4. L'Assassino e l'espediente
«Ogni concetto è un espediente»
- Paul Valery
«Non vuoi mangiare, Helias?»
La voce di quel misterioso uomo mi rimbombò dentro alle orecchie, riecheggiando infinite volte, senza però che io lo ascoltassi. Rimasi semplicemente a guardare il minuscolo fuocherello che aveva acceso, niente che potesse proteggerci dal freddo autunnale, ma abbastanza per poter cuocere qualsiasi cosa avesse infilzato nello spiedo. Non poteva ravvivarlo in alcun modo: diversamente, ci avrebbero scoperto a causa del fumo fra gli alberi.
Ma non mi importava in quel momento. Riuscivo soltanto a fissare le fiamme, aranciate, vorticanti, voraci. Senza preoccuparmi delle guardie. Come se non m'interessasse più nulla. Il mio trucco, adesso, non era più la pazzia. Il nuovo espediente era lasciarsi scivolare ogni cosa addosso. Sì, guardavo il fuoco e basta.
Una volta Yul mi aveva aiutato ad appiccare un incendio: la sera del ballo dell'Orchidea, la notte in cui un branco di nobili pervertiti stava per acquistarmi all'asta come una specie di schiavo, chissà poi per quale ragione perversa. Quella volta mi aveva salvato, ed io avevo dato fuoco a tutto quanto, mentre il caos imperversava intorno a noi.
Quello stesso giorno c'eravamo baciati per la primissima volta, nascosti dal buio della nostra carrozza, riscoprendo il piacere di stare l'uno nelle mani dell'altro. Così mi ero reso conto di quanto potessero essere belle le sue carezze. Se mi concentravo, potevo ancora sentire quelle sue labbra calde che premevano contro le mie. Potevo ancora percepire il sapore di menta e caramello contro il palato e il fuoco vivo che mi aveva arso dall'interno.
Un'altra volta eravamo scampati ad un incendio: la nostra ultima missione per la Gilda degli Assassini, quando Alaister ci aveva imbrogliati e raggirati, ed io avevo finito per uccidere uno dei pochi cittadini facoltosi di Darlan schierato contro la tratta di schiavi. Quella notte eravamo davvero fiduciosi. Non importava del sangue che colava dal taglio sul braccio di Yul, non importava la consapevolezza che si faceva strada nella mia mente, mentre comprendevo l'inganno che avevano intessuto tanto bene intorno a noi. Guardavamo le lingue di fuoco che lambivano il cielo, e sapevamo che Alaister Noir e i suoi stupidi assassini non ci avrebbero più avuto in pugno. Ricordavo perfino che cosa dissi allora.
E' finita.
Era iniziato tutto dal nostro primo incarico insieme, per la Gilda; era iniziato da quell'incendio al ballo dell'Orchidea. Ed era finita con l'ultima missione; l'incendio nella tenuta di Joseph Martin. Quando c'eravamo guadagnati la libertà, senza sapere che cosa ci aspettava. Senza minimamente sospettarlo, troppo abbagliati dalla felicità che credevamo c'aspettasse dietro l'angolo.
"Patirai il più grande dei dolori"
Qualcuno me lo aveva detto. Non ricordavo più chi fosse. C'erano solo le parole che mi entravano nella testa e vorticavano insieme al fuoco, bruciandomi dall'interno, lasciando di me soltanto rovine carbonizzate. Il sapore di quel mondo arso dal fuoco del dolore mi impregnava le labbra tutt'ora.
Era vero. Il dolore era così tremendamente vero che mi chiedevo come potessi essere ancora vivo. Non esisteva agonia più grande di vivere e sapere che io, adesso, stavo lottando per guadagnarmi quello che più di tutti avrebbe dovuto avere lui. Lui che mi aveva spinto a guardare oltre, a non accontentarmi dei regali, del lusso, dei vestiti, perché potevo essere libero, assieme a lui.
Un dolore lacerante mi esplose all'altezza del petto e lasciai andare un silenzioso mugolio pregno di sofferenza. Non avrebbe mai smesso di far male. Neanche guadagnandomi quella libertà per cui il mio rosso si era battuto tanto. Tutto ciò che era finito era il mio futuro con lui. Ma dovevo ignorarlo. Dovevo ignorare il dolore, lasciarlo ad inondarmi, così che poi avrei finito per dimenticarlo, fino a farlo diventare una parte di me. Lo stratagemma era ignorare tutto.
«Helias?» Lo sconosciuto buttò fuori dalle labbra un leggero sospiro, che nel silenzio della sera rimbombò come una specie di frana lungo le lontane montagne desolate che avevano sempre fatto parte dell'agghiacciante paesaggio di Ender. «Invece del pesce preferisci la selvaggina?»
Non risposi. Non avevo voglia di cibo. Non ne avevo bisogno.
Tanto tempo a patire la fame, che alla fine avevo smesso di soffrirne. Quasi il mio corpo fosse diventato un semplice contenitore fracassato, che pian piano si restringeva su se stesso, stritolando la mia anima. Ormai lo stomaco si era chiuso, aggrovigliato in un nodo impossibile da sciogliere, e temevo che se avessi ricominciato a mangiare, allora sarei stato capace di rigettare qualsiasi cosa. Perciò mi limitai a guardare le fiamme. Era tutto finito, comunque. Ma non nel modo in cui speravamo io e Yul.
Niente viaggio nel Continente Meridionale. Niente pomeriggi passati a guardare lo scintillio del sole dentro al fiume. Niente bagni nella stessa minuscola vasca dai piedini di leone. Niente bisticci sull'ultima fetta di crostata. Niente carezze davanti al camino. Niente azzuffate nelle fosse dei lottatori. Niente distese di fiori sulle pareti di casa. Niente confessioni sussurrate l'uno contro la curva del collo dell'altro, abbracciati stretti. Niente lacrime l'uno sulle spalle dell'altro.
Chiusi gli occhi, comandandomi di non piangere ancora. Di non urlare. Di non pregare in continuazione per scorgerlo fra gli alberi, di non sperare nell'impazzire ancora una volta pur di rivederlo al mio fianco, di non provare quella sensazione d'attesa dentro al petto. Come se fosse stato ancora vivo, lì fuori, da qualche parte. Yul era morto e dovevo accettarlo. Strizzai le palpebre, e mi implorai di non sentire ancora la paura fracassarmi i timpani.
«Dovresti mangiare qualcosa.» Dopo un lungo silenzio, l'uomo riprese finalmente a parlare. Separai lentamente le ciglia, vedendole tremolare appena. «Anche solo un morso.»
Alzai gli occhi verso di lui: i capelli grigi eppure scintillanti come l'argento erano ancora stretti in una lunga treccia, che gli stava posata sulla spalla e proseguiva ancora più in basso, incredibilmente lunga. Anche i suoi occhi color malva guardavano il fuocherello, e il riflesso distorceva il viola in una strana tonalità aranciata.
«Il percorso più avanti diventerà pericoloso, e ci stanno ancora cercando.» spiegò, sollevando lentamente le pupille verso di me. Riuscivo poco a specchiarmi in esse, ma dal minuscolo riflesso riuscivo a notare il mio aspetto desolante. «Non so se avrò il tempo o se riuscirò a trovare cibo.» Un cenno verso lo spiedo che teneva in mano. «Dovresti davvero prendere un po' di pesce.»
Strinsi le labbra abbastanza forte da farmele sbiancare. Mangiare mi sarebbe servito per riuscire ad allontanarmi, a fuggire, e a cercare la libertà.
Perciò allungai la mano verso lo spiedo, sentendo il ruvido bastoncino sotto ai polpastrelli ed indugiando con il pesce davanti alle labbra. Lo sconosciuto mi fissò per qualche istante, prima di farmi un cenno d'incoraggiamento col capo. Perciò, staccai lentamente un morso, ma non riuscii a masticarlo granché: mi limitai a mandarlo giù, percependo vividamente il percorso di quel singolo pezzetto di cibo dentro alla gola e poi sempre più in basso, sempre più in basso. Come se fosse stata una specie di intrusione nel mio organismo. Ma mi forzai a prendere un secondo morso, mentre l'ondata di nausea mi assaliva così ferocemente da cogliermi con un capogiro.
Presi un profondo respiro, lungo ed intenso, inalando e poi buttando fuori l'aria fredda, impreziosita dal profumo della natura e dall'odore della carne abbrustolita del pesce. Eppure, quella sensazione disgustosa non accennò ad andarsene.
«Ci fermeremo qui per la notte.» disse lo sconosciuto, calpestando i residui del misero fuocherello che aveva acceso e guardandosi intorno, tendendo l'orecchio per cercare di udire passi lontani. «Forse hanno deciso di sospendere le ricerche per ricominciare all'alba...» mormorò, lentamente, come se non ne fosse convinto nemmeno lui. Io non lo ero. Anzi, ero piuttosto certo che il re non si sarebbe dato pace fino a che non mi avrebbe riacciuffato e rigettato dentro al buco nero che erano le miniere di sale. Probabilmente lo sapeva anche quel ragazzo, ma sperava che non ammettendolo ad alta voce, saremmo stati più al sicuro. Peccato, però, che nessun posto era sicuro, non se ci trovavamo nel Continente Magico.
Ora che la notte era calata e che la situazione sembrava essere più calma, avrei dovuto approfittarne: non mi lavavo da un lungo anno estenuante. Avevo la pelle cosparsa da uno strato nerastro di sporco e di sale ruvido, i ricci così unti e lunghi da arrivarmi fin quasi alle scapole, troppi strati di sangue incrostato sotto alle unghie e chiazze rosse e secche sui miei stracci così consunti e logori che mi trascinavo dietro brandelli di stoffa, come una specie di spettro da storia dell'orrore.
Ad Ender nessuno ti dava le scarpe, perciò, le garze che mi ero avvolto intorno alle piante non erano bastate a proteggermi: un po' di sangue vecchio da ferite rimarginate e uno strato abbondantissimo di fango mi impregnavano i piedi, quest'ultimo arrivando sino alle caviglie, schizzando i polpacci. Inoltre, ero sicuro di avere le labbra talmente secche e piene di spaccature da sembrare una specie di mummia.
Ma non c'era abbastanza tempo per pulirmi, risistemarmi, tentare di sembrare umano invece che un fantasma agghiacciante. Ero sicuro che i miei occhi non fossero più scintillanti come quelli di una volta. Qualcosa si era spento. Dovevano senza dubbio essere diventati opachi, come delle pietre grezze e ruvide, che guastano la bellezza di un gioiello. Non c'era più niente di bello in me.
Non che la bellezza mi servisse a qualcosa. Non vivevo più nella grande e mondana Skys Hollow, non mi serviva più il fascino per attrarre un nobile che la sera stessa avrei ammazzato. Non possedevo più gli abiti lussuosi, le spille luccicanti. Non c'era più nulla di... Sfavillante, in me. In effetti, se ad Ender avessi parlato a qualcuno della mia identità, non ci sarebbe stato da stupirsi se quel qualcuno sarebbe scoppiato a ridere.
E poi, un ragazzo così giovane non poteva essere davvero un pluriomicida tanto abile quanto lo ero stato io. Mi chiesi se, dopo tutta la violenza dentro a quel campo di lavoro, sarei ancora stato tanto fiero del mio essere Assassino. Ma un tempo il mio compito consisteva nell'uccidere proprio quelli che sostenevano il re e mandavano avanti il suo regime del terrore, un po' come quelle guardie e quegli aguzzini che legavano ai pali della fustigazione e si divertivano a mietere morte senza pensarci due volte. Come se tutte quelle persone, molti più ribelli innocenti, che criminali, non fossero altro che cose. Oggetti rotti a cui far male.
E allora sì, non potevo far a meno di essere fiero di me stesso. Non potevo non vantarmi di essere stato Sfavillo e di aver fatto fuori quei luridi mostri.
Il senso di nausea dentro al mio stomaco si propagò in maniera sempre più forte, quando pensai a tutta la gente che era rimasta dentro, mentre io me ne stavo fuori, nel bosco. Sapevo di dovermi riprendere. Sapevo che dovevo rialzarmi, ricominciare a vivere. Ma era troppo faticoso. Faceva troppo male.
Avevo visto l'assassinio di mia madre a sei anni. Avevo vissuto come uno lurido ladruncolo fino ai dieci. Ero diventato lo schiavo di un porco che aveva tentato di abusare di me, e che alla fine era diventato la mia prima vittima. Ero stato a Treblin e poi ero fuggito per pura fortuna, solo grazie all'aiuto di Alaister. Ero diventato un sicario, il più bravo di tutti. E alla fine mi ero innamorato ed avevo provato ad osare. Volevo soltanto essere felice. Invece, avevo perso tutto quanto.
Ero così stanco di lottare. Era così sfiancante sapere che, prima o poi, le cose sarebbero comunque andate male. Yul era morto, io ero finito ad Ender e il mondo intero intorno a me si era sbriciolato.
Che ne era di Alaister? Che ne era di quell'antipatico di Lysandro? Che ne era di Trill, la guardia del corpo che aveva tentato di dirmi qualcosa prima del disastro? Che ne era del resto della Gilda? Perché nessuno era venuto a salvarmi?
Ogni domanda s'intervallava ad una cupa fitta di nauseabondo dolore. Ogni volta che quel senso di vomito premeva contro al mio stomaco, riuscivo quasi a percepire il percorso di quel singolo pezzetto di cibo che avevo ingoiato un paio di minuti prima. Perciò mi alzai, barcollando in maniera piuttosto instabile sulle ginocchia. Come un ubriaco. O meglio, con una smania febbrile che avrebbe fatto pensare di me che fossi una specie di moribondo. Forse era così.
Allungai lo sguardo fin dove mi era possibile, scrutando nel buio, alla ricerca di un sentiero agibile da percorrere per allontanarmi di qualche passo. Era vero, ero in condizioni patetiche. Ma non mi sarei fatto vedere da quell'uomo piegato sulle ginocchia a vomitare.
«Dove stai andando?»
La richiesta riecheggiò fra gli alberi alti e pieni di aghi verdi, mescolandosi agli sporadici versi notturni che emettevano gli animali. Mi limitai a lanciargli uno sguardo brevissimo, assieme ad una scrollata del capo che faceva pensare stessi negando qualcosa. Non risposi, quindi, mentre mi dileguavo lentamente fra i cespugli secchi e arzigogolati di ramoscelli, fra cui s'impigliava il suo mantello, che mi aveva posato sulle spalle per riscaldarmi. Ero così magro che sembrava bastarmi una folata di vento per volare via. Forse era per questo che me lo aveva dato, per non farmi sospingere via dall'aria gelida.
Comunque, non mi inseguì. Doveva aver capito che avevo bisogno di qualche attimo di solitudine. E poi, poteva essere per il bagno. Non che avessi chissà quali bisogni fisiologici, visto che non mangiavo da così tanto tempo che mi ero dimenticato il gusto della maggior parte dei cibi. Al ricordo delle torte a tre piani o di quelle tartine al caviale che servivano sempre nei banchetti alle cerimonie lussuose, il voltastomaco minacciò di farmi piegare sulle ginocchia, ma repressi la nausea ancora una volta e proseguii.
Trascinai lentamente i piedi, scostando in fretta i cespugli pieni di rovi graffianti che al passaggio mi lasciavano lunghe striature rosse sulle braccia, rigando anche lo sporco. Poi, dopo un paio di metri, mi misi a correre: non perché volessi sfuggire da quello sconosciuto. In verità, non avevo alcun motivo per cui fidarmi e vicendevolmente lui non aveva alcun motivo per venirmi a salvare in un posto tanto pericoloso quanto Ender. Dal mio punto di vista. Dal suo? Ci doveva essere per forza una ragione, e l'idea di venir usato, in futuro, per qualcosa che io non conoscevo o non approvavo, generalmente non mi sarebbe piaciuta. Adesso non m'importava nulla.
E non volevo fuggire perché c'era qualcosa, in quell'uomo, che mi spingeva a stare tranquillo. Un alleato completamente diverso da come lo sarebbe stato Alaister Noir: il Re degli Assassini era capace di farti sentire in soggezione e farti ghiacciare il sangue nelle vene anche senza fare assolutamente nulla. Peggio, quando non faceva niente c'era da preoccuparsi ancora di più. Il ragazzo dagli occhi viola, invece, aveva un che di quieto che, senza usare le parole, sembrava dirmi: "Non accadrà nulla di male".
Ma continuai a correre, a mettere distanza, sentendo il vento ruggire contro la mia faccia e asciugarmi le lacrime aggrappate agli angoli degli occhi, che sembravano seccarsi fra le ciglia, senza però abbandonarmi mai. L'espediente era ignorare tutto.
L'espediente era non sentire in modo tanto vivido la debolezza che mi arpionava le gambe, che mi gravava sulle spalle, che minacciava di farmi svenire.
L'espediente era non avvertire un pulsante dolore quando ad ogni passo i miei piedi martoriati calpestavano qualche sasso, ramoscello, radice, solcandomi la pelle di nuove piaghe.
L'espediente era non ricordare che le guardie di Ender mi stavano cercando anche adesso, e che non avrebbero mai smesso fino a che non mi avrebbero visto di nuovo dietro alle cancellate di filo spinato.
L'espediente era di non rivivere ogni notte la perdita di Yul, e di non rammentarmi tutto quello che era successo un anno fa. Di non percepire sulla mia stessa pelle la sua morte, la sensazione del suo sangue scivoloso e sempre più freddo fra le dita.
Crollai a terra, aggrappandomi all'albero che avevo al fianco, il braccio teso ad ancorarsi alla corteccia, le dita che graffiavano. Cercai di tener chiusa la bocca, ma non servì a nulla: vomitai quel singolo boccone di cibo che avevo tentato di far assimilare al mio corpo, invano. Sentii l'acidità graffiarmi la gola, i brividi scuotermi le spalle, lo stomaco contrarsi ed allentarsi nel tentativo di farmi continuare a vomitare, anche se non avevo più nulla. Tanto che continuai a sputare saliva, e tossire, fino a che non fui così stremato da accasciarmi contro l'albero, respirando forte ad occhi chiusi.
Probabilmente mi sarei addormentato lì. Non m'interessava che avessi lasciato indietro quello sconosciuto. Sì, sicuramente mi sarei addormentato e avrei cercato di non sognare ancora il mio assassino dagli occhi blu come la notte, una notte più splendente e più bella di quella che stavo vivendo adesso. Sempre che quello che stessi facendo si chiamava vivere. Tuttavia, qualcosa mi allontanò dal mio intento così velocemente che spalancai gli occhi di botto, tendendo il corpo come un musicista avrebbe teso la sua corda di violino: diventai un fascio di nervi contratti.
Un ringhio. Riuscii benissimo a sentirlo, accompagnato da lontani ululati che squarciarono l'aria mentre si avvicinavano.
Mi rialzai così in fretta che la debolezza mi annerì lo sguardo per un secondo di troppo. Sfarfallai le ciglia, cedendo al capogiro barcollando, per poi sentire un secondo ringhio. E un terzo, dietro al gruppo d'alberi più vicino a me. Un senso di allarmante paura mi colse alla sprovvista, quasi avessi pensato fino ad ora di riuscire ad ignorarla del tutto.
L'espediente non stava funzionando.
Non quando il muso affusolato di un lupo spuntò fra i tronchi, avanzando lentamente verso di me come una specie di apparizione maligna. Come un fantasma che poteva soltanto portare con sé maledizioni terribili. Aveva il grugno arricciato, irto di zanne acuminate, ed incastrato fra di esse c'era un pezzo di stoffa lercia. Assomigliava tanto a ciò che stavo indossando ora. Forse fu proprio a causa di quello, che mi capacitai di cosa avevo realmente davanti.
Non era un semplice lupo: era uno di quei segugi selvaggi che il Re di Darlan sguinzagliava quando doveva scovare un ribelle particolarmente abile a sfuggire dalle sue mire. Ne avevo sentito parlare, ovviamente, come ogni altro aneddoto agghiacciante che correva attorno alla spaventosa fama del Re. Ma era una di quelle storie grottesche che ci si narrava fra gli assassini come presa in giro.
"Ora ti vanti, ma un giorno i segugi del Re verranno a dilaniarti!"
Non immaginavo che esistessero davvero. Ecco perché quando ne vidi spuntare un altro accanto al primo, e con la coda dell'occhio registrai la presenza di un terzo alle mie spalle, sentii il mio corpo paralizzarsi sul posto. Farsi di ghiaccio. Quelli non erano semplici lupi, o semplici animali. Quegli occhi rotondi e azzurro ghiaccio celavano qualcosa di profondamente oscuro, qualcosa che puzzava di magia nera, qualcosa che mi ricordava in maniera trivellante e viscerale lo sguardo crudo e gelido del Re.
L'espediente era ignorare tutto. Ma non riuscii a dimenticare lo sguardo spaventoso del Re. Non riuscivo a smettere che mi tornassero alla mente le parole che mi aveva rivolto durante la mia condanna. Più guardavo quella belva, appiattendomi contro la corteccia dell'albero, più quelle parole mi rimbombavano nelle orecchie.
"Se è una morte facile ciò che desideri, Sfavillo, non te la darò di certo."
Mi sentii tremare le viscere, traballare ogni singolo ossicino dentro al corpo, ghiacciare ogni fibra del mio sangue.
"Non fin quando non avrai sofferto come si deve"
Un vento gelido spirò fra gli alberi e sospinse i miei capelli lontano dalla nuca, solleticandomi la spina dorsale con la stessa brutalità che avrebbe avuto una mano artigliata. E anche se sapevo che quella voce si nascondeva soltanto nella mia testa, anche se sapevo che il vero pericolo si trovava di fronte a me, mi tappai le orecchie con le mani ed implorai che smettessi di sentirlo parlare.
"Così avrai l'opportunità di godere della speciale agonia di Ender."
Il ringhio si intensificò, il primo lupo prese slancio sulle zampe, si preparò a saltarmi addosso spalancando le fauci scintillanti, pronte a strapparmi la gola a morsi. Ma io non riuscivo a muovermi, con le gambe bloccate ed un urlo agghiacciato che mi salì in gola e che riecheggiò fra i rami sopra di me. L'espediente non aveva funzionato affatto. Non riuscivo ad ignorare nulla. E forse adesso era realmente arrivato il momento di raggiungere Yul.
Fino a che non sentii un paio di braccia stringermi la vita e strapparmi da terra, quasi sollevandomi, trascinandomi via a tutta velocità: lo sconosciuto iniziò a correre così rapidamente che riuscivo ad inalare ossigeno in strappi fugaci, ed i miei piedi venivano sospinti dalla forza della sua velocità, quasi camminasse al posto mio. Sapevamo entrambi che riuscire a seminare un segugio sarebbe stata una missione complicatissima, se non impossibile.
«Mi stavo preoccupando visto che non tornavi!» Nonostante la voce affannata, si riusciva ad intuire benissimo quanto fosse infuriato. Anche se non lo stavo guardando in faccia. «Perché sei arrivato fin qui?! Quelli sono segugi! Saresti morto, Helias!» Si voltò a guardarmi con la faccia contratta in una maschera di sorprendente collera. «Smettila di desiderarlo così tanto!» Sembrava quasi portarmi rancore, per quello. Poi, però, riprese a correre, con la cascata di ululati che rimbombava tutt'intorno a noi come una canzone funebre che scandiva gli attimi prima della nostra morte. Non sapevo nemmeno perché fosse così arrabbiato, non sapevo come riuscissi ancora a muovermi.
Sapevo solo che la sua mano era calda, che mi stringeva il palmo così forte da farmi male. E sentivo il suo braccio tremare assieme al mio. Aveva paura tanto quanto ne avevo io. E la nostra paura peggiorò quando piccole luci aranciate ed ondeggianti si accesero nel buio. Le luci lontane di piccole fiaccole accese, di voci dure e minacciose che scandivano ordini.
«Merda... Le guardie!» sibilò un'altra imprecazione fra i denti, e poi mi caricò in spalla una seconda volta, come aveva fatto quella stessa mattina, correndo ancora più veloce, quasi cercasse di superare un record personale. «Tieniti forte.» Mi aggrappai alla sua casacca senza dire nulla, ma lasciandomi sospingere dall'evolversi spaventoso degli eventi. Se solo avessi avuto una mano libera, allora avrei stretto la chiave di mia madre. Era sempre così coraggiosa, lei.
«ECCOLI!»
Le voci riecheggiarono intorno a noi assieme agli ululati, ed io mi sentii bombardato dalla terrificante consapevolezza di non avere più via d'uscita. Niente libertà in vista. Sarei ritornato ad Ender e ci sarei morto.
«Non importa cosa dovrò fare.» incominciò il ragazzo, continuando, affannandosi nella corsa, nonostante ci avessero visto e avessimo i lupi alle calcagna. Una freccia fischiò sopra le nostre teste. «La principessa non c'è più. Sei tu il mio padrone.» Sentii la presa delle sue mani farsi ancora più salda e solida. Non avevo idea di cosa stesse parlando. «La tua esistenza era soltanto una leggenda, e invece...» sussurrò, forse a se stesso, forse non a me. Ma poi si fermò di botto, nascondendosi dietro ad un albero, posandomi a terra, afferrandomi le spalle in una presa forte. Fortissima. Faceva quasi male. Doveva essere la paura. «Ascolta, non abbiamo molto tempo. Tu non puoi morire.»
Quelle parole iniziarono a suonarmi stranamente familiari, in una maniera contorta e assurda, come se fossi sul punto di avere un dejà-vù. «C'è qualcuno che ti sta aspettando. Devi vivere, perché se tu muori noi siamo persi.» Qualcuno mi aveva già detto queste parole. Non sapevo quando, o dove, ma ero sicuro di averle già sentite. Lui però, mi scosse forte per le spalle, come se non volesse più vedere il mio sguardo imbambolato. Niente più espedienti. Dovevo affrontare quello che stava accadendo. «E ora scappa. Non mollare adesso, scappa!»
Sapeva che ci avevano visti, e per questo mi strappò dalle spalle il mantello mettendoselo addosso, alzandosi il cappuccio sulla testa. Era parecchio più alto di me, ma quando piegò un poco le ginocchia capii che cosa voleva fare: un diversivo.
«Usami per sopravvivere. E' per questo che sono qui.»
Fu quella l'ultima cosa che disse, prima di lanciarsi fuori dalla curva riparata dell'albero, in una corsa folle proprio davanti al manipolo di guardie che tendevano il filo rigido dell'arco, prendendolo di mira. Per far credere che fossi io, doveva tenere le ginocchia piegate, e per questo stava rallentando. Non ce l'avrebbe mai fatta.
Per qualche istante rimasi a guardarlo ad occhi spalancati, sconvolto, il viso che era diventato una linea di chiaroscuri per come ogni piega era incavata pesantemente da espressioni sempre più scioccate. Le labbra serrate dal terrore e le gambe colte da un tremore impossibile da fermare. Ma poi mi voltai, poi cercai di sfruttare quel diversivo che lo sconosciuto mi stava fornendo anche a costo della vita.
Le guardie non si erano ancora accorte di me, ma non avrei ingannato ancora per molto i segugi, questione di pochi preziosi secondi che dovevo sfruttare fino all'ultimo. Perciò cercai di scacciare quell'amara sensazione di perdita e di familiarità, come se stessi lasciando indietro una specie di fratello. Cercai di correre, aggrappandomi a tronchi e rami come per darmi uno slancio, una velocità che facevo fatica ad avere per quanto mi sentivo a pezzi.
Ma quel tarlo del dubbio continuava a rosicchiarmi la memoria. Ancora e ancora, fino a che qualcosa non mi disse di fermarmi. Qualcosa.
Mi voltai a guardare il ragazzo già lontano e, in quello stesso istante, una feroce folata di vento gli fece cadere il cappuccio dalla faccia, scoprendogli il viso, che non era il mio. In quello stesso terrificante momento, in cui lui si era quasi fermato dalla sorpresa, una freccia gli si piazzò in mezzo alle scapole, tagliandogli di netto la treccia d'argento che atterrò ai suoi piedi come una specie di serpente morto. Poi ricordai.
"Devi sapere che gli unici modi per uccidere un vampiro sono la decapitazione o un paletto nel cuore"
Ricordai ogni cosa.
Ricordai la sua voce, che mi parlava in sogno e mi diceva che era incredibile che esistessi. Ricordai che mi aveva detto di stare attento al vampiro, di ammazzarlo prima che lui ammazzasse me. Ricordai, anche, che aveva cercato di avvisarmi e di dirmi di non andare ad Ender, ma io non l'avevo capito. Ricordai perfino quando m'aveva avvisato di nascondere gli occhi.
E capii che era Lui. La voce misteriosa che ogni tanto mi aveva parlato e aveva cercato di accorrermi in aiuto. La voce che avevo finito per dimenticare, perché credevo che fosse soltanto la voce della mia coscienza. Invece era un ragazzo in carne ed ossa, ed era venuto a salvarmi. Ecco perché riusciva a parlarmi anche soltanto nella mente.
Ora, stava continuando ad aiutarmi, ancora. Ed era stato colpito per causa mia, per fingersi me e permettermi di scappare. Ma smisi di fuggire e rimasi a guardarlo mentre cadeva ginocchia a terra, e poi sempre più giù, steso di faccia contro il terreno. Immobile, mentre le guardie si avvicinavano. Immobile, mentre i segugi incombevano. Immobile, mentre io lo fissavo.
Non sapevo quale forza fu in grado di animarmi in quel momento, non sapevo con quale coraggio, o quale nuova pazzia iniziai a correre dritto verso di loro. Sapevo soltanto che non avevo bisogno più di alcun espediente, perché non potevo ignorare la realtà che mi circondava. Non dovevo scappare, io dovevo combattere. Mia madre, Yul... Non avrei permesso più a nessun altro di morire per causa mia. Basta con le morti. Quello sconosciuto non sarebbe morto. Non oggi.
Perciò strappai dalla terra una freccia vagante che, nel tentativo di colpirci, era rimasta conficcata nel terreno. La afferrai come fosse un pugnale, con la mano stretta così saldamente attorno allo stelo ligneo del dardo che le nocche mi erano sbiancate. Le dita vicino alla punta di ferro smussata e sporca di fango. Per un momento immaginai di essere ancora il vecchio me stesso. Immaginai di incombere verso la mia vittima come un bellissimo e letale mietitore della morte: saltai addosso alla guardia più vicina ancor prima che potesse alzare un dito, figuriamoci una spada.
In men che non si dita, la freccia che stringevo gli trapassò la gola da parte a parte, ed io la spinsi nel suo collo fino a che non sentii le dita affondare dentro la carne viva, cospargendosi di sangue. E poi mi staccai, continuando a colpire e a menare fendenti, schivando le sferzate delle spade e delle fruste. L'unica fortuna che avevo, adesso, era quella di combattere contro le guardie: si tenevano a debita distanza dai segugi, che a stare troppo vicino alla persone, smettevano di far differenza fra guardie e criminali e sbranavano chiunque. Ero più che certo che all'odore del sangue si sarebbero dimenticati del mio.
Quando anche la quinta guardia del gruppo di ricognizione più vicino cadde a terra, io mi catapultai verso il mio aiutante cercando di smuoverlo, di sollevarlo per le spalle: non era morto e non era del tutto svenuto, perciò fu lui stesso ad alzarsi, gemendo di dolore. Stava sudando freddo e continuava a perdere fiumi di sangue e i ciuffi di capelli che ora gli arrivavano all'altezza della nuca, ma non lasciò andare la mia presa.
«Veloce!»
Lo spinsi in avanti, senza capire chi trascinasse chi e senza mollare la mia unica arma imbrattata di sangue. Altri gruppi di guardie si avvicinavano, ormai attirati dalle urla che avevano sentito e dall'ululare dei segugi che si faceva ancora più intenso. Perciò continuammo la fuga, ancora più allarmati e sconvolti di prima. Non c'era più tempo per parlare, o per fermarsi. Dovevamo soltanto correre più veloce che potevamo, sperando di seminarli. E per qualche istante quasi pensai di riuscirci, vedendo le luci delle fiaccole farsi più piccole fra gli alberi, come delle lucciole che volteggiavano disegnando cerchi arancioni nell'aria.
Ma l'ultimo brandello di speranza mi abbandonò del tutto quando il bosco si interruppe bruscamente per scoscendere in un vertiginoso dirupo. Più sotto, la foresta continuava a distendersi fino ad arrivare alle montagne, che si ergevano appuntite contro il cielo. Sembrava quasi un enorme tappeto di velluto verde, da lontano. E forse, con un po' di fortuna, tutti quegli alberi avrebbero attutito la caduta. Ma era impossibile stabilirlo ad una tale altezza. Non potevamo saltare.
Helias.
La voce dello sconosciuto continuò a parlarmi nella mente come aveva fatto già in passato. Probabilmente cercando di richiamare la mia attenzione: difatti, quando mi voltai, ebbi appena il tempo di accorgermi che un manipolo esagerato di guardie si era stretto a mezzaluna intorno a noi, sbarrandoci ogni altra via d'uscita che non fosse il dirupo. Erano convinti che non ci saremmo buttati.
Cercherò di tenerli occupati per crearti una via libera.
Mi voltai a guardare lo sconosciuto con il volto terreo dall'orrore. Non sapevo nemmeno come facesse ancora ad essere sveglio o vivo, con tutto il sangue che aveva perso. Aveva ancora la freccia conficcata nella schiena, tra l'altro. Scossi la testa, forte. Non l'avrei lasciato a morire. E poi, sapevamo entrambi che anche riuscendoci, sarebbero arrivate altre guardie, ed io sarei stato catturato ancora una volta.
«Consegnati e non vi uccideremo subito.» esordì uno dei soldati, riempiendo il silenzio agghiacciante che si era andato a creare, mentre il semi-cerchio intorno a noi continuava a restringerci. Notai subito il ghigno sulla faccia di quell'uomo, la convinzione di averci in pugno, di poter mandare al suo Re buone notizie. Ecco perché strinsi la faccia in una smorfia di rabbia pura.
Ma rimasi fermo ed immobile, la punta della freccia diretta verso di loro, gli occhi spiritati come quelli di un folle che non aveva intenzione di cedere. Il silenzio tornò a vibrarmi nelle orecchie mentre il mondo ballava sul filo del rasoio minacciando di cadere. L'albino mi strinse un braccio, sentii il peso del suo corpo spostarsi dal suolo per prepararsi a crearmi un nuovo diversivo, e poi...
«No.» ringhiai. «Il Re non mi avrà. Mai.»
Lanciai la freccia contro il soldato che aveva parlato, distraendoli per il secondo necessario ad afferrare un lembo del mantello dell'albino e trascinarlo con me oltre al dirupo. L'ultima cosa che vidi, con il vento che mi fischiava nelle orecchie, erano gli alberi che si avvicinavano troppo velocemente.
Poi, il nulla.
❖ ❖ ❖
*NDA - L'angolo da Breezeblocks*
Hola a tutti!
Per aprire le note ringrazio subito giuli_milani che mi ha gentilmente fatto da beta per il capitolo! (Elargendomi i suoi preziosi commenti...) E niente, mi stupisco di come io riesca a sentire canzoni dal ritmo tanto allegro (vedasi titolo nda) mentre finisco capitoli del genere. E vabbe'! Anyway, il prossimo capitolo sarà... Meh, diciamo che "non" sarà. Qualcosa che non vi aspettate è in serbo per voi. E arriverà molto, molto presto. Per chi mi segue sin dagli esordi, se lo ricorderà, e credo che non ci sarà nessuno fra di loro in effetti(??) ahahaha. Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto~
Alla prossima ^^
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