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2. L'Assassino e la fuga


«Oggi sono in catene e sono qui. Domani sarò senza ceppi... ma dove?»
- Edgar Allan Poe


La prima cosa che la mia mente riuscì a realizzare fu: ho già sentito quella voce. Prima ancora che sparissimo in quell'accecante lampo viola. Prima ancora che poggiasse la sua mano sul mio braccio, prima ancora che finisse di dire quella frase.

Ho già sentito quella voce.

Bastò che pronunciasse la prima sillaba, solo la prima, perché qualcosa dentro di me si attorcigliasse e rivoltasse come se il mio stomaco si fosse trasformato in un serpente e come se la sua voce, invece, fosse il suono del flauto capace di farlo ballare. Ma non ci fu nulla di dolce in quella danza, nulla di sinuoso e mellifluo. Sembrò che qualcuno mi avesse rovesciato un secchio pieno di ghiaccio addosso, rivestendomi di freddo dalla testa ai piedi. E nostalgia. Malinconia. Tristezza.

Ho già sentito quella voce.

Sapevo che l'avevo già sentita così come sapevo di chiamarmi Helias, così come sapevo di essere Sfavillo e di essere uno schiavo ad Ender. E di amare Yul. Sapevo che si trattava di qualcosa di importante, perché lo percepivo nella pelle, nelle ossa e nell'anima. Mi sembrò quasi di aver scoperto soltanto adesso l'esistenza di un organo vitale del mio corpo, che fino a poco prima di incontrare quest'uomo ignoravo totalmente. Ma non capivo la ragione per cui Lui dovesse rappresentare una tale importanza da farmi quasi mancare il fiato, da farmi dimenticare il resto del mondo tutt'intorno a me.

C'era Kenneth, il Capitano della Guardia Reale con il suo lugubre cappuccio nero; c'erano le guardie con lo stemma del maledetto Re sulle divise e le armi sguainate; c'erano le mie catene abbandonate a terra contro la terra sporca e i ceppi aperti; c'erano Yul e i suoi occhi blu che mi fissavano con un cipiglio pieno d'angosciante preoccupazione. Eppure, la mia testa, soltanto per un istante, accantonò tutti loro, tutto quanto.

I miei occhi focalizzarono soltanto lo sconosciuto, che occupò totalmente il mio campo visivo per un attimo che mi sembrò eterno. Rimase soltanto il baluginio d'argento di quella lunga treccia color mercurio che s'agitava nel vento freddo d'autunno, soltanto lo scintillio di quegli occhi viola come quelli della mia defunta madre; quello stesso viola che ogni tanto si scorgeva nelle mie iridi quando si faceva ben attenzione. E quel profondo senso di familiarità che mi diceva che quella persona era molto più di una semplice voce. Per un istante mi chiesi chi fosse.

Poi, quando capii il reale significato delle sue parole, sgranai gli occhi. Non ebbi il tempo di chiedermi cosa volesse dire con "Sfavillo me lo prendo io", che il suo braccio si allungò verso di me, il suo mantello scuro ondeggiò nel vento e poi fu un attimo.

Un attimo in cui la terra sotto ai miei piedi scomparve, in cui la mia ombra sembrò innalzarsi verso di me per inghiottirmi, in cui la luce del sole scomparve e i miei occhi si annerirono all'improvviso come se fossi sul punto di svenire. Ma tutto si consumò nella frazione di qualche secondo. Quando il capogiro si concluse, io mi ritrovai a cadere sulle ginocchia, con i palmi attaccati alla terra e i polmoni strizzati come uno straccio. Presi lunghissime boccate d'aria, con la bocca spalancata e la mano stretta sul petto, chiusa a pugno sulle misere vesti che indossavo.

«Merda...» sussurrò lo sconosciuto, ombreggiando la mia figura con il mantello che gli si agitava intorno come in preda ad un vento fortissimo.

Si chinò verso di me e, con il sole alle spalle, sembrò quasi che un'aureola contornasse il suo capo. Si avvicinò tanto che potei analizzare ogni sfumatura di quel viso: la bocca chiara e sottile, ma con una forma ondulata nel labbro superiore che catturava l'attenzione; l'intensità di viola chiarissimo attorno alla pupilla e poi scurissimo verso l'esterno dell'iride; il naso sottile ma precisamente dritto; le ciglia argentate e lunghe che contornavano la forma affilata degli occhi. Notai anche che in una mano stringeva una specie di cristallo, grande abbastanza da occupare la sua intera mano. Pulsò per un attimo di una fioca luce azzurra, ma poi si spense e divenne totalmente grigio.

«Helias.» Mi afferrò il mento con la mano libera, alzandolo verso di lui, per catturare totalmente la mia attenzione. Non serviva: ce l'aveva già. Quando lo guardai negli occhi, un brivido mi attraversò la spina dorsale. «Siamo nei guai.»

Mi chiesi come facesse a sapere il mio nome, ma poi il suo indice si allungò per farmi notare ciò che, a poca distanza da noi, si ergeva verso il cielo: i cancelli di ferro battuto di Ender, che recavano la scritta del campo di prigionia a strazianti lettere cubitali, mentre tutt'intorno si distendeva, infinito, il filo spinato che sbatteva in faccia a tutti gli schiavi la divisione fra il dentro e il fuori. Fra la libertà e la schiavitù. Il mio sangue si ghiacciò nelle vene quando mi accorsi che non eravamo sfuggiti del tutto, anzi, eravamo troppo vicini.

La cosa fu lampante quando, dalle torri di guardia, qualcosa giunse verso di noi con una velocità micidiale: feci appena in tempo a spostarmi, che una freccia mi sfiorò la gola, graffiandola con la punta acuminata. Un fiotto di sangue mi scivolò verso le clavicole. Un centimetro in più e mi avrebbe trapassato il collo.

«Muoviamoci!» gridò il misterioso ragazzo, alzandosi di scatto e buttandosi alle spalle quello strano cristallo quasi fosse diventato un sasso qualunque, prima di afferrarmi per il polso ed iniziare a correre. Quello fu il segnale per accorgermi, finalmente, di quello che era capitato. Per farmi aprire gli occhi.

Ero fuori.

Ender era dentro ai cancelli, ed io ero fuori, a guardare il filo spinato che si allontanava mentre giravo la testa indietro, con una cascata di frecce che volavano dalle torri di guardia a farci da scia. Non eravamo scampