29. L'Assassino e l'Arena
«Il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali è una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni»
- Italo Calvino
Il cancello a scorrimento iniziò a sollevarsi e l'ombra che mi gettava la grata sulla faccia si dissipò per far spazio ad una ondeggiante e accecante luce verdastra. Affilai le palpebre, provando l'impulso di nascondermi gli occhi dietro ad una mano, ma avevo i polsi bloccati da pesanti catenacci, che mi avevano chiuso con colpi di martello immediatamente dopo aver solcato le porte dell'Arena. Le parole dell'Empusa n.5 continuavano a risuonarmi nella mente "non vedo l'ora di vederlo morire di una morte lenta e dolorosa".
Bastarda malvagia. Non mi avevano spaventato: piuttosto, mi spingevano a dimostrare che non avrebbero dovuto sottovalutarmi. Eppure, come tutte le missioni in cui ero stato, partire dal basso era un aspetto positivo. Nessuno si aspettava niente da me. Ecco perché vincere sarebbe stato ancora più piacevole, ancora più sbalorditivo.
Mi guardai per un attimo indietro: l'Arena era un complesso reticolo di gallerie che andavano sempre più sottoterra. Il numero della fossa di combattimento corrispondeva al livello di profondità e più si saliva, peggiori erano i combattimenti, più spettacoli, più cruenti e più vicini alla vittoria. Quello che aspettava me, adesso, era un semplice esame per verificare se fossi degno di combattere: sarei morto nel tentativo di dimostrarlo, oppure mi avrebbero venduto per diventare carne. Da fottere o mangiare.
Strinsi i pugni, lasciando che un paio di piccoli e orrendi satiri con la faccia rossa e corna ricurve mi togliessero i ceppi e con un paio di tridenti contro la schiena mi spingessero oltre il cancello. Alzai il mento, con aria fiera, sbattendo lentamente le palpebre per abituarmi al cambiamento di luce. Dagli spalti, seduto ai primi gradoni di roccia nera, subito intercettai lo sguardo ametista di Ezrael, che mi fissava dall'alto con una tensione che tentava in ogni modo di soffocare.
A dir la verità, quell'emozione sarebbe anche stata coerente con la parte. Se andavo bene all'esame e qualcuno dei Titani mi avesse comprato, il mio schiavista - Ezra sotto copertura - avrebbe guadagnato una bella somma di anime. Se poi fossi riuscito a vincere tutti i combattimenti, non sarei stato il solo a raggiungere i Campi Elisi. Sia io che lui avremmo ricevuto un obolo e saremmo stati gli invitati d'onore della festa di Ade.
In altre parole, mandare qualcuno a combattere nell'arena era un vero e proprio investimento. Ecco perché dovevo vincere a tutti i costi.
Feci scorrere gli occhi sul resto degli spalti: in alto, su gradoni disposti in modo da non entrare in contatto col resto degli spettatori, in posti d'onore, sedevano dodici individui. Sei uomini e sei donne vestiti con pepli d'oro, d'argento, di viola e di porpora, color sangue e color pece. L'aspetto era quello umano, ma erano molto più grandi di quanto avrebbe potuto esserlo una persona normale. Potevano essere alti almeno tre metri. Era evidente che i Titani, o meglio gli editori come li aveva chiamati l'Empusa n.5 - quelli che organizzavano i combattimenti per renderli il più tremendi possibile - erano loro.
Il più impressionante di tutti sedeva al centro, l'aria brutale e annoiata storceva i lineamenti piacenti e la pelle nera come l'ebano faceva spiccare i suoi impressionanti occhi dorati. Continuava a rigirarsi fra le dita un pugnale che aveva per elsa una clessidra. Dentro alle sue mani sembrava minuscola, ma avrei giurato che non fosse affatto così.
«Per tutti i cazzi di Ade! E' un fottuto scherzo!?» gridò qualcuno che mi aveva finalmente visto. Quando gli spettatori notarono il mio ingresso iniziarono a fioccare gli insulti, talmente volgari e coloriti che per tutta risposta strinsi i denti. Una pioggia di sputi mi volò contro ma non feci niente per ripararmi da essi: continuai a fissare dritto davanti a me, implacabile, granitico. I satiri gettarono un pugnaletto di legno ai miei piedi e con un clangore il cancello si chiuse alle mie spalle, togliendomi ogni possibilità di fuga. Non sarei andato da nessuna parte, comunque.
Anche alcuni fra i Titani mi avevano notato: distolsero lo sguardo con smorfie schifate, come se fosse stato ridicolo anche per loro e la mia morte costituisse una noiosa svolta negli eventi. Nella fossa, a combattersi a vicenda per dare dimostrazione della propria forza c'erano altri sfidanti. La maggior parte erano esseri umani: facile pensare che fossero all'ultimo gradino della catena alimentare, considerato che razza di mostruosità sguazzassero nel Tartaro.
