1. L'Assassino e la paura
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«La paura governa il genere umano. Il suo è il più vasto dei domini. Ti fa sbiancare come una candela. Ti spacca gli occhi in due. Non c'è nulla nel creato più abbondante della paura. Come forza modellatrice è seconda solo alla natura stessa.»
- Saul Bellow
Paura.
C'era sempre quella paura infinita, incontrollabile, paralizzante, troppo alimentata dallo stato di prostrazione totale, di disperazione dilagante, nient'altro che la conseguenza della fame, della sete, del dolore. Una paura che si esaltava della terribile imprevedibilità di quel che poteva avvenire, delle reazioni dei nostri aguzzini, capaci di divertirsi con le trovate più impensate. Quella maledetta paura era come un uomo pericoloso che mi inseguiva ma più scappavo, più si avvicinava.
E mi voleva. Mi desiderava. Ma non mi possedeva, le sfuggivo di mano. La schernivo. Ma la paura si nascondeva, strisciava via proprio quando mi sembrava di averla sconfitta, lasciandomi immaginare con angoscia la prossima volta in cui mi avrebbe sopraffatto, spuntando dal suo angolo buio per saltarmi addosso. La paura. La paura.
In quel momento mi sembrava di essere più vivo di qualsiasi altro giorno: percepivo con chiarezza la consistenza del mio corpo, la durezza delle ossa che sporgevano in ogni punto del fisico scheletrico, la freddezza delle mie membra che sembravano essersi congelate dal panico, la vitalità di ogni fibra del mio essere che sentiva di poter scoppiare dall'intensità con cui provavo quelle emozioni. Quasi non me ne capacitavo.
Strinsi gli occhi e li spalancai al contempo, lanciando uno sguardo al cadavere di quella guardia, che spuntava da dietro alla roccia: il cranio era spaccato, abbastanza da lasciarmi intravedere una spirale di sangue che serpeggiava sulla pietra; gli occhi spalancati mi fissavano con una tale vacuità da farmi rivoltare lo stomaco, più di quella bocca aperta e di quella lingua che, a penzoloni, usciva rigidamente dalle labbra bluastre. Non mi sarei mai abituato agli occhi di un morto, sembrava sempre che riuscissero a guardarti dentro, con quella loro impenetrabile inespressività.
Morte. La morte era la mia compagnia di vita. La morte che ero così bravo a mietere, come se la gente fosse stata grano da raccogliere ed io desiderassi creare più farina possibile. La morte che mi aveva insegnato il Re degli Assassini, che avevo imparato standogli accanto. Per un momento ripensai a quel giorno, al giorno in cui ero stato catturato. Al giorno in cui noi eravamo stati catturati. Ripensai a quello che mi aveva detto Trill, la sua guardia del corpo: "Non capisci? E' solo una..."
Una trappola. Ma non poteva essere stato Alaister a tradirci. Non colui che ci aveva salvato, che ci aveva accolto, che ci aveva dato un tetto sopra la testa e ci aveva insegnato, pur con la violenza, come sopravvivere in un regno che era stato costruito sulle solide basi della paura. Non poteva essere stato lui ad ingannarci, anche se la sua guardia del corpo sembrava sapere troppe cose. Non lui che ci aveva fatto capire che la nostra paura era anche la nostra arma. Così lasciai che la mia paura, la mia arma, mi attraversasse, mangiasse, divorasse, mi ancorasse ad un'ossessione chiamata morte.
«TI FARO' A PEZZI!» gridava lo schiavista, facendo schioccare sul suolo le lingue di cuoio della sua frusta, mentre con gli occhi spiritati dalla cattiveria si muoveva fra le pareti rocciose, facendo vagare dappertutto la sua ombra enorme a causa della lontana luce di una torcia.
Mi alzai dal nascondiglio dietro cui ero acquattato, graffiandomi le ginocchia contro il suolo aguzzo; mi ci ancorai con le mani e il sangue, il mio sangue, pulsò prepotentemente nelle vene, perché ancora c'era il battito, anche se ad Ender la morte era sempre dietro l'angolo. E questa volta letteralmente: il cadavere era lì. Gettato a terra come un burattino disarticolato, le braccia e le gambe scomposte, il cranio aperto.
