proprio nei suoi piani, ma quando si accorse che eravamo ancora sull'uscio e stavamo tremando, spalancò la porta e ci fece cenno di entrare di fretta. «Con questo tempaccio! Incredibile! Ma come siete arrivati? Io non lo so...» parlottava velocemente, come se non gli interessasse la risposta ma fosse solo un modo per esternare i suoi pensieri. Il grande naso assomigliava al becco di un pappagallo, mentre muoveva la bocca in segno di confusione.

Sospirai di sollievo quando finalmente fummo all'interno. Nell'enorme salone d'ingresso, a parte le immense scale di marmo centrali che si diramavano a destra e sinistra, fiancheggiate da scintillanti armature decorative, c'era anche un camino di pietra talmente grande da occupare quasi tutta una parete laterale. Il focolare era vivo e ben attizzato, le fiamme divoravano i ciocchi di legno con un soddisfacente crepitio e il calore che si diffondeva all'interno della scuola era talmente piacevole che l'istinto era quello di lasciarsi ricadere davanti al fuoco con rilassato abbandono.

«E' strano, avremmo dovuto essere attesi.» rispose Ezrael, prendendo prontamente in mano la situazione. «Temo che la nostra lettera sia stata persa insieme al messaggero con l'arrivo della bufera.» Sospirò, affilando lo sguardo viola. Stando alle regole, avrebbe dovuto nascondersi anche lui dietro ad una magia di trasmutazione, ma dato che si sarebbe spacciato per la mia guardia e tutore non avrebbe frequentato le lezioni con me. Lui poteva starsene chiuso in una stanza mentre io ci guadagnavo l'alloggio. Incredibile.

«Vorremmo parlare con chi di dovere.» intervenni, incrociando le braccia sul petto con un'aria indispettita che stando alla mia storia non avrei dovuto avere. Mediocre non significa maleducato, giusto? Ma ero comunque irritato dalla situazione.

«Ah, sì sì.» L'anziano annuì cercando nel panciotto consunto l'orologio da taschino che estrasse frettolosamente, controllando l'ora. Era il tardo pomeriggio, ormai. «Per fortuna siete ancora in tempo per essere ricevuti.» Richiuse con uno scatto metallico l'oggettino luccicante e si mise in marcia, voltandosi solo un attimo ad avvisare: «Che fate, non mi seguite? Muoversi!»

Io ed Ezra ci scoccammo un'occhiata d'intesa, poi i nostri passi incominciarono a rimbombare nelle grandi stanze sul parquet scurissimo. Solcammo un corridoio costellato dai ritratti di chissà quali grandi letterati e filosofi mai visti prima, superammo qualche porta ad arco ed infine raggiungemmo un altro sontuoso ingresso.

Non c'era l'opulenza dei grandi palazzi, il lusso delle tenute dei nobili e le classiche rifiniture d'oro degli stucchi alle pareti. Piuttosto ogni centimetro dell'edificio trasudava referenziale timore e un'aria mistica, con le pareti di pietra antica e il profumo del legno d'ebano e palissandro, lucidato ad arte. Per non parlare dell'odore della carta e della pelle pregiata che rilegava tutti i libri disseminati per i corridoi in graziose scaffalature, ogni tanto intervallate da busti di marmo e altri quadri caratterizzati da volti severi. L'atmosfera era ancora più surreale, con la neve che batteva sulle finestre.

L'ingresso, comunque, recava una targa di pietra su cui vi era scolpito a chiare lettere "Ufficio del Direttore Hill", che non lasciava spazio a dubbi. Sentii un paio d'occhi d'ametista poggiarsi su di me, eppure non ricambiai lo sguardo, fissando ostinatamente la porta finché quella, dopo un paio di rintocchi di pugni chiusi, non si aprì.

«Ehm, Direttore.» il vecchio s'infiltrò in mezzo allo stipite, lasciandoci fuori per qualche secondo. «Ospiti inaspettati attendono di ricevere un vostro colloquio.» Anche se non lo vedevo, capii che il baffuto aveva una faccia corrucciata dal tono di voce. Evidentemente non apprezzava le sorprese. «Devo farli entrare?» Come se l'idea di cacciarci fosse assolutamente possibile. Se solo avessi potuto farlo ragionare usando le mani...

«Che significa? Stai facendo aspettare qualche nuovo alunno, signor Custer?» rispose il vocione del direttore, così bassa e grave che sarebbe stata perfetta per leggere un racconto dell'orrore. La calma che l'ammantava era piuttosto effimera, si percepiva più di un accenno di fastidio nel tono. «Falli entrare, sbrigati. Prima che mi spazientisca!»

Il baffuto non rispose nemmeno, girò i tacchi e aprì il piccolo spiraglio da cui stavo origliando per spingerci dentro malamente con la punta del bastone. Digrignai i denti, a fior di nervi, ma ogni desiderio di imprecargli alle spalle si esaurì quando il direttore richiamò la nostra attenzione con una voce calda tanto quanto il camino dell'ingresso.

«Accomodatevi, accomodatevi, per favore non restate sulla soglia.» Indicò con le mani le poltrone dall'aria confortevole dinnanzi alla scrivania. Mi ci fiondai senza tanti complimenti: dopo giornate di camminate estenuanti nella neve gelida, le mie gambe imploravano un po' di comodità. Anche un cuscino sarebbe andato bene, ma quello... Era molto meglio.

«Vi ringraziamo per averci accolto, abbiamo avuto molte difficoltà nel nostro viaggio.» L'albino prese la parola per primo, come un perfetto tutore, educatore, guardia e tutto il resto del pacchetto. La scena mi suscitò un terribile déjà-vu: un tempo dietro a quella scrivania ci sarebbe stato Alaister Noir e, al mio fianco, Yul Pevensie con le sue fossette e i suoi sguardi da ribelle. Un dolore improvviso mi punse al centro del petto.

«Oh sì, posso immaginare. Dev'essere stato davvero pericoloso.» rispose il direttore, su cui finalmente concentrai lo sguardo. Con quel vocione mi ero aspettato un omaccione con baffi e pancia protuberante, invece era longilineo, perfettamente sbarbato, con una zazzera di capelli brizzolati pettinati all'indietro con un velo di gel e occhi altrettanto plumbei. Il completo grigio corredato di giacca e panciotto non aveva una grinza e i bottoni luccicavano quasi fossero stati lucidati. «E non mi riferisco solo ai lupi e alla bufera, onestamente parlando. Le guardie del regno hanno setacciato a dovere le foreste del nord, in favore dei loro controlli su un presunto prigioniero scappato da Ender...»

Mi feci piccolo piccolo sulla sedia. Poi però, mi sentii anche molto orgoglioso di ciò che avevo fatto, ed alzai il mento, fiero. «Inconcepibile. I miei studenti dovrebbero sentirsi al sicuro, nella mia Casa di Sapienza.» Non capii se si riferisse alla minaccia delle guardie, o al fatto che non avessero ancora catturato il prigioniero, che per disgrazia del destino gli sedeva proprio di fronte.

«Capisco che non sia stato un ottimo momento per scegliere di frequentare la scuola, ma è stato difficile convincere la mia famiglia e, quando ci sono riuscito, non potevo aspettare l'anno prossimo.» mi aggiunsi finalmente alla conversazione, lieto che la mia voce non fosse cambiata insieme all'aspetto. Era ancora soave come lo era sempre stata. «Spero e prego di poter essere ancora ammesso!» Guardai il direttore con occhi luccicanti, sperando che la mia interpretazione non apparisse troppo drammatica. Ezra mi guardava accigliato, come se si fosse arrogato il diritto di parlare anche per me e, sentendomi farlo da solo, l'idea non gli andasse a genio.
Io invece allungai la mano verso di lui, palmo aperto, in attesa che mi consegnasse la lettera.

Cosa che fece dopo una certa titubanza. «La maggior parte dei nostri bagagli è andata perduta nelle valanghe insieme ai nostri cavalli. Purtroppo, il mio educatore ha dovuto riscrivere di suo pugno la lettera di raccomandazione che, ahimè, abbiamo smarrito nel viaggio!» Sentivo lo sguardo stranito dello straeliano pungermi le spalle: non era quello il piano e fui felice di infrangerlo.

Non potevo certo stare perennemente ai suoi ordini e, tanto per la cronaca, nessuno avrebbe creduto che quella carta straccia senza ceralacca, con l'inchiostro sbavato e le macchie di neve, fosse autentica. La consegnai al direttore con mano tremante e attesi, in silenzio.

La prese subito, senza aver bisogno di rompere il sigillo – visto che non c'era – con quell'affilato tagliacarte d'argento che avevo notato per primo nella stanza. Dal movimento degli occhi grigi capii che stava scandagliando riga per riga e, quando concluse, una ruga preoccupante gli solcò la fronte. «Sì, si capisce che non è autentica.» disse, mentre il mio cuore perdeva qualche battito. «Ma immagino che il vostro educatore non potesse ricordarsi tutto!» concluse, sorridendo affabile al mio indirizzo.