Mentre raccoglievo il pugnaletto, alzai un sopracciglio nel rendermi conto che la punta era smussata e arrotondata, rendendo quell'arma più inutile di uno stuzzicadenti. Sbuffai, alzando lo sguardo nell'immediato istante in cui uno dei combattenti avanzò verso di me. Era un nerboruto armadio a quattro ante, con la pelle scura ricoperta di tatuaggi bianchi e un naso così grande che avrebbe potuto andargli da una guancia all'altra. Aveva anche lui un'arma di legno, ma era una spada ed era appuntita.
«Ammazzalo!!» ringhiò qualcuno fra i mostri allineati sugli spalti, in una sfilza carnevalesca di lingue biforcute, code da lucertole, triplici occhi, aculei affilati e artigli puntati su di me. Facevano venire voglia di distogliere lo sguardo per quanto fossero osceni.
«Fottilo e poi ammazzalo!»
«No, ammazzalo e poi fotti il suo culo morto!»
I ringhi della folla ci scivolavano addosso. Piegai il collo di lato, mentre mi passavo il pugnaletto dalla sinistra alla destra, lasciando che l'omaccione avanzasse indisturbato, un passo dopo l'altro contro la sabbia di vetri polverizzati.
«Resta fermo, piccolo.» Il modo in cui aveva detto quella parola era stato crudo e lascivo, ed immaginai che se ne avesse avuta la possibilità avrebbe certamente portato a termine la promessa che gli gridavano dietro i mostri. «Faremo una cosa velo-» Non finì mai la frase, perché agii per primo.
Affondai una mano nella terra e con un rapido movimento del braccio gli gettai in faccia la sabbia affilata: gli entrò in bocca e negli occhi, perciò con un ringhio soffocato si portò le mani alla faccia, alleggerendo la presa sulla spada. Colsi quel momento per piazzargli un calcio feroce proprio in mezzo alle gambe e lui crollò sulle ginocchia. Gli strappai dalle dita la spada e con un unico gesto fluido gliela ficcai in quella parte molle sotto al mento: la lama di legno gli trapassò la testa, con la punta che spuntava dalla sommità del cranio.
Fine del combattimento. Ed era accaduto tutto in pochi secondi.
«Sì, è stata una cosa veloce...» Sorrisi.
Gli schiamazzi si acquietarono, mentre io afferravo il cadavere dell'uomo per i capelli, così da liberare l'arma incastrata nella sua testa e renderla mia. Roteai la spada e il sangue schizzò sulla sabbia. Poi sollevai gli occhi e rivolsi un sorriso sprezzante ai presenti. La maggior parte si mise a fischiare, a urlare. Solo la fortuna del principiante, dicevano. Qualcuno fra i Titani però mi stava finalmente prestando attenzione.
Quello era il momento giusto per insistere, perciò puntai la spada verso la creatura che stava combattendo contro l'omaccione. Era una specie di ibrido umano, il fisico pompato era quello, ma i pettorali esposti erano coperti di pelo scuro e la faccia si trasformava nel muso irto di zanne di un lupo nero. «Tu sei il prossimo.» dissi, con un sorriso ribelle sulla faccia.
Il licantropo non parve affatto compiaciuto dalla mia sfida. Insomma, un ragazzino con la faccia angelica che era meno della metà di lui, armato di spada di legno, che osava dirgli che fosse il prossimo a morire? Aveva tutta l'aria di essere una barzelletta. Alzò il muso da canide verso l'alto ed ululò con furore, prima di caricare verso di me a tutta velocità, a mani nude, ma con le dita ricoperte d'artigli affilati. Un attimo prima che mi si schiantasse contro rotolai lateralmente, mettendomi velocemente accovacciato sui talloni, il peso del corpo spinto verso il basso, una mano rasente la sabbia e l'altra con l'arma abbassata, quasi avessi paura di lui.
Il licantropo schiuse le fauci e una nuvola di fiato caldo gli girò attorno al muso, mentre mi fissava con un'aria feroce per una breve manciata di secondi. Poi, mi saltò addosso. Sfruttai la sua impennata improvvisa per assottigliarmi sulla sabbia, pancia a terra, spada puntata verso l'alto come una lancia. Il risultato fu semplice e brutale: cadendomi addosso, rimase impalato sulla spada di legno ed io, per un attimo nascosto sotto il suo considerevole peso, dovetti usare gomiti, braccia e spallate per liberarmene.
Ma non era ancora morto. Arpionato all'elsa di legno della spada, rotolammo sulla sabbia. I vetri mi graffiavano la pelle e il sangue della creatura mi colava appiccicoso fra le dita, ma non dermordetti. Poi si sfilò dall'arma e si tenne lo squarcio aperto in mezzo alla pancia con una mano-zampa. Il sangue gli stillava fra i denti: avevo già vinto io. Ma, visto che non era ancora abbastanza chiaro, avanzai rapidamente e gli ficcai l'elsa della spada contro la trachea, un unico colpo piazzato al punto giusto: gliela spappolò.
Schiumò sangue e alla fine cadde a terra, muso nella sabbia. Immobile.
La folla iniziò ad urlare e, stavolta, erano grida di gioia. «Offro cinquanta anime!» disse una Titanide, la voce imperiosa che sovrastò gli schiamazzi sibilanti e volgari degli spettatori. «No, cento!» disse un altro, alzando la mano, come fosse la paletta di una vendita all'asta. «Trecento anime!» Per un attimo mi ricordò il Ballo dell'Orchidea e una fitta di struggimento mi spinse a mordicchiarmi l'interno di una guancia. Questa volta però la posta in palio era l'anima delle persone. Di tante persone morte. Deglutii, tenendo a freno il disgusto mentre spostavo gli occhi su Ezrael, che annuì nella mia direzione.
Va bene così. Me ne basta accettare una e-
Notai, tuttavia, che il Titano vestito d'oro al centro - quello che avevo intuito fosse l'editore più pretenzioso di tutti, a detta dell'Empusa, che lo aveva chiamato Crono - non si era mosso. Nessuna offerta. Sembravo non interessargli.
No. Non ancora.
Strinsi i pugni e distolsi lo sguardo dal mio guardiano per puntarlo verso il restante trio di combattenti della fossa. Si erano fermati e ora mi fissavano, con le armi di legno puntate e sguardi feroci per nulla nervosi dalla piega che la situazione aveva preso.
«Oh, ho sempre voluto farlo in tre...» cinguettai, con un sorrisetto malizioso, mentre mi arrotolavo un ricciolo dorato intorno all'indice, perfettamente consapevole di quanto le mie parole suonassero male. Volevo che lo facessero. Volevo che quei tre andassero in bestia. E così fecero, mentre io muovevo la mano libera verso di loro, cenni d'invito.
Ora stai davvero esagerando...
Lanciai uno sguardo laterale ad Ezra, sbuffando una risatina, senza perdere d'occhio i tre che mi venivano addosso, mentre tutt'intorno a noi gli spettatori battevano i piedi sugli spalti. Attaccarono insieme, ma non con la stessa tempistica, perciò mi bastò scivolare alle spalle dell'uomo alla mia sinistra, il primo che aveva cercato di colpire, arpionandomici contro: aggrappato come un koala alla sua schiena, pur di ferire me, uno degli altri due infilzò quello che mi aveva addosso. Saltai sulla sabbia un attimo prima che la spada di legno, passata attraverso la schiena dell'omaccione, mi perforasse la pancia.
Attento! A destra, a destra!
Scartai a sinistra un attimo prima che la spada di legno mi tagliasse la testa, o almeno nel tentativo mi spezzasse il collo, non essendo abbastanza affilata. Erano rimasti in due: potevo gestirli. Il mio mestiere d'assassino non prevedeva combattimenti simili, non faccia a faccia così diretti. Di solito si agiva furtivamente. Si rimaneva appostati per ore ed ore e quando era il momento giusto si ammazzava con un solo colpo, pulito, nessuno spreco di gesti, nessuna perdita di tempo. Ovviamente ci si allenava per poter tenere testa a tutti gli imprevisti del caso, compreso un obiettivo capace di difendersi.
Per fortuna, non eri un assassino di Alaister Noir se non fossi stato capace di sostenere un combattimento multiplo, sapendo usare con maestria la spada. Poi però uno dei due omaccioni parlò, curvando le labbra in un ghigno malefico per mostrarmi i denti neri. «Ma io ti conosco... Yul.» Incespicai, sgranando gli occhi.
Quel momento di distrazione fu una disgrazia: l'altro mi colpì con un pugno dritto su un occhio che mi fece vedere le stelle. Indietreggiai, tenendomi la faccia con una mano, mentre sbattevo frettolosamente le palpebre cercando di rimettere a fuoco la fossa e i miei avversari. Mi arrivò contro un altro corpo: fui lento a schivarlo, tanto che sentii il legno graffiarmi la carne all'altezza della spalla con un taglio profondo.
«O forse dovrei chiamarti Sfavillo?» gongolò, mentre io scivolavo indietro per recuperare terreno ed in un impeto di collera tiravo un calcio all'altro tizio: l'osso del ginocchio ruotò in modo inquietante con uno schiocco tremendo. Urlò ed io tirai un secondo calcio, nello stesso preciso punto. L'osso gli uscì fuori dalla carne del polpaccio e il tizio crollò a terra.
Poi gli fiondai la spada in bocca, giù per la gola come a fargliela ingoiare, fino all'elsa. L'uomo che mi aveva riconosciuto, ovviamente, non era rimasto a guardarci con le mani in mano: ora alle mie spalle, mi strappò via dal cadavere del suo compare tirandomi per i capelli. Sentii il cuoio capelluto dolere per protesta, mentre il sangue dal taglio sul braccio mi aveva già raggiunto la mano armata, rendendo la presa scivolosa. «Non dirmi che ti sei dimenticato di me!»
«Spiacente, tendo a dimenticare i bruttoni...» sibilai, sarcastico, anche se lentamente capivo dov'è che l'avevo già incontrato. L'unica missione in cui avevo avuto la pazza idea di farmi chiamare Yul. Nella ciurma del Re dei Pirati, Ren Uruj.