Il mio piccone, la prova di quello che avevo fatto, giaceva lì accanto, con la punta insozzata di rosso e il manico pieno di ditate scarlatte, come se avessi colpito più e più volte anche dopo averlo ucciso. Ed in effetti era proprio così. Perché anche se il mio sangue sciabordava, anche se il mio cuore pulsava ad un ritmo serrato e frettoloso, non era l'ossigeno ciò che mi muoveva. Ma la paura, quella paura talmente profonda che era in grado di trasformarsi in pura e semplice crudeltà. E la rabbia.
Tutte quelle emozioni in un'unica sensazione prepotente, urlante e chiara che non potevo assolutamente ignorare.
«ESCI FUORI, DANNATO STRONZO!» Suono di passi in avvicinamento.
Fissai per un istante Yul, nascosto dietro alle rocce di fronte alle mie, che mi guardava con un'ombra grave in viso, mentre la sagoma scura della guardia si avvicinava. Possedeva la stessa espressione che aveva assunto poco lontano dai cancelli di Ender, quando Crow gli aveva puntato la spada al collo e lui aveva capito di essere spacciato. Era l'impotenza. Perché sapeva che non poteva fermarmi. Scosse la testa, una volta soltanto, ed io guardai i suoi bellissimi occhi blu, perdendomici per un istante. Lui era sempre stato la mia parte migliore e se non fosse stato con me, forse sarei impazzito davvero, qui ad Ender.
Infine, trattenni il respiro. Il corpo mi si irrigidì del tutto: affondai le dita contro la roccia alla quale ero aggrappato, come impossessandomene, per poi guardarmi attorno come un predatore. Non ero più semplicemente nascosto, sembrava quasi che fossi ingabbiato contro la roccia. Come un felino in agguato. E poi. E poi fu un secondo, un attimo, un istante.
Quello che era fermo, non lo era più. Quello che era passato ora si mischiava al presente in una spirale confusa di rabbia. Il corpo si slanciò, scattando verso il collo del soldato che spuntò dall'insenatura fra le rocce; nonostante non alzassi particolarmente la voce, parlai con un suono che pareva più un ringhio che un timbro umano.
«Muori.»
Un unico sussurro, che mi fece ricordare di tutti i martiri che avevano perso la vita in quel luogo di disperazione, di tutta la brava gente che non aveva commesso alcun crimine se non quello d'avere il coraggio di ribellarsi a quel tiranno che se ne stava appollaiato nel suo castello come un avvoltoio, in attesa di calare sui nostri cadaveri.
E mi ricordai di quella donna che, qualche giorno prima, aveva passato tutta la notte ad applicarmi impacchi di sale rubato sulla schiena. Ancora una volta ero stato beccato a ridere con Yul: non conoscevo il numero delle frustate che avevo ricevuto, sapevo soltanto che avevano fatto così male da farmi perdere i sensi. Ed era vero, le mie ferite guarivano molto in fretta, ma non abbastanza da rimarginare qualcosa di tanto grave, non abbastanza da fermare un'infezione che mi avrebbe portato alla febbre e poi alla morte.
Sì, quella donna mi aveva salvato dalla morte, ma era stata scoperta. Il giorno dopo, era stata violentata e uccisa. Ed era solo colpa mia. Poi, però, mi ricordai che l'unico vero colpevole di tutto era quel mostro dagli occhi di ghiaccio che io conoscevo bene. Così bene da sapere che lui, il Re, era il famigerato assassino di mia madre. Le terribili memorie di quei giorni e di quel che vivevo ogni singolo giorno ad Ender si mescolarono, lasciando intrecciare passato e presente una volta ancora.
La rabbia mi inondò con una tale forza da ricordarmi quella familiare sensazione di nausea, da farmi desiderare di vomitarla in un sol colpo, mentre le mie gambe s'ancoravano alla vita del soldato, permettendomi di balzare su di lui, braccandolo. L'avambraccio scivolò sotto al suo collo, il mio petto cozzò contro la sua schiena ed io mi trovai a stringere le braccia, forte, nel tentativo di strappargli via qualsiasi possibilità di respirare. Strangolarlo, da quella posizione, era terribilmente facile.
Tanto che non mi accorsi che Yul stava sgranando gli occhi in mia direzione, muovendo le labbra come in una sorta di grido. La sua voce. Perché non sentivo mai la sua voce?
Qualcuno alle mie spalle mi sbatté qualcosa di doloroso contro la nuca e, mentre cadevo a terra, vidi l'elsa di una spada allontanarsi dalla mia testa e ritornare al fianco di una seconda guardia. Non l'avevo vista. Rimasi per qualche secondo accasciato sul pavimento roccioso, a ricordarmi che cosa era successo per farli scagliare su di me con tanta rabbia. Avevo conficcato il mio piccone nella testa del soldato che aveva ucciso la donna che mi aveva medicato. E non me ne pentivo per niente. Ogni guardia che moriva per me era una conquista, un punto a mio favore nella lotta contro il Re.