Sentii i nervi dell'albino sciogliersi al mio fianco, ed io dovetti lottare per non sospirare di sollievo. Avevo salvato la situazione. «Non vi dovete preoccupare, è possibile iscriversi in qualsiasi momento dell'anno. Basta solo il desiderio di apprendere.» E le risorse della famiglia, ovviamente. Comunque, sorrisi alla notizia, stando al gioco.

«A questo proposito direttore, non vorremmo correre il rischio che altri messaggeri di famiglia vadano perduti, perciò pagheremmo la somma pattuita subito.» aggiunse Ezra, prendendo dal suo zaino un sacchetto ricolmo di gemme preziose per lasciarlo in mezzo alla scrivania. Lo guardai male: ma non sapeva nulla dell'etichetta? Perfino il direttore sembrò a disagio.

«Parleremo delle questioni finanziare con più calma, nel corso dell'anno. Non c'è bisogno di affrettarsi.» Le parole valsero come un rimprovero. Ezrael iniziava a perdere punti come educatore, dovevo fare qualcosa per riparare.

«Sono molto ansioso di iniziare le lezioni e ancor più impaziente di scoprire gli argomenti di studio!» esclamai, entusiasta, con un sorriso spensierato ed ingenuo di chi non sa quale noia lo attende.

«Vi darò buone notizie, signorino Fleming. Ho qui la lista degli orari delle lezioni che corrispondono alla sua nuova classe.» Intinse la penna nel calamaio per segnare qualcosa a piè di pagina, poi arrotolò tutto formando una pergamena che richiuse con attenzione certosina con un nastro. «Sezione A.» sentenziò, consegnandomi il documento. «Vedrà, si ritroverà bene con i suoi coetanei. Sono tutti figli di famiglie stimabilissime.» Chissà perché, la maggior parte delle persone che uccidevo un tempo erano nobili, con reputazioni stimabilissime.

«Vi ringrazio infinitamente, direttore Hill.» capii che quella era la battuta d'arresto per il colloquio ed iniziai ad alzarmi dalla poltroncina, già sentendone la mancanza. Prima che potessimo salutarlo, lui aggiunse: «Il custode vi scorterà alle vostre stanze e vi darà la divisa.» Annuii, pronto ad uscire dalla stanza. «Un'ultima cosa.» Mi girai a guardare la scrivania e l'uomo che vi si sedeva dietro, a cui luccicavano gli occhi grigi. «Ci rivedremo, signorino Fleming. Sono il vostro maestro di etica morale.»

Ringraziai un'ultima volta e poi lasciai l'ufficio di fretta, senza chiedermi quale diavolo di materia fosse "etica morale", troppo impegnato a sospirare di sollievo. Durò molto poco, visto che il custode ci stava fissando dal basso dei suoi baffoni, brandendo un candelabro pieno di bracci d'ottone, tutto acceso, nella mano che non teneva il bastone. L'ombra della sera ormai stava calando e immaginai che si occupasse personalmente di cambiare le candele ed illuminare le sale principali della scuola.

«Vi accompagno nelle vostre stanze.» esclamò con tono per niente contento, facendoci strada sull'immenso scalone che non lo fiaccò nemmeno per un istante, pur essendo estremamente lento. Ogni due gradini era un minuto speso male della mia vita. Scoccai un'occhiata infelice ad Ezra, ma lui guardava da qualche altra parte con un'aria scocciata. Quando fu finito quello strazio, il signor Custard iniziò ad illustrarci la scuola nel modo più stringato possibile.

«Corridoio classi.» Con un'alzata di braccio indicava. «Stanze dei maestri. Sala mensa. Biblioteche.» Ogni porta era un'incognita dentro il quale non ci avventuravamo. «I pasti saranno sempre serviti nella mensa: colazione dalle sei e mezza alle otto; pranzo dall'una alle due; cena dalle sette alle nove.» Avevo sentito un affollato chiacchiericcio provenire dalla porta della mensa, segno che era ora di cena per tutti. Ecco perché non incrociavamo nessuno nei corridoi.

Salimmo una scaletta a chiocciola di pietra e finalmente raggiungemmo la zona degli appartamenti studenteschi, ma a quanto avevo compreso, solo quelli della sezione A. «Domattina, prima dell'orario di colazione, porterò la vostra divisa.» Si sfilò da un anello di chiavi appese al fianco quella giusta e, dopo averci aperto una porta su cui era incastonato lo stemma di un libro trafitto da una spada – perfetto per me, anche se non maltrattavo libri –, la consegnò ad Ezra. «Vi consiglio di non fare ritardo alla vostra prima lezione.» disse, col tono di chi non si aspettava altro, poi senza un saluto di alcun tipo si allontanò trascinando con sé la fonte di luce più forte. Sbattei le palpebre abituandomi alla penombra, poi mi precipitai nella nostra stanza, ignorando qualsiasi cosa all'infuori dei due letti ricoperti di broccato rosso.