Per tutta risposta, l'uomo alle mie spalle mi azzannò un orecchio. Urlai e la folla urlò con me, deliziata, come se non avesse aspettato altro. Con la spada nelle mani cercai di colpire alla cieca alle mie spalle per ferirgli un fianco, ma fu del tutto inutile: utilizzò il suo peso per schiacciarmi fra lui e il terreno affilato. Spinse il bacino contro i miei fianchi ed io strinsi i denti, minaccioso.
«Sai cosa ho sempre pensato? Che Sfavillo fosse un nome da frocio, Yul.» disse. Sibilai, mentre si premeva fra le mie natiche attraverso i vestiti, man mano che trafficava con l'intenzione di sollevarmi la tunica dal basso. «Tanto valeva chiamarsi Brillantino. Stellina. Puttanella.» Sollevai il capo con uno scatto violento e la testata che gli rifilai provocò il suono che speravo: un crack rumoroso. Il suo naso che si rompeva. Il dolore che doveva avergli provocato lo spinse ad indietreggiare leggermente: mi diede lo spazio di manovra necessario per girare su me stesso e piazzare le gambe fra me e lui. Me lo tolsi di dosso a pedate e finalamente fui io a piombargli sopra, a cavalcioni, incombendo per colpirgli con un pugno il naso già fratturato.
«Non dire» Un pugno, dritto sulla bocca, che mi tagliò le nocche e gli spezzò i denti. «mai più» E un altro pugno sul naso, ancora, di nuovo. «il nome» Un altro, l'ennesimo, in mezzo agli occhi «di Yul» Ancora e ancora e ancora. «Con quella cazzo di bocca di merda!» ringhiai, mentre gli riducevo la faccia in poltiglia.
Helias! Fermati!
Ancora, furioso all'idea di quello che voleva fare. Furioso del fatto che avesse profanato il nome dell'uomo che amavo mentre cercava di insudiciarmi. Furioso, mentre il sangue mi intingeva le mani e mi arrivava fino ai gomiti.
Fermati! E' morto!
Me ne accorsi solo quando il suo corpo iniziò a disintegrarsi, avvolto in una luce bluastra, finché non divenne una semplice palla d'energia grande quanto un palmo di mano, che fluttava a qualche centimetro dalla terra. Era successo così anche per gli altri: mi avvolgevano soltanto anime e sabbia insozzata di sangue. E silenzio. Mi rimisi in piedi sulle gambe, tornando velocemente alla realtà, quel tanto che mi serviva per ricominciare a sentire gli schiamazzi degli spettatori e le offerte che si alzavano vertiginosamente.
Finché una voce si levò sulle altre. «Offro cinquemila anime.» Era un'offerta impressionante, se comparata alle precedenti: non c'era bisogno di alzarla fino a quel punto per vincere. Ma immaginai che fosse per simboleggiare la sua supremazia sugli altri. Alzai la testa ed incontrai lo sguardo d'oro di Crono. «Dì il tuo nome, lottatore.»
Presi un profondo respiro e alzai la testa, stringendo le mani coperte di sangue. «Sfavillo.»
«Allora in quest'Arena combatterai per me, Sfavillo.»
❖ ❖ ❖
Le cinque anime che avevo mietuto e tutte quelle ricevute con la mia vendita come lottatore avevano fruttato un lauto compenso, ora contenuto dentro ad un'anfora di terracotta raffinatamente dipinta, che evidentemente non aveva un fondo, magica come lo era il cappello di Osiride, in grado di contenere tutte le anime della gente a cui aveva strappato il cuore.
Tutto un gruppo di satiri armati di tridenti affilati erano venuti a prendermi, accerchiandomi per spingermi come fossi una bestia indomata fuori dal cancello della fossa, verso l'interno delle gallerie, lì dove i ceppi ai polsi erano tornati. Poi, mentre ringhiavo improperi e bestemmie di tutti i tipi, mi avevano strappato via la tunica a monospalla che mi aveva dato Morfeo e al suo posto mi avevano costretto ad indossare una specie di ridicolo perizoma di iuta sdrucita. Per fortuna, nessuno toccò la chiave che portavo intorno al collo, l'unico anello rimasto al dito o i braccialetti di perline intorno ai polsi, nuovamente incastrati sotto alle catene.
Poi fui portato sotto altri strati profondi di gallerie e tunnel scavati nella roccia nera, finché non fui sbattuto in una celletta, che faceva parte di tutto un complesso di altre celle piene di lottatori. Assomigliava ad un inquietante alveare. Lì dentro Ezra mi aspettava, seduto ad una brandina e a braccia conserte. Aveva ancora quell'aspetto demoniaco che fece sparire non appena i satiri ci chiusero dentro, lasciandoci soli. Se fossi stato un altro schiavo, sarebbe significato rimanere da solo col mio aguzzino... Non una bella prospettiva.