Mi morsi l'interno della guancia, deciso a non lasciar andare un lamento di dolore, rimanendo steso a terra e con la vista appannata per qualche attimo, prima di girarmi a pancia in giù, con l'intenzione di rimettermi in piedi. Un calcio allo stomaco mi colpì all'improvviso, con talmente tanta forza che mi mozzò il fiato, facendomi rotolare per qualche metro. Restai in posizione fetale, attirando contro il mio petto le ginocchia, mentre boccheggiavo, in preda ad uno spasmo.
«Alzati, verme!» Un grido, mani fra i capelli e poi qualcuno mi strattonò la testa indietro, sibilandomi in faccia: «Al palo.» Fissai con gli occhi stretti in due fessure la faccia del soldato, a qualche centimetro dalla mia, mentre mi stritolava le guance in una mano. Stava sorridendo. «Ora.»
Sapevamo benissimo entrambi cosa voleva dire. Lo sapevano tutte le guardie e lo sapevano tutti gli schiavi. E lo sapeva Yul, che mi guardava con una mano premuta contro la bocca, come se avesse voluto urlare ma si trattenesse per non farsi sentire.
Intanto, l'uomo continuò a strattonarmi, trascinandomi per i capelli verso il luogo di tortura che presto, e con suo grande piacere, mi avrebbe inflitto. Io invece, mi reggevo al suo polso nel tentativo di rendere quell'operazione meno dolorosa, nonostante il mio corpo strisciasse contro le rocce aguzze del pavimento e le mie gambe continuassero a graffiarsi. Non importava. Non volevo pensare a quello che sarebbe successo dopo.
Del resto, era quello che succedeva sempre: c'ero io e quell'agghiacciante, paralizzante terrore; io e quella paura primordiale di non sapere se quello sarebbe potuto essere il mio ultimo giorno di vita; io e quella tortura giornaliera a cui potevo, dovevo resistere. Ma non avevo paura per me. Avevo paura per Yul.
Non potevo lasciarlo solo, non qui, non ad Ender. Non potevo fargli questo, lui non me l'avrebbe mai fatto.
Così smisi di opporre resistenza, facendo ciondolare le braccia al suolo, finché non arrivammo in uno degli angoli più oscuri e angoscianti di tutta la miniera. Non che ci fosse soltanto un palo della flagellazione, visto che eravamo tantissimi schiavi e le guardie avevano tantissima voglia di farci male. Ma quando arrivavi lì, davanti a quella colonna di roccia, con gli appositi uncini per infilare gli anelli delle proprie catene; quando notavi il sangue raccolto in pozzanghere sul pavimento tutt'attorno, il respiro un po' si fermava e ci si immaginava che non ci fosse peggior posto al mondo che quello.
La guardia mi ancorò le braccia contro il palo, fermando la catena, ed io mi ritrovai con le braccia dolorosamente tese verso l'alto, in punta di piedi, o meglio, in equilibrio sugli alluci. Per un solo istante mi risentii come mi ero sentito dinnanzi al Re di Darlan: incatenato, sconfitto, perso; spoglio, perché più mi guardava negli occhi, più sapevo che lui aveva ritrovato in me quel bambinetto di sei anni a cui aveva ammazzato la madre; disperato per non essere riuscito a salvare Yul, che avevo condannato insieme a me a quell'amaro destino. Mi sentii debole, sciocco e perfino colpevole, per tutte le vite che avevo spento, per tutta la violenza che avevo diffuso.
Ma, proprio come quella volta, non mi lasciai schiacciare da quelle sensazioni. Come quella volta, decisi di commettere la mia piccola follia. Le guardie adoravano punire chi metteva in discussione la loro autorità. Chi non aveva paura. Perciò decisi di sfoderare il mio miglior tono cattivo, provocatorio, lo stesso tono che avevo assunto quando il Re stava per decidere quale fosse il modo migliore per mandare me e Yul a morte.
Mi ricordai di quello che avevano detto le guardie delle prigioni reali, mentre ancora in cella, aspettavo l'inizio del processo. "Chissà se lo impiccheranno o se gli taglieranno la testa." Poi mi ricordai di quello che avevo detto al Re. E pur di spalle, con la schiena rivolta al fustigatore, sentii di nuovo quel fuoco incosciente e impertinente infiammarmi, bruciarmi, divorarmi, per farmi tornare ad essere quello che ero sempre stato.