Prima però incrociai uno specchio a muro che mise in luce la mia figura e, finalmente, seppi come apparivo agli occhi altrui: pallido, capelli fra il nero e il castano con una frangia floscia che mi penzolava sugli occhi semplicemente marroni, di quel colore che non ha nessun sottotono caldo, nessuna sfumatura dorata o verdastra, niente. Ciglia cortissime contrapposte a brutte sopracciglia folte, naso vagamente all'ingiù e labbra sottili come due pezzi di spago vicini.

«Oh. Mio. Dio.» Stavo per strillare qualcosa sul mio aspetto penoso – e per fortuna il mio fisico non era cambiato – ma Ezrael mi zittì.

«Come sapevi che non avrebbe funzionato?» sbottò, profondamente corrucciato dal suo fallimento. Sospirai, girando due volte in senso antiorario la perlina per ritornare finalmente me stesso e guardarlo con gli stessi occhi glaciali di sempre.

«Ma non è colpa tua...» E adesso perché lo stavo consolando? «Intendo dire, è ovvio che non avrebbe funzionato. Ho passato anni a guardare le scartoffie di Alaister... I nobili hanno cura dell'aspetto ancor prima del contenuto e quella busta lasciava parecchio a desiderare.»

Schioccai le labbra. «Figurati eh, non mi ringraziare.» Ci avevo salvato la pelle, considerato che se fossimo stati cacciati non saremmo ancora durati molto in mezzo alla tormenta.

Ovviamente prese la frase alla lettera e non mi ringraziò, ma tanto non ci speravo nemmeno. Piuttosto mi liberai frettolosamente del mantello, lieto di potermi finalmente svestire, staccarmi dalla pelle infreddolita la lana resa pesante perché ancora inzuppata di neve sciolta. Eppure, sorprendendo me stesso, mi voltai di spalle, ritrovando un pudore con la presenza di Ezra che mi apparteneva ben poco, di solito. Forse era perché l'avevo visto nudo nel suo bagno e mi aveva dato del ragazzo facile. Forse perché l'avevo baciato più di una volta. Forse... Non importava e basta.

Mi denudai velocemente, pentendomi di non aver cercato prima una camicia da notte che, ora solo con gli indumenti intimi, non trovavo nella stanza quasi del tutto buia. Feci qualche passo incerto, poi sobbalzai letteralmente quando sentii la sua mano fredda toccarmi la pelle nuda della schiena. Ma non stava toccando veramente quella. Con la punta delle dita seguiva le cicatrici.

«Come...?» Non c'era il solito tono corrucciato, ma un sentito stupore nella voce. E anche qualcos'altro che non decifrai. «Noi straeliani siamo capaci di guarire molto più in fretta degli altri. Anche tu dovresti. E' quasi impossibile che...»

Mi distaccai rapidamente, girandomi in modo che non potesse più guardarmi le spalle. Mi scontrai giusto con l'armadio, dietro di me, dov'erano appese due camicie da notte di seta, felpate all'interno. Ne raccattai una rischiando di colpirmi la fronte con la gruccia. Tutto, pur di non dargli di nuovo le spalle.

«Che c'è? Ti sorprendono i segni delle frustate?» sibilai, reagendo in modo più aggressivo di quanto avrei voluto. «Non guariscono se ti colpiscono sopra le ferite, ogni giorno.» Distorsi le labbra in un sorriso amaro. «Era quello che il Redivivo voleva per me. Che soffrissi. C'era una ragazza che mi aiutava a non farle infettare, ci passava sopra il sale tutte le sere.» Mi agitai, camminando velocemente sul pavimento prima di mettermi a sedere sul letto, la testa chinata a terra. «Quando l'hanno scoperta le guardie l'hanno stuprata e uccisa.» Sentii un peso sullo stomaco, quel genere di peso da cui sai che non ti libererai mai. Che ti tormenterà la notte. «Per colpa mia.»

«No, non...» Non lo lasciai finire.

«Comunque, hanno avuto quello che si meritavano.» Sorrisi, con un'aria folle negli occhi che non faceva pensare a nulla di buono. Avevo sentito le loro interiora sfracellarsi contro al piccone e in quel momento era stata la soddisfazione più bella degli ultimi tempi. «La cosa mi ha fatto guadagnare tante altre frustate, nei mesi a venire.» E non ci fu più nessuno a curarle.

Per la prima volta, vidi negli occhi del mio compagno di viaggio un'autentica empatia, che corrispondeva al nome di dolore. «E non hai mai provato a scappare?»

«Una volta.» pensai, mentre mi sistemavo dentro al letto, ora con abiti asciutti e strati di coperte calde a proteggermi dal freddo e dal racconto. «In un momento di lucidità.» Un momento in cui avevo realizzato che non c'era nessun Yul lì con me. «Sai che le guardie di Ender riescono a colpire uno scoiattolo in movimento anche a trecento metri di distanza?» Solo i migliori soldati per i peggiori criminali. «Ma io ero arrivato così vicino! Avevo i cancelli ad un palmo di mano.»

Ma il segreto dietro a quella vittoria era molto più semplice. Non m'interessava affatto essere colpito. Non correvo verso i cancelli verso la fuga, ma verso la morte. Ero così speranzoso che una freccia mi raggiungesse... Invece non mi avevano colpito. Non erano gli ordini.

«... Helias.» mi chiamò l'albino, guardandomi dall'altro lato della camera, nel suo letto. Solo un grazioso comodino e il lume di una candela ci divideva. «Non sei più ad Ender. E' tutto finito, ora.» mi rassicurò, ma non lo stavo guardando. Così udii uno stropicciarsi di lenzuola e un movimento di ombre con la coda dell'occhio: in breve tempo lo ritrovai curvato sopra di me. La candela gli faceva luccicare i capelli come argento colato, gli occhi di malva quasi lampeggiavano nel buio. Il petto si sollevava e abbassava velocemente, le labbra piene restavano schiuse. «Ti proteggerò io.» Schioccò un fugace e casto bacio sulla fronte, poi tornò nel suo letto come se niente fosse.

Avrei dovuto rispondere che non avevo bisogno di protezione e che quel bacio era patetico, invece mi ritrovai a girarmi di faccia contro il muro, le guance rubizze e una confusione di pensieri nella testa.

Quella notte mi addormentai ma non sognai Ender e nemmeno il caos. Per una volta, feci bei sogni.











***

*NDA - Per una volta l'angolo sfogo dell'autrice (alle 5.00 di mattina)*

Hola a todos!
Facciamo le solite simpatiche premesse: vi è piaciuto il capitolo? Stiamo tornando un po' ai vecchi tempi, quello degli scenari avventurosi e delle identità false, che io ho sempre amato ewe. E questa seconda parte della storia sarà molto così, in effetti.
Ma veniamo a noi, con tutte le news che devo dirvi e che NECESSITANO di risposta, quindi ditemelo pliisss (voi lettori silenziosi, lo so che state leggendo, furfantelli!!). Proposta 1: *cancellata* (niente ho deciso di non cambiare il titolo della storia). Ma la copertina del primo libro, la cambio? (non so ancora come).

Seconda grande news che necessita ANCOR DI PIU' di risposta, specie nei lettori veterani che mi conoscono e sanno il passato di questa storia. Sono riuscita finalmente a ripulire e cancellare il vecchio profilo di efp (piango malissimo per tutti i commenti bellissimi che ho ricevuto e che sono andati persi, ahimè...). E così potrei ripostare questa serie dalla prima storia e revisionarla dal primissimo capitolo. Considerando che vorrei aggiungere anche degli altri pezzi o riscrivere totalmente alcuni capitoli (tranquilli che il succo non cambia, solo la forma)... Solo che, sapete, l'idea di rimettere questa storia in quella piattaforma mi mette un pochetto a disagio e mentre da un lato mi dico "cavolo, ma perché mi devo amareggiare la vita? La scrivo solo su wattpad e shiao belli" dall'altro mi dico anche "c'è un sacco di gente che hai abbandonato lì senza far sapere spiegazioni o notizie che è doveroso sappiano invece" e sicuramente riporterebbe lustro a questa povera storia bistrattata. Al contempo però mi sentirei sotto alla lente d'ingrandimento e sta cosa mi starebbe a morte sui nervi. Però sì, ci tengo alla storia e ai vecchi lettori.
In sintesi: CHE FARE?!
Ditemelo voi che siete la mia isola felice qui su wattpad çç *depressa*
Detto ciò, ci vediamo al prossimo capitolo <3

p.s. spero che wattpad non abbia fatto un casino con gli spazi nei pubblicarlo, ma scommetto che sarà così!

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