Invece, Ezrael si alzò dalla brandina e, con uno slancio che non mi sarei aspettato da parte sua, mi mise le mani sulle guance, muovendomi il viso a destra e a sinistra per accertarsi che fossi tutto ancora intero. Sgranai gli occhi, appoggiando le dita sulle sue per abbassargliele e liberarmi la faccia.
«Sto bene.» dissi, anche se il pugno che avevo ricevuto sull'occhio me lo stava facendo gonfiare. Sopravvivevo comunque: certo, il mio bel faccino ne avrebbe risentito. E dato che ero già divenuto una specie di star, era una vera disgrazia che il mio volto fosse conciato in quel modo. Tra l'altro, le ferite più profonde guarivano più in fretta rispetto ai semplici lividi. Al mio corpo interessava di mantenermi vivo, più che bello, purtroppo.
«Ti sta ancora sanguinando il braccio.» rispose corrucciato, mentre si strappava un lembo del gonnellino egizio per fasciarmi la ferita, delicatamente anche se aveva la solita espressione burbera incollata in faccia. «Ma che fine hanno fatto i tuoi vestiti?» borbottò, mentre finiva di annodare la stoffa intorno al mio arto, notando solo adesso che la tunica mi era stata portata via ed indossavo solo quella strana specie di mutande.
«Lascia perdere...» Mi morsi il labbro inferiore. Non c'era più ragione di imbarazzarsi in quel modo, dopo tutto quello che avevamo fatto insieme. «E le tue corna che fine hanno fatto?» Sollevai una mano, sfiorandogli la fronte con la punta delle dita, lì dove prima si trovavano quei due corni lunghi da diavolo. «Ti stavano bene.»
Ezra alzò un sopracciglio d'argento, prima di sospirare dalle narici. «Lo so.» rispose, con un tono vagamente piccato che mi fece corrugare la fronte.
«Io, non intendevo certo...» Dargli del cornuto. E poi, anche se fosse, fra noi non c'era nulla di quel tipo, nonostante ci fosse quella diceria sull'amore fra guardiano e regnante degli straeliani. Sciocchezze. Però capii a cosa stava pensando: lui era seduto ai primi spalti. Aveva udito tutto ciò che io e il pirata c'eravamo detti. Aveva sentito la parte di Yul. Aveva visto quanto mi fossi infuriato solo perché quel verme pronunciava il suo nome.
«Sei venuto nell'Oltretomba per Astrea, per tua madre... O per lui?» domandò ad un certo punto, con un movimento del mento. Suonava come una provocazione. Anzi, lo era, visto che usava il ricordo di mia madre contro di me.
«Questa poi! Non posso semplicemente riuscire a fare entrambe le cose?» sbottai, stringendo i pugni.
«Ah! Lo sapevo che avevi in mente di ritrovarlo!» esclamò, come cogliendomi in fallo. Strinsi le labbra in una linea sottile. «E' una follia. Il tempo che passiamo quaggiù è un continuo azzardo verso il destino, visto che non abbiamo idea di che cosa sta succedendo nel mondo dei vivi. Ci hai pensato?» disse, assottigliando gli occhi viola lucente. «Vuoi condannarci tutti.»
Strinsi i pugni, così forte da ficcarmi le unghie nel palmo. «Posso concedermi, una volta tanto, di sperare?» Dopo tutto quello che avevo passato, potevo almeno concedermi quel lusso? O non ne avevo nemmeno il diritto? Lui aprii le labbra, ma poi le richiuse nuovamente e scosse la testa, tornando a sedere. Sembrò riflettere a lungo sulle parole successive.
«Lo capisco. Capisco che sia importante per te.» sospirò, intrecciando le mani fra loro mentre appoggiava i gomiti sulle ginocchia. Mi sedetti anch'io sull'altra brandina, senza dire una parola. «E' solo che...» Buttò la testa all'indietro, poggiandola contro il muro, restando a fissare il soffitto basso della celletta. «E' già troppo rischioso così. Con due obiettivi piuttosto che uno solo, il pericolo raddoppia. Già così faccio fatica a proteggerti. Hai visto cos'è successo con Osiride...» Strinse la mascella. «Mi dispiace di non essere riuscito a soccorrerti prima.»
«Non è colpa tua.» Scrollai le spalle: non avevamo avuto il modo per parlarne, vista la fuga concitata e la lotta contro il serpente. Era tutto accaduto molto in fretta. Per fortuna, il fatto che fossi rimasto fermo ed immobile a lungo aveva favorito un'ottima guarigione: perfino il braccio che l'alligatore mi aveva spezzato con le sue fauci era ritornato a posto. La gentilezza di Morfeo mi aveva aiutato a rimettermi completamente.
Ezra sembrava voler aggiungere altro, ma alla fine un satiro fece scivolare all'interno della celletta un vassoio con degli ossicini mangiucchiati a cui era appiccicato qualche rimasuglio di carne da tirare via e una sbobba grigia che ribolliva in maniera preoccupante. «La cena!» gracidò, prima di sparire con un rumore ritmico di zoccoli caprini.
