4. POV ???
«L'alienazione è il fatto di cedere una parte di se stesso a un altro sé, è renderlo estraneo a se stesso, prigioniero di un altro. L'alienato vive fuori da se stesso.»
- Anika Lemaire
Baia del Teschio, Regno di Darlan
L'Urlo della Balena non era semplicemente una taverna, era un tugurio. Si aspettava che le locande piratesche fossero un po' più simili alle birrerie artigianali dei sobborghi di Skys Hollow, tutte in legno scuro, sgabelli imbottiti in pelle graffiata e bottiglie di alcolici mezzi vuoti, con quell'aria fumosa e nebbiosa che comunica mistero e segretezza dietro ad ogni anfratto. Qui, invece, dietro agli anfratti c'era puzza di pesce.
Muffa sulle pareti e crepe da cui sentiva provenire raccapriccianti squittii. No, diavolo, Adrian Kavendish non riusciva minimamente a capire perché il Capitano delle Guardie Reali lo avesse portato lì, fra tutti i posti possibili. Anzi... purtroppo, lo capiva. Avevano un importantissimo incontro, di lì a poco, ma fra tutti i luoghi nella Baia ce ne doveva essere sicuramente uno migliore di quello. Invece erano capitati proprio all'Urlo della Balena. Dopo che lui e Raven Kenneth si erano tramutati in falchi grazie alle strane perle magiche donate da Sfavillo, avevano passato una giornata intera a volare in cerca di una nave che li trascinasse verso la costa.
Adrian ricordava ancora la sensazione di pesantezza ai muscoli delle ali: imparare a volare era stato istintivo, un po' meno seguire le correnti capricciose del vento sopra al mare. Raven se la cavava molto meglio di lui. Per il nome "Raven", forse? Peccato non aver potuto condividere il pensiero sarcastico verso il Capitano, visto che col becco non poteva parlare. Il principe aveva dovuto perseverare e fare appello a tutta la forza di volontà che aveva, mentre stringeva fra gli artigli da falco quel braccialetto di perline incantate, l'unico segno di un'alleanza con un famigerato assassino.
Seduto ai margini del letto dentro all'oscena taverna, ripensò a quel ragazzo, l'unico uomo vivente sfuggito alla straziante "vita" di Ender. Il ricercato più famoso di tutto il Continente Magico - non più tanto magico, visto che il Re, suo padre, aveva bandito la magia, ma la gente si ostinava ancora a chiamarlo così. Ripensò a tutta la lista di vittime che aveva avuto modo di leggere personalmente, mentre sceglieva il proprio cavaliere, quello da far combattere nella gara indetta da suo padre.
Era una ragione così infantile, quella che aveva portato Adrian a voler liberare Sfavillo... E se avesse saputo che l'assassino era così bello lo avrebbe desiderato anche prima, secondo il suo sincero pensiero. Avrebbe potuto far parte della corte, sarebbe stato squisitamente nelle vesti di lord di compagnia.
Certo, se non avesse tagliato la gola a nessuno. Eppure gli risultava incredibile che fosse lo stesso ragazzino biondo dalla pelle rosata - rosa ovunque, anche in punti dove non l'avresti immaginato - che aveva quasi comprato all'asta durante il Ballo dell'Orchidea. Lo stesso ragazzino che aveva dichiarato Suo durante la Festa d'Estate, prima che un bellone fulvo glielo rubasse dalle mani. Quel tizio arrogante non era con lui, stavolta. Tanto meglio, si era detto: se solo la permanenza sull'Idra Spinata non fosse durata così poco. Aveva la sensazione che i libri di storia l'avrebbero definita un'alleanza-lampo, ma Adrian ne andava comunque fiero.
Non era da tutti i principi riuscire a convincere gli efferati assassini - oscenamente belli, dal visetto angelico e lo sguardo diabolico - ma pur sempre efferati assassini! Adesso non gli restava che un ulteriore passo avanti. In realtà gli ci voleva molto di più di un passo: era un'intera maratona, quella che serviva al principe ereditario per vincere la guerra contro suo padre, ma il benestare di Sfavillo era stata la spinta necessaria per fargli prendere il coraggio. E dare vita a quell'incontro.
Così, scostò stizzito con un calcio un ratto che gli stava rosicchiando lo stivale indisturbato e si alzò in piedi, lungo le assi cigolanti del pavimento ammuffito nella stanza della locanda. Si accostò alla parete, guardandosi dentro all'unico specchio appeso, per giunta rotto, che gli avevano fatto trovare nella stanza. Il volto piacente faceva sospirare tutte le nobildonne della città ed era il partito da sogno di tutte le ragazze in età da marito tanto per la sua posizione sociale quanto per la sua sensualità. Ammiccò al proprio riflesso e poi si lisciò l'orrenda palandrana blu, l'unico capo d'abbigliamento che Raven aveva trovato in quel postaccio, dopo aver perso anche i vestiti per via della trasformazione in volatile che li aveva colpiti entrambi.
Era passato più di un mese da allora, ma per accordare l'incontro che si sarebbe verificato di lì a poco c'era voluto una quantità imprevista di tempo e il loro contatto si ostinava a volersi vedere alla Baia del Teschio, fra tutti i postacci possibili. E questo perché dopo la partenza del nuovo Re dei Pirati - sempre Sfavillo - vigeva uno stato d'anarchia tale in cui nessuno guardava più in faccia a nessuno, non esistevano ciurme, solo un'accozzaglia di uomini di mare, criminali e scellerati che si aggredivano a vicenda perché si sa, l'erba del vicino è sempre più verde. Insomma, era il posto perfetto per un incontro con eventuali vie di fuga e camuffamento se le cose si fossero evolute verso il peggio.
«Salve, signor Robert.» esordì Adrian. Ma parlò al proprio riflesso verso lo specchio. «Buonasera, signor Blood.» Si scostò una ciocca corvina e selvaggia - di solito perfettamente ingellata - dalla fronte e riprovò. «E' un onore, Ser Robert Blood.» Poi si ricordò che il contatto si chiamava Robin Blood e sospirò, schiaffandosi una mano in fronte. «Senta, Robin Blood o come cavolo si chiama, accetti questa dannata alleanza e non se ne parla più!» sbraitò a se stesso verso lo specchio. Senza i propri vestiti, senza il proprio nome, senza le proprie armi, si sentiva... Nudo, incerto. Aveva bisogno di fare qualche prova e stava andando sempre peggio.
E Raven avrebbe fatto salire nella loro stanza quell'uomo di lì a poco.
Prese un profondo respiro. «Robin. Il vostro desiderio è il mio desiderio.» fece con una voce da gran adulatore. «Distruggiamo il bastardo!» utilizzò un tono feroce, chiudendo la mano a pugno. Sembrava un ragazzino davanti ad uno spettacolo sportivo. Si lasciò ricadere sul letto, brontolando: «al diavolo...» E in quel momento qualcuno bussò.
Adrian Kavendish balzò in piedi e corse verso la porta, aspettandosi di vedere l'uomo di cui declamava il nome per tutta la serata come un idiota. Si ravvivò la chioma all'indietro, mise su la maschera di superba sicurezza e spalancò la porta. Solo per ritrovarsi di fronte il muso eternamente seccato del suo amico Raven. Sbuffò. «E Blood?» Ma quando il Capitano delle Guardie reali scosse la testa, in silenzio, il principe abbassò le spalle come un cane abbattuto e comprese che si erano preparati per tutto quel tempo, sopportando lo schifo e i pericoli della Baia del Teschio, per nulla. Robin Blood non sarebbe venuto quella mattina. Robin Blood non sarebbe venuto mai.
Si lasciò ricadere sconfitto sul letto, rimpiangendo di averlo fatto quando il suo corpo ricordò quanto fosse rigido il materasso. «E' meglio così.» brontolò Raven, mentre si richiudeva la porta alle spalle, scompigliandosi i capelli castani intorno alla testa prima di risistemarli in uno scarmigliato, minuscolo codino sulla nuca. «Era sicuramente uno stronzo. E noi stronzi non ne vogliamo.» Raven, quel dannato, fedele brontolone! Gli indirizzò un debole sorriso.
«Ma era uno stronzo con le palle. Capo della ribellione di Redglues? Ci serviva davvero.» sospirò il principe, ricordando come una manciata di mesi prima alcuni schiavi del campo di prigionia di Redglues si fossero ribellati, sapendo della notizia che Sfavillo era scappato da Ender. Questo tale Robin Blood aveva guidato le fila della faccenda ed era un contatto troppo succoso per non volerlo avvicinare.
Evidentemente, non si era fidato abbastanza, nonostante Adrian gli avesse fornito informazioni segretissime su altri campi, attraverso una lunga catena di messaggeri in incognita che Robin gli aveva mandato, affinché il principe ne perdesse le tracce. Un tipo furbo, questo Blood. E Adrian gli aveva girato le informazioni senza lamentarsi della cosa. Così, era rimasto fregato.
Avrebbe voluto arrovellarsi ancora un po' ed insultare mentalmente il tizio, ma Raven cacciò fuori dalla mantella qualcosa che gli sottopose davanti agli occhi, curvandosi sopra di lui dall'angolo del letto. Il principe ammutolì, agghiacciato, davanti a quella lettera pulita, bianca, priva di fronzoli. Solo un sigillo di ceralacca blu pavone con lo stemma reale di Darlan. Si tirò bruscamente a sedere, strappandola dalle dita del Capitano per poi rompere il sigillo e leggere tutto d'un fiato, mentre impallidiva di più riga dopo riga.
«...Come?» esalò senza fiato, arrivato all'ultima lettera dell'ultima frase. Pallido, alzò lo sguardo color ghiaccio sull'amico di una vita, sul suo braccio destro, sull'uomo che aveva fatto Capitano delle Guardie Reali con innumerevoli sforzi. Le mani gli tremavano con forza intorno alla lettera.
«Me l'ha data un pirata che era stato pagato da uno sconosciuto per consegnarcela.» Gli occhi di velluto nocciola di Raven strisciarono sul contenuto del foglio, storcendo pesantemente i lembi delle labbra in un'espressione greve quando vide che era Ciril Crow a mandarla. Il Capitano dei soldati cittadini di Skys Hollow. Che erano un po' come la forza esecutiva e dittatoriale del Re, mentre a Raven spettavano gli inutili compiti come "protettore" del Castello di Cristallo. Era stato già abbastanza incredibile che lo avessero mandato a cercare Sfavillo, ma lui non era che una fra le tante unità dispiegate a dare la caccia al fuorilegge.
«No, come sanno che siamo qui!» proseguì il principe, bianco come un fantasma. «Abbiamo usato tutte le precauzioni del caso!» Non aveva mai messo piede fuori da quella stanza e, se lo aveva fatto, era sempre stato incappucciato o mascherato. Non avevano mai fatto i loro nomi e non avevano niente addosso che potesse ricondurli alla loro identità. E ufficialmente a Skys Hollow si sapeva che Adrian era partito per una località balneare a fare la bella vita, mentre Raven dava la caccia a Sfavillo. Non c'era assolutamente nessun modo possibile per cui avessero potuto scoprire cosa stavano facendo.
«Non lo so, Adrian.» disse il bruno, stringendo le labbra. «Non lo so.»
E allora il principe ereditario di Darlan rilesse agghiacciato le ultime frasi della lettera, incapace di spiccicare parola, incapace anche solo di pensare lucidamente.
"Sappiamo delle tue portentose capacità. Tuo padre è fiero di te. Vuole che torni a casa, figliolo."
A nessuno aveva parlato dei suoi poteri, a parte Raven e Sfavillo, entrambi impossibili da prendere in considerazione. Chi poteva averli traditi così abilmente?
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Regno di Red Mask (Feng Du), qualche secolo prima
«C'è qualcosa che non va, imperatore Hēi?» Fu l'ultima volta che qualcuno glielo chiese. La domanda venne da un servitore senza nome, senza volto, senza identità, solo una maschera rossa priva di tratti umanoidi, piatta. Un signor nessuno, che aveva avuto l'ardire di fargli una domanda tanto personale, come se fossero in confidenza, come se potesse permettersi di guardargli attraverso indovinando i suoi sentimenti.
Sentimenti. Che parola divertente e bizzarra per qualcosa che Hēi aveva rimosso dalla propria esistenza. Eppure, quando pensava all'uomo dagli occhi di ghiaccio, quando ricordava le sue labbra vagare sul proprio corpo, seguire la curva dei propri muscoli e focalizzarsi fra le gambe, fra le cosce aperte... Serrò la mascella, ma la maschera dalle fattezze mostruose nascose la sua reazione davanti a quel sudicio ficcanaso. Ormai aveva fatto una scelta. Avrebbe seguito quell'uomo. Avrebbe abbandonato l'Oltretomba e si sarebbe lanciato in una nuova sfida al suo fianco.
Distruggere il mondo. Pezzo dopo pezzo.
«Va meglio che mai.» rispose, il tono così gelido che avrebbe potuto far crescere delle stalattiti sul soffitto e gli occhi dorati che si affilavano attraverso i fori della maschera, nonostante le labbra si curvassero in un sorriso di spaventoso sadismo.
E sarebbe andata ancora meglio. Infatti, dopo che il servitore uscì, ordinò che fosse fatto giustiziare.
...
«Che hai che non va, Herminia?» Poi fu lei stessa a domandarselo, con la voce rotta dalla disperazione, mentre le mani le si graffiavano ad aggrapparsi così violentemente ai bordi del dirupo: guardava giù dal monte, oltre il precipizio, i capelli che penzolavano nel vuoto e venivano scossi da un alito di vento che saliva dal basso, dalle profondità dell'abisso verso cui fissava in cerca di una speranza.
Un pezzo di stoffa era rimasto incastrato ad uno spunzone roccioso che sporgeva a qualche metro più in basso. Era un lembo del vestito dell'imperatore Hēi, che era rimasto impigliato e si era semplicemente strappato via quando era saltato giù dal monte. Era saltato. Herminia aveva gridato il suo nome - il suo vero nome - allungando il braccio verso di lui per implorarlo di non saltare. Di non andare. Di non lasciarla sola di nuovo.
Dentro alla sua mano, la silhouette lontana di Hēi sembrava a portata di dita. Avrebbe potuto stringere il pugno e tenerlo lì con lei. Ma era solo un'illusione. A quell'uomo non importava nulla di Herminia: non sospettava nemmeno chi fosse. E se l'avesse scoperto l'avrebbe senza dubbio uccisa. Perciò, che cosa diavolo aveva che non andava, per continuare ad inseguirlo? Per sperare che lui restasse per sempre con lei? Per credere di poterlo salvare?
No, non poteva salvare chi era ormai condannato. Anche se si trattava di qualcuno per cui avrebbe sacrificato ogni cosa.
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Regno di Red Mask (Feng Du), ora
Duellare era la cosa più istintiva che mi rimaneva da fare. Il corpo agiva seguendo un meccanismo interno di cui io non ero il diretto responsabile, come un orologio a cucù, programmato per far spuntare e suonare un uccellino alle dodici in punto. Era come se la mia anima sapesse di poter suonare, anche se avevo dimenticato come lo avevo imparato. Lo facevo con naturalezza, spavalderia e una sicurezza che spazzava via ogni altro tentennamento.
Non ricordarmi niente di me stesso era logorante, ma pian piano cercavo di abituarmi all'idea di guardare avanti, di andare oltre: Herminia diceva molto spesso che non avere memoria fosse un dono. Mi dava la possibilità di costruirmi un futuro migliore, senza rimpianti, senza mancanze, senza dolore. Gli avevo chiesto così tante volte se sapeva chi fossi, prima, ma mi aveva detto che ci eravamo conosciuti che io già non sapevo niente. Dal momento che si era dimostrata così disponibile nei miei confronti, non avevo motivo per credere che mi stesse mentendo. Sapeva solo che avevo già iniziato a raccogliere delle anime: mi aveva spiegato le regole di questo posto.
Io ero morto. Morto a tutti gli effetti.
Ma si poteva ricominciare: avevamo entrambi la possibilità di rifarci una vita. E più anime raccoglievamo, più aumentava il nostro prestigio. Ogni volta che uccidevo qualcuno per guadagnarne una, sentivo una parte di me che ne restava cupamente soddisfatta, come se fosse... La cosa giusta da fare. Il mio obiettivo. O forse, soltanto qualcosa che facevo quando ero ancora vivo, qualcosa che mi ricordava il vecchio me stesso. Non che scegliessi gli innocenti.
Il regno di Feng Du pullulava di gente maligna. Prevaricatori e prepotenti, che si nascondevano dietro alla loro maschera rossa per seminare astio e violenza senza farsi problemi. Mi bastava girare un po' per il mercato galleggiante della città per trovarne uno di loro. Li ammazzavo, rubavo tutte le anime che avevano raccolto con i loro crimini e mi sentivo... Migliore. Completo. Perché sapevo che ero comunque migliore di loro.
Herminia però trovava il mio operato del tutto inutile. "Ti abbassi al loro livello, ed è gente mediocre!" Come se mi conoscesse meglio di me. Secondo lei, c'era un modo migliore per cambiare questo regno. Ed era arrivare al vertice: l'imperatrice del Feng Du si stava ormai ritirando dal potere per lasciare il posto a qualcuno in grado di succederle. Qualcuno che doveva dimostrarsi meritevole per il ruolo. Chiunque poteva partecipare alla selezione. Chiunque fosse coraggioso, dicevano. Herminia mi aveva già iscritto ed io, in realtà, avevo smesso di ribellarmi all'idea nel momento esatto in cui avevo capito che non c'era nulla da perdere.
Visto che non avevo mai avuto nulla. E se c'era stato, lo avevo già perso e dimenticato.
Diventare l'imperatore. Sembrava uno scenario talmente assurdo che avevo iniziato, per la forza del paradosso, ad abituarmi alla cosa. Diventare qualcuno, costruirsi nuovi ricordi, regalarsi un nuovo obiettivo e migliorare questo non-mondo di non-vivi. Dentro la mia anima, dove sentivo la stessa spinta a combattere, sapevo di potercela fare. Ne ero capace.
Ma mancava poco tempo alla grande prova, il cui vincitore avrebbe decretato chi fosse degno di regnare su Red Mask. Perciò continuavo ininterrottamente ad allenarmi. Mulinai sopra la testa la mia katana, saltando su un'asse che galleggiava sul pavimento sconnesso della pagoda, che era volutamente instabile, minacciando chi si allenava di cadere in acqua da un momento all'altro.
Una pioggia di frecce schizzò da fori dentro alla parete e mi curvai all'indietro proprio all'ultimo momento, appoggiando il peso del corpo sulle braccia, formando una specie di ponte col corpo, schivando le punte acuminate per un soffio.
Sentii da qualche parte dietro di me un gemito di dolore seguito da un tonfo e uno splash, il suono di un corpo che cadeva dritto in acqua. Non tutti erano abbastanza pronti per farcela. Per affrontare il labirinto del Feng Du. Avevo chiesto ad Herminia, numerose volte, se fosse a conoscenza di ciò che si nascondeva nel labirinto e perché fosse così complicato uscirne vivi... Ma lei mi aveva risposto di non saperlo. Nessuno lo sapeva. Solo gli imperatori che sopravvivevano alla prova, che mantenevano il segreto fino al prossimo regnante, che a sua volta aveva il compito di tenerlo per sé.
«Non ti distrarre, coccodrillo!» sibilò l'omaccione di fronte a me, menando un colpo di lama che schivai appena prima che mi squarciasse la pancia: sentii il mio abito stracciarsi ma la mia pelle rimase immacolata.
«Finiscila di chiamarmi così.» ringhiai, innervosito per ragioni che non sapevo nemmeno io. Quel tizio butterato mi rinominava così per via dei miei occhi, gialli come l'oro, ma con la pupilla leggermente più affilata. Gli occhi di un rettile. Occhi che... Ogni volta che incrociavo in un riflesso mi facevano contrarre lo stomaco. Ecco perché evitavo gli specchi.
Sfruttò la mia irritazione per piantarmi l'elsa della spada sul naso e mi ritrassi appena in tempo perché non lo rompesse, benché mi avesse lo stesso colpito. Me lo afferrai fra le mani, bofonchiando un insulto particolarmente colorito, prima di pulirmi via il sangue col dorso della mano. Ritornai attento ed incominciai un contrattacco serrato. Stoccata, parata, fendente, schivata, montante e ancora stoccata. Colpivo e colpivo senza lasciare un attimo di respiro, un secondo per ricambiare l'attacco, obbligandolo a restare in posizione di difesa.
Finché non gli volò l'arma di mano, che si tuffò e sprofondò nell'acqua oltre le assi che costituivano la traballante pavimentazione della pagoda d'allenamento. Ce n'erano molte sparse nel Regno. Poco frequentate, molto spiate: i tuoi avversari venivano a fissarti, a studiarti, a comprenderti. Ma a non interessava: mi piaceva dare spettacolo. Ed ero tanto sicuro di me che sapevo non costituissero un pericolo. Che s'informassero pure.
«Adesso siamo pari.» sogghignai, affilando le ciglia nerissime. L'altro mi guardò interrogativo, poi io gli scagliai l'elsa della katana contro al naso, da cui provenne un sinistro crack. «O quasi.» feci spallucce, mentre facevo strisciare la lama monofilare dentro al fodero e con un calcio mandavo il mio avversario a gambe all'aria, sprofondando nell'acqua.
Un secco, breve applauso provenne dall'alto, dalle balconate sicure della sala addestramenti. Una ragazza bruna avvolta da un cheongsam di seta rossa si sporse dal corrimano, appoggiandoci sopra i gomiti, con una mano sollevandosi la maschera cremisi che le copriva la faccia per mostrare un'espressione scaltra e compiaciuta. «Lascia qualche avversario per quando arriverà la prova! Non farli fuori tutti, farabutto!» ridacchiò, mentre io alzavo gli occhi al cielo e camminavo lungo le passerelle traballanti della sala, attento a schivare un paio di asce che ciondolavano in mezzo alla stanza creando un percorso ad ostacoli.
Mentre mi recavo all'uscita, la ragazza scese i gradini e si unì a me, ritrovandoci entrambi su un'unica gondola costruita in canna di bambù, che dondolava dolcemente sull'acqua. Prese il comando della barca, afferrando un lungo remo da manovrare in piedi, così da poter virare meglio fra le curve dei canali resi scarlatti dal tramonto che il cielo sfoggiava. Come sempre.
«Credi davvero che vincerò?» domandai, adesso che mi ero seduto sul sedile incavato nel bambù, poggiando sulle ginocchia le mani ruvide e macchiate di sangue per via dello scontro precedente. Me le pulii sui pantaloni scuri. «Intendo dire...» sospirai, lasciando vagare lo sguardo dorato sull'acqua e poi sulle pagode che scorrevano l'una dopo l'altra man mano che le oltrepassavamo. «... Credi davvero che possa diventare l'Imperatore di un Regno che a malapena conosco?»
Rallentò l'andatura della navigazione, curvando le labbra in un sorrisetto. «Qual è il punto migliore da cui guardare un regno?» Un breve silenzio, non aspettò in risposta, piuttosto sollevò una mano puntando verso l'alto. «Stando in cima.» Fissando quella stessa mano, per un attimo ebbi l'impressione che fosse posticcia. Non si muoveva per niente. Poi però lei abbassò il braccio, le dita vennero coperte dalla manica e tornai al pensiero precedente.
«Forse hai ragione.» mormorai, mordendomi il labbro superiore, che sparì per un attimo fra i denti, pizzicato dagli incisivi. «E voglio vincere.» Era quello il mio destino. Doveva essere quello. Perché altrimenti, non mi capacitavo di cosa mi aspettasse davvero. E per quanto provassi a pensarci, a sforzarmi di ricordare ciò che avevo dimenticato, non ci riuscivo. Quindi mi restava solo da guardare avanti. Il futuro era lì, a portata di mano. L'Imperatore.
La gondola si accostò dolcemente sul ciglio di un appezzamento di terra erbosa, da cui si ergeva una pagoda bianca, intorno alla quale si affastellava un bosco di ciliegi in fiori: il vento faceva agitare i petali rosa che sembrava danzassero in forme umanoidi per arrivare fino a noi, dandoci il benvenuto, prima che cadessero a terra e ritornassero ad essere semplici frammenti di fiori. Solo a quel punto Herminia decise di parlare.
«Se desideri proseguire con questo destino, ti serviranno nervi d'acciaio. Più avanti, ti aspetterà il vero Inferno.» mi guardò dritto negli occhi, con uno sguardo penetrante. «Sia che tu perda, sia che tu vinca.» Poi interruppe il contatto, voltandosi a legare l'imbarcazione ad un ramo per ormeggiarla e non perderla nella corrente. Non le diedi risposta: lasciai che quelle parole mi scivolassero dentro. Era quello che volevo?
Sì. Senza ombra di dubbio.
«Dove stiamo andando?» chiesi alla fine, scendendo dalla gondola subito dopo di lei. Un viale di arcate tinteggiate di bianco, simili a cancelli, conducevano una dopo l'altra verso le scale della grande pagoda. Si calò la maschera dalle fattezze mostruose sulla faccia ed io feci lo stesso man mano che salivamo i gradini. La katana mi batteva contro il fianco, ed era l'unico suono a parte un leggerissimo scalpiccio di piedi.
L'interno era buio, illuminato fiocamente da qualche torcia incasellata nelle pareti di pietra, che crepitava lentamente lungo il corridoio. La sala finalmente si aprì in un androne circolare a cielo aperto: al suo centro, un immenso ciliegio, i cui petali scintillavano scarlatti per via del tepore sanguigno del tramonto che entrava dall'alto. Aveva l'aria di essere lì da millenni, quell'arbusto, e sicuramente era così.
«Il Memoriale.» esordì la bruna in tono solenne, facendo un passo avanti. La sua voce, per via dell'architettura della stanza, riecheggiava e sembrava molto più alta del normale. «E' qui che siamo.» Prima che le chiedessi perché mi aveva portato in un posto simile, mi fece un cenno con la mano per invitarmi a seguirla lungo le pareti curve, che abbracciavano il ciliegio.
Appesi ai muri c'erano quadri che raffiguravano persone a grandezza naturale. Non persone qualunque, bensì i precedenti imperatori. Donne e uomini che reggevano fra le mani sempre la stessa maschera cremisi, grande, dipinta in un ghigno feroce, mentre loro sfoggiavano con fierezza e determinazione i volti altrettanto agguerriti. Targhe dorate sopra alle cornici riportavano i loro nomi, prima in caratteri per me incomprensibili, poi in lettere che riuscivo a leggere senza problemi.
«Ognuno di loro non era niente, non era nessuno, prima di uscire dal labirinto del Feng Du.» raccontò Herminia, mentre passeggiavamo lungo i dipinti. Forse sperava che mi sentissi ispirato, davanti a quella sfilata di volti antichi, benché di tutte le età, che sfoggiavano sguardi vittoriosi. Mi sentivo leggermente in soggezione, invece. Non mi figuravo bene fra quegli individui, come se non c'entrassi nulla fra loro.
E invece mi sbagliavo, dato ciò che vidi. I miei piedi si fermano di colpo. Sgranando gli occhi dietro alla maschera, mi riconobbi dipinto in un enorme quadro dalla datazione che risaliva a centinaia di anni prima. Io ero lì.
«Quello... sono io?!» soffiai, scioccato, strappandomi via la maschera dalla faccia come per toccarmela e assicurarmi che la mia faccia non fosse volata via per farsi inglobare da uno di quei quadri. L'uomo nella tela di fronte a me, alto e regale, guardava dritto verso il pittore con uno sguardo di gelo assoluto. Gli stessi occhi dorati, le stesse pupille affilate, la stella mascella tagliata a punta di coltello, lo stesso naso dritto, le stesse labbra carnose, gli stessi capelli corvini.
All'improvviso mi sentii disorientato, alienato, confuso. I brividi mi scivolarono lungo la schiena e mi chiesi, in un momento di sopraffazione e sbigottimento, come fosse possibile una cosa del genere. Ero io? Forse avevo perso la memoria, ma quell'uomo ero stato io? Avevo già regnato sul Feng Du?
«Rilassati.» Sentii una mano posarsi sulla spalla, stringendo leggermente. «Gli assomigli, ma non sei lui.» Assomigliargli era un eufemismo. Eravamo perfettamente identici, come due gemelli separati alla nascita. Incapace di separare i miei occhi da quelli speculari nel dipinto, a fatica lessi la targa che riportava l'identità di quell'uomo: Hēi, il Traditore.
«Cosa te lo fa dire con tanta certezza?» sussurrai, teso.
«Perché lo conoscevo.»
Girai la testa di scatto per guardarla, basito. Quell'imperatore era vissuto secoli prima. Quanti anni aveva Herminia? «Mi prendi in giro?»
«No, anzi.» Si tolse la maschera e riuscii a vedere l'espressione sul suo viso: stranamente combattuta, da qualcosa che io non potevo nemmeno immaginare. «Ero la sua consigliera. Ecco perché per me è importante trovare un nuovo imperatore. Lo sento... Un mio dovere.»
Battei lentamente le palpebre, turbato. «Ma non è strano? Che la consigliera dell'Imperatore ora stia preparando a far regnare un uomo che è perfettamente uguale a lui?» Serrai la mascella, posando la mano sull'elsa della katana e l'altra sul fianco, pensieroso.
«Forse. Ma è questo che ha voluto il destino.» Mosse il mento verso Hēi, restando ad osservarlo insieme a me. «E io non ho intenzione di oppormi ad esso.» L'uno accanto all'altra, i nostri occhi si incrociarono per qualche secondo. «E' per questo che ti ho portato qui. Volevo che lo vedessi.»
«Perché?»
«Perché ti insegnasse una lezione.» Si umettò le labbra, tornando a scrutare gravemente l'uomo dipinto. «L'impero di Hēi ha portato grande potere al Feng Du. Era un uomo freddo e crudele, ma concentrato sulla causa. I suoi sudditi lo veneravano.» Sospirò dalle narici, un suono lungo e abbattuto a labbra strette. «Durò a lungo. Ma non abbastanza.» La sua espressione si fece dura, le palpebre affilate mentre guardava l'aria di distante arroganza del corvino, così ben dipinta dentro al quadro. «Scelse di allearsi al nemico e scappare con lui. Sacrificò molte anime dei suoi seguaci per fuggire da questo regno. E abbandonarci tutti.»
Restai in silenzio. Non sapevo che dire. «Promettimelo.» proseguì, girandosi per dare le spalle a quell'uomo, che ormai esisteva solo sul mio viso. «Non farai il suo stesso errore.» Strinsi ancora più forte le dita intorno all'impugnatura della mia arma. «Non lascerai il tuo regno, per nessuna ragione.»
Deglutii. «Lo prometto.» Ma mentre lo dicevo, sentivo che prima o poi qualcosa mi avrebbe impedito di rispettare quella promessa.
❖ ❖ ❖
Quando pensavo che non sarebbe mai giunto, alla fine quel giorno arrivò.
Centinaia di barche si erano raccolte intorno alla maestosa pagoda imperiale, perno principale da cui si diramava l'intero sistema di cunicoli, canali, palafitte, pagode e isolotti. Ogni cosa nel regno di Red Mask gravitava intorno a quella struttura, quasi fosse stata lei a dare l'inizio a tutto. Ed era lei, oggi, che lo avrebbe fatto finire.
Dall'acqua si innalzavano banchi di nebbia e le gondole erano circonfuse da un tetro grigiore che lasciavano intravedere solo il rossore delle maschere, che nascondevano i volti di centinaia di sfidanti. Incapace di stare seduto, con i muscoli tesi per via dell'adrenalina crescente, stringevo in una mano l'alto e affusolato bastone da cui pendeva la mia lanterna di carta, riempita di anime. Il loro azzurro baluginio mi danzava sulla maschera. A torso nudo, indossavo pantaloni harem neri e tutta una serie di cinghie, cinture e fondine piene di spade e pugnali. Ero armato fino ai denti e sentivo che non mi sarebbe bastato. Eppure, non avevo paura. Sentivo piuttosto un senso di crescente urgenza: il labirinto mi chiamava a sé.
Continuai a remare finché, insieme a molte altre imbarcazioni, non raggiunsi uno fra i tanti pontili di legno, che conducevano dritto dritto verso la pagoda, dentro porte che erano semplici rettangoli nell'oscurità. Spalancate come le bocche di una bestia. Ce n'erano abbastanza perché ognuno avesse il suo ingresso personale. Centinaia e centinaia di porte aperte, in attesa di mangiarci tutti.
«Ascolta...» iniziò Herminia, prima che saltassi sul pontile, senza ormeggiare la gondola. Mi girai verso di lei, che mi afferrò per il polso e mi attirò a sé in un imprevedibile abbraccio. Non eravamo mai stati in rapporti così intimi, benché passassi la maggior parte del mio tempo con lei. Trovai quel gesto così inusuale che non lo ricambiai nemmeno. «... Il labirinto ti cambierà. Vorrà distruggerti. Farti impazzire. Vorrà che ti trasformi in un mostro.» mi sussurrò all'orecchio.
«Qualsiasi cosa accadrà lì dentro, devi tornare.» continuò, sciogliendo la stretta. «Lo hai promesso.» Poi accennò al pontile con un movimento del mento e tornò seduta sulla gondola, prendendo il remo.
Saltai sul pontile e mi voltai a guardarla, per un'ultima volta. «Tornerò.» Fu tutto ciò che le dissi. Poi incominciai a camminare verso l'ingresso oscuro e spalancato del labirinto. Quando solcai la soglia e l'aria calda e acre mi avvolse insieme alle tenebre, l'apertura alle mie spalle si sigillò con uno strisciare di pietre. Troppo tardi per tornare indietro.
Ma sapevo già che non sarei tornato, non come l'uomo che Herminia conosceva. Quella era una fine.
Presto, ci sarebbe stato un nuovo inizio.
❖ ❖ ❖
*NDA - Un angolo meravigliosamente halloweeniano*
Hola!
Che dire, le feste creepy mi mettono tanto di buon umore, danno un sacco di ispirazione, sempre! Parlando del capitolo: lo so, sono stata cattiva a cacciarvi fuori il POV dopo il finale precedente, ne sono consapevole. Del resto, questo è l'ultimo POV della storia, d'ora in poi ci saranno solo le sorti del nostro Helias. Sappiate che questi capitoli misteriosi sembrano non avere importanza per la storia principale... Ma fidatevi, ce l'hanno, anche tanto! E lo scoprirete. Ma non subito, ovvio (gheheh). Di sicuro ho seminato molti indizi, magari qualcuno di voi ha già capito qualcosa... Altre cose invece non potete anche immaginarle (*risata malvagiua in sottofondo*). Spero, in ogni caso, che vi sia piaciuto!
Alla prossima ~
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