Il ragazzo che aveva rubato il cuore del Sultano di Costantinopoli. Il ragazzo che aveva oltrepassato il mare dei mostri con il Re dei Pirati. Il ragazzo che aveva posto fine all'esistenza di un pericoloso vampiro. Il ragazzo che sperava di raggiungere il Continente Meridionale con l'uomo che amava per diventare finalmente qualcosa di diverso. Mi ricordai di nuovo di com'era avere un'orizzonte di possibilità davanti a me e sorrisi. Poi, con quel fare impertinente, ripetei le stesse parole che avevo rivolto al Re:
«Datti una mossa.»
Una sfida. Non certo una richiesta. Eppure, sentii le gambe tremarmi così pericolosamente che sapevo che l'unica cosa che mi stava tenendo in piedi erano le catene attorno ai polsi. A giudicare dal verso sprezzante della guardia, che sputò accanto ai suoi piedi, non doveva avergli fatto piacere, quel commento.
«Chiudi quella fogna, stronzo.»
L'uomo sollevò il braccio ed io strinsi le palpebre, irrigidii il corpo, mi preparai al colpo che stava per arrivare: sulle spalle, sulle scapole, sulla colonna vertebrale. Non importava, ero pronto. Ero pronto ad accogliere il dolore. Ma quando sollevai gli occhi oltre il palo di roccia ed incontrai quello sguardo, quelle inconfondibili iridi blu notte, mi sentii triste, enormemente triste. Mi sentii perfino sciocco per aver provocato la guardia in quel modo.
«Non mi guardare...» sussurrai, in sua direzione, a bassa voce. Non volevo mostrarmi debole davanti a Yul. Volevo che mi ricordasse come il ragazzo vanitoso e arrogante ma anche dolce e gentile, come l'Helias che conosceva.
Poi vidi l'ombra della guardia muoversi, il braccio sollevarsi dietro di me, la frusta avvicinarsi. Chiusi gli occhi, strizzando le palpebre tanto forte da farmi dolere le tempie, rendendo il corpo un fascio totale di muscoli.
Ma il colpo non arrivò.
«Wyatt, prenditi una pausa.» disse una voce alle mie spalle. Sentii uno spostamento d'aria al mio fianco e qualcuno mi si avvicinò, liberando le mie catene dal loro appiglio. Aprii le palpebre, intravedendo fra di esse un'altra guardia che, per qualche ragione, mi stava salvando dalla fustigazione. Il sollievo che mi invase tutto insieme quasi mi fece cadere a terra, ma riuscii a stare in piedi. «Ci sono altri piani per il caro Sfavillo.» Un sorriso sprezzante. «Ordini dai superiori.»
Dai superiori. Dal Re, che finalmente aveva deciso di ammazzarmi perché neanche Ender era stata in grado di stroncarmi, dopo un anno? No. Non potevo morire. Non potevo lasciare Yul. Non lo avrei lasciato.
Così permisi ancora una volta alla paura di tornare a regnare dentro di me, mentre in quel silenzioso attimo di panico cercavo di incontrare gli occhi del rosso, che mi fissavano di rimando, riflettendo il mio stesso terrore. Poi mi voltai e il mio sguardo vagò verso le sette guardie armate che avanzavano verso di me, camminando dall'entrata della miniera.
Ci misi qualche minuto per capire: loro volevano portarmi fuori.
Strinsi la mascella così forte che sentii scricchiolare i denti ma non mi scomposi, lasciai che mi circondassero, che mi puntassero le armi contro, che mi intimassero di camminare. Sempre più verso l'uscita, verso la luce. Ma io non facevo che guardarmi intorno, per assicurarmi che venisse anche Yul, che non mi lasciasse da solo.
Iniziai a camminare, col petto che s'alzava e abbassava velocemente e col terrore che pervadeva ogni singolo atomo del mio corpo, rendendo quel tintinnio di catene un rumore agghiacciante. Ogni passo che mi divideva dall'esterno della miniera mi faceva sentire più vicino allo sprofondare in un abisso scuro, ogni metro che diminuiva mi faceva desiderare di gridare come un pazzo che non potevo ancora morire. Non ancora.
Varcai la soglia dell'uscita e, non appena il sole si scontrò con il mio sguardo, gli occhi azzurri mi bruciarono talmente forte che iniziarono a lacrimare. Il sole. Avevo dimenticato quel particolare tepore sulla pelle, quel calore dolce e quella luce che mi faceva brillare i capelli in bagliori dorati. Per me, era poco più che un miraggio, perché sotto la patina di sudiciume avevo un pallore cadaverico.
All'improvviso, il manipolo di guardie che mi circondava si fermò ed io mi immobilizzai con loro, cercando di far abituare gli occhi alla presenza del sole e di calmare la nausea che minacciava di farmi vomitare il nulla che racchiudevo nello stomaco. Poi, il mio cuore perse qualche battito, quando scorsi la figura che mi aspettava lì davanti, così diversa delle altre: volto incappucciato, spada sul fianco, divisa completamente nera.
Un boia? Mi ritrovai istintivamente ad indietreggiare, ma le mani forti delle guardie di Ender mi stringevano le catene. Sentii la terra mancare sotto i piedi e l'unica cosa in grado di rassicurarmi fu lo sguardo di Yul, poco lontano da me. Mi stava sorridendo mestamente. Sembrava quasi che accettasse di lasciarmi andare e, in quel modo, il senso di nausea che mi assalì fu ancor più devastante.
Poi, l'uomo incappucciato parlò. «Sono Raven Kenneth, Capitano della Guardia Reale.» E mi sentii schiacciato dal cielo che incombeva su di me, le montagne che mi incalzavano alle spalle e la terra gonfia sotto i piedi, ridotto ad un semplice puntino di nulla; un mucchio d'ossa che ancora si muovevano.
Per un istante mi sembrò di notare un caldo baluginio di occhi nocciola da sotto al cappuccio che, in qualche strano modo, calmò il panico crescente. Ma dopo mi dissero di allungare le braccia e quel gelo tornò ad invadermi le gambe, il petto, le membra, il cuore. Una guardia infilò una minuscola chiave nei ceppi delle mie catene e quelle caddero immediatamente a terra, con un rumore fragoroso che mi riverberò dentro.
Mi avevano liberato. Allora volevano davvero uccidermi.
Sgranai gli occhi e li richiusi al contempo, decidendo di non guardare più nulla, finché non avessi sentito il dolore di un'arma infilzata nel petto. Ma dovevo farmi forza. Dovevo ricordarmi che non potevo lasciare Yul da solo. Dovevo capire che io ero ancora l'Assassino di Darlan, ero ancora Sfavillo, e nulla mia avrebbe fatto del male. Tentai d'afferrare la chiave che tenevo appesa attorno al collo, di ricordarmi che cosa mi aveva insegnato mia madre, cosa avevo insegnato io a Yul.
Mi chiamo Helias Bloomwood e non avrò paura. Scandii ogni parola nella testa. Mi chiamo Helias Bloomwood e...
E all'improvviso, qualcosa accadde.
Fu come se l'aria crepitasse. Come se qualcosa di invisibile si spostasse e si costruisse. Un lampo viola, di colpo, accecò i presenti. Mi coprii gli occhi, schermandoli con una mano, mentre le guardie impugnavano le armi, strizzando le palpebre, confusi. Quando riuscii a vedere di nuovo, non credetti ai miei occhi. Lì dove prima c'era il vuoto, adesso si trovava un uomo dai fulgidi capelli grigio-argento, talmente alto che dovetti alzare la testa per guardarlo in viso, per osservare i suoi lucenti occhi viola. Viola.
Come quelli di mia madre.
Ma non era possibile. Prima non c'era. E adesso c'era. Prima l'aria. E ora una persona. Non fui capace di comprendere la sequenza logica delle cose, riuscii soltanto a rimanere a bocca spalancata, con la paura che cedeva alla sorpresa più pura.
«Scusate il ritardo.» esordì, spazzolandosi il mantello scuro, con tanta tranquillità. «Adesso Sfavillo me lo prendo io.»
E nessuno riuscì a far nulla, perché gli bastò posare una mano sul mio braccio e tutto divenne nero.
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* NDA *
Hola a tutti, lettori! Sono riuscita ad aggiornare in una data decente, mi sento contenta. Inoltre, sono molto felice di sapere che alcuni dei vecchi lettori - che non son riuscita ad avvisare - abbiano trovato la storia! Vorrei chiedervi che ne pensate, ma mi accorgo che siamo ancora all'inizio, per cui non lo farò(?). Ho notato che alcuni hanno già iniziato a fare teorie... Be', approvo approvo! Che altro? Buona scuola per chi l'ha iniziata! xD Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Alla prossima <3
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