«Hew-» emisi un verso disgustato e ignorai il pasto che mi veniva "gentilmente" offerto. «Saputo niente del prossimo combattimento?» domandai, prendendo il muffin che l'albino mi stava porgendo dalla sacca per darci un grosso morso. Ne rimanevano davvero pochi, ma dopo la lotta che avevo affrontato, me lo meritavo.
«No. Avevo intenzione di andare a cercare informazioni, infatti.» Si rimise in piedi e, dopo aver armeggiato col proprio braccialetto, quell'inquietante fascino mostruoso tornò ad impreziosire i suoi lineamenti. Lui, essendo ancora il mio schiavista, aveva ricevuto la chiave per uscire dalla celletta. Mi alzai anch'io, preoccupato a saperlo in giro per le gallerie dell'arena, a parlare con quei mostri.
«Stai attento, per favore.» sussurrai, serrandogli il polso con le dita. I suoi occhi si abbassarono sulla mano che gli sfiorava la pelle, prima di rialzarli su di me. Deglutii. L'istante successivo, mi aveva già attratto a sé: le dita che mi agguantavano la nuca, mi stringevano i capelli. E le sue labbra sulle mie. Era uno dei suoi baci rabbiosi e disperati, quelli che mi comunicavano frustrazione mentre mi infiammavano al tempo stesso.
Sollevai una mano per metterla fra i nostri corpi, le dita che aderivano contro il suo petto nudo, screziato da qualche squama. Mi spostai, un passo indietro, ponendo fine a quel contatto per primo. Lui non disse nulla. Si limitò a fissarmi un ultimo secondo prima di infilare la chiave nella serratura e uscire dalla cella.
❖ ❖ ❖
Ezra era riuscito a scoprire soltanto una cosa del mio primo combattimento ufficiale nell'Arena: sarebbe stata una lotta di gruppo. Un team contro un altro team. Il resto era avvolto nel mistero. Mio malgrado, lo scoprii il giorno dopo, quando i satiri vennero a prendermi e a strattonarmi, obbligandomi a camminare per le gallerie con i ceppi ai polsi e i tridenti che mi puntellavano la schiena.
Dopo, fui fatto entrare nella piccola ed umida sala buia che precedeva il corridoio verso la nuova fossa dove avrei sostenuto il mio primo combattimento. Anche da lontano, si riuscivano a sentire le urla di giubilo che arrivavano da essa. Cori interi di urla e fischi, mani che battevano, piedi che pestavano. L'atmosfera era quella da fiato trattenuto e adrenalina alle stelle, mentre aspettavamo che ci chiamassero e i satiri ci ficcavano in testa sotto costrizione un'orrenda maschera da pecora bianca. Solo che la mia era diversa da tutte le altre: era nera.
Eravamo dieci in tutto: umani, uomini massicci e corpulenti, a parte me. Il fatto di non sapere che cosa rappresentasse il colore della mia maschera mi fece innervosire, ma cercai di non darlo a vedere, mentre quelli mi fissavano come se fossi esattamente la pecora nera fra di loro. Un intruso venuto per indebolirli. Schioccai la lingua e ponderai l'idea di alzare il dito medio, ma ci chiamarono appena in tempo. Quindi ci sistemarono in fila indiana, togliendoci uno dopo l'altro le catene per poi assegnarci un paio di coltelli a serramanico.
Io ero l'ultimo della fila.
Vidi il cancello alzarsi e le grida feroci della folla ci investirono come un'onda che mi travolse e mi stordì per un breve secondo. Poi battei con forza le palpebre dietro la maschera - più simile ad un elmo, in realtà, che andava infilato su tutta la testa - e seguii la coda di lottatori, uscendo alla luce verdastra delle fiaccole. La grata si chiuse alle mie spalle e le ingiurie della folla esplosero violente, insieme al lancio di sputi, cibo, dita, occhi. Erano centinaia e centinaia di mostri tutti accalcati stretti sugli spalti per assistere a quello che per loro era un gioco. E per noi era vita e morte.
Notai un numero frettoloso di informazioni tutte insieme.
Primo, non riuscivo a trovare Ezra da nessuna parte, la ridda di spettatori era esageratamente massiccia e variopinta per riuscire a localizzarlo. Al contrario, lui avrebbe potuto capire chi fossi perché ero l'unico esile in mezzo ai lottatori umani,
Secondo, il terreno di combattimento pareva diviso in due fazioni: dalla nostra parte e da quella degli sfidanti c'era una buca scavata nella sabbia, che assomigliava alla tana di un animale. Quello era un punto cieco dove gli occhi degli spettatori non potevano arrivare e un probabile nascondiglio.
Terzo, i nostri sfidanti erano in fila dalla parte opposta dell'arena. Erano tutti mostruosi, alcuni giganteschi, altri rachitici e minuti come goblin o satiri dall'aria svelta. Ognuno di loro aveva la testa coperta da un elmo con una faccia da lupo intagliata sopra. Loro avevano spade, asce e sciabole. Sembrava che i ruoli fossero stati definiti sin dall'inizio: noi i perdenti, loro i vincenti. Non era una sfida equa, probabilmente era quello il punto del gioco. Vedere in che modo creativo ci ammazzavano.
Quarto, i Titani erano tutti presenti, tirati a lucido ed impettiti nei loro tre metri d'altezza. Al centro di ognuno di loro, Crono e la sua tonaca d'oro luccicante fissava dall'alto la situazione come un avvoltoio. Sentivo il peso dei suoi occhi addosso, come una mano schiacciata sopra la testa. "Ho speso cinquemila anime per te, non farmene pentire" avevo l'impressione che me lo dicesse senza nemmeno usare le parole.
«Benvenuti nell'Arena, luride merde del Tartaro!» ringhiò l'Empusa n.5, che era appena apparsa al centro della fossa attraverso un sistema di botole sotterraneo. Si trovava proprio in mezzo ai due team, con un cono di bronzo fra le mani che avrebbe favorito l'amplificazione della sua voce. Gli spettatori alzarono i pugni e incominciarono ad urlare di gioia. «Sappiamo tutti cosa ci sarà oggi!»
«SANGUE SANGUE SANGUE!» gridarono in coro, come un'unica voce assetata di violenza.
«E sangue avremo!» gridò a squarciagola nel cono l'Empusa, sgranando gli occhi rossi e strisciando la gamba di bronzo contro la sabbia. « Venti bastardi sono qui di fronte a noi! Debole umanità!» Ci indicò con un braccio e tutti iniziarono a fischiare e a sbraitare bestemmie. «Contro le forze della nostra terra!»
Cori e incitamenti generali non mancarono. Sentii i miei compagni di gruppo sbuffare, sputare a terra ed imprecare. Poi l'Empusa si rivolse ai lottatori «Le regole sono sempre le stesse! La morte dei vostri nemici è la chiave per la vittoria!» Strinse il pugno. «Il gruppo che resta vivo, vince!» Un mostro fece un passo in avanti, ruggendo da sotto all'elmo da lupo, ma la presentatrice non aveva finito. Venne fulminato da uno sguardo e lei riprese. «Per consolidare il vostro senso del gruppo» ed evitare pugnalate alle spalle, evidentemente «sappiate che esiste un altro metodo per vincere.»
Una pausa d'enfasi. Aspettai. Aspettammo tutti. «Uccidere la pecora nera!» Ruggiti generali dalla folla, mentre io traballavo per un attimo sulle gambe, sgomento. Era uno scherzo, forse? No, non aveva affatto l'aria di esserlo. «UMANI! Lottate per difendere l'anello debole del gruppo!» L'Empusa sghignazzò, quasi sapesse che c'ero io sotto l'elmo. "Non vedo l'ora di vederlo morire di una morte lenta e dolorosa" aveva detto. Che fosse maledetta. «MOSTRI! Distruggete le loro difese!»
Poi la botola su cui era piazzata iniziò a scendere verso il basso. «Che il combattimento... INIZI!» Scomparve oltre la sabbia e la fossa fu sgombra, solo due team che si fronteggiavano.
Poi, si scatenò l'inferno.
Tutti insieme, come un unico corpo, i lupi caricarono verso di noi. Uno degli omaccioni del mio gruppo mi afferrò per la spalla e mi spinse con violenza nella buca a mo' di tana, piazzata dietro allo schieramento del gruppo umano. «Resta là! Non voglio perdere per colpa di un rammollito! Chissà poi che ci succede!» Avevo un paio di cosette da dire in contrario, ma per il momento obbedii alla sua richiesta, tenendo stretti i manici dei coltelli mentre i suoni dei combattimenti imperversavano sopra la mia testa. Acquattato nel buio della buca, sembrava tutto stranamente distante: urla, schiamazzi e tafferugli erano attutiti.
Ezra, se mi senti, dimmi come sta andando lassù.
Sperai che l'adrenalina non interferisse con la mia stentata capacità di parlargli nella mente, quando non sentii arrivare risposta. Almeno non subito. Passò qualche attimo che apparve eterno.
Gli umani perdono. Ovviamente.
Schioccai la lingua contro al palato: erano in inferiorità numerica contro avversari più potenti di loro. Lasciarmi in quella stupida tana non era poi tanto intelligente, considerato quello che sapevo fare in battaglia. Ma loro non lo sapevano. Mi misi in punta di piedi e mi affacciai di qualche centimetro per spiare quello che accadeva: una testa rotolò proprio sul ciglio della buca, restando faccia a faccia con me. Sobbalzai, quando l'ombra di un goblin esile e dalla pelle grigia si affacciò a guardarmi, la maschera da lupo che era un ghigno schizzato di sangue.
Mi schiacciai sul fondo della buca, ma ormai mi aveva visto. E a quel punto, tanto valeva giocare. Allungai la mano e gli feci un provocatorio cenno d'invito: non si fece pregare. Saltò dentro alla tana, che era così piccola da farci quasi stare appiccicati l'uno all'altro. Non c'era molto spazio di manovra per combattere, perciò rotolammo l'uno contro l'altro in una spirale di unghie e di coltelli.
Avevo tutto il corpo scoperto, perciò cercavo di difendere le parti esposte con gli avambracci, le mani, le ginocchia: tutto ciò che potevo. Il maledetto però non si fermava un attimo. Aveva abbandonato l'idea di difendersi per effettuare un attacco serrato ed inarrestabile. Graffiava, artigliava, colpiva, pugnalava ancora e ancora e ancora. Mentre io serpeggiavo fra la terra della buca rotolando ed infangandomi peggio di un lombrico, sfruttando il momento giusto per puntare alle sue difese scoperte.
Quando l'istante in cui dovette riprendere fiato arrivò, scattai con tutte le mie forze verso il suo fianco sinistro, all'altezza delle costole, infilzando e ficcando i coltelli fino a dove riuscivo a spingere. «Muori, muori, muori!» pugnalai finché la creatura non si accasciò inerte contro la parete della tana. Guardando il suo sangue nero gocciolare e il suo cadavere morto, mingherlino come il mio, mi venne l'idea.
Quando risalii dalla tana e uscii allo scoperto, la mia pelle era completamente insozzata di fango e di sangue scuro. Talmente ben dipinta che l'incarnato poteva anche sembrare... Grigio. E in testa, al posto dell'elmo da pecora nera, avevo quello di un lupo. Be', nessuno aveva detto che fosse vietato scambiarsi le maschere nel corso del combattimento, no?
Armato dei lunghi pugnali affilati del goblin, serpeggiai in mezzo al gruppo avversario senza dare nell'occhio, come fossi parte integrante di loro: ufficialmente, la pecora nera era rimasta nascosta nella buca e ancora nessuno aveva reclamato la sua morte. Mentre io ero diventato la spia perfetta, il bravo assassino che s'infiltra. Come avevo fatto nell'harem del Sultano. Mi mossi in piccoli scatti veloci, dando l'idea di non essere del tutto umano, acquattandomi sulla sabbia: lo stesso omaccione che mi aveva ficcato di prepotenza nella tana venne verso di me per caricarmi, ma io scartai di lato, schivandolo.
E finii addosso ad un mostro, una specie di toro antropomorfo a due teste. Mi misi al suo fianco quasi fossi pronto a lanciarmi all'attacco insieme a lui. Poi ruotai nella sua direzione e gli ficcai il coltellaccio in mezzo alla gola, aprendogliela in due. Prima ancora che i lupi riuscissero a capire l'inganno, avevo rubato le sciabole all'uomo-toro e avevo trafitto alle spalle una donna con la testa piena di serpenti, per poi cavalcare un leone con la faccia d'uomo e le zampe d'aquila, a cui avevo tagliato la testa subito dopo.
Tre fuori dai giochi, in attimi così rapidi che non mi ero nemmeno reso conto di quanti sfidanti erano rimasti in gara. Quando mi guardai intorno, io ero l'unico lupo rimasto in piedi. A quel punto, mentre gli umani mi si avvicinavano confusi, io mi tolsi l'elmo rivelando il mio volto e la mia natura. Una persona, esattamente come loro. L'arena, che era stata una spirale convulsa di chiasso e di grida, si fece silenziosa. Tutti stavano cercando di indovinare il tranello che era appena stato costruito sotto ai loro occhi, ingannandoli tutti.
Poi, quando infilai il braccio nella buca e mi calai sulla testa l'elmo della pecora nera, capirono. Qualcuno che aveva assistito al mio esame mi riconobbe e cominciò ad urlare. Le urla si trasformarono in un coro di tifosi. Il coro si trasformò in un'unica onda gigantesca che mi si insinuò sotto pelle come una droga. La gloria.
«SFAVILLO!» Alzai le sciabole, incrociate verso l'alto in segno di vittoria. La folla andò fuori di testa. «SFAVILLO SFAVILLO SFAVILLO SFAVILLO SFAVILLO SFAVILLO!»
E quello fu il degno inizio di un combattente che, nell'Arena, sarebbe stato ricordato per molto tempo.
❖ ❖ ❖
*NDA - Un angolo che se non è notturno non è da me*
Hola!
Sono raffreddata, ho un mal di testa tremendo, è notte fonda, ma cavolo se dovevo aggiornare! Ci tenevo proprio a finire il capitolo e pubblicarlo, scriverlo mi è piaciuto un sacco, adoro descrivere i combattimenti! Perciò, spero che leggerlo sia piaciuto quanto ho apprezzato io la stesura del capitolo. Comunque, vi ricordate quando avevo scritto in un annuncio in bacheca che sarei riuscita a finire la storia entro la fine dell'anno? STAVO SCHERZANDO. Facciamo finta di niente, please xD in realtà ci stiamo davvero avviando verso la fine, ma ci vuole ancora un po'... Diciamo che siamo ad un buon punto della storia e io FREMO per arrivare a delle parti che ho in mente. Quando ci arriverò (manca pochissimo, ahhh!) lo saprete perché lo scriverò qua sotto, eheh.
Alla prossima ~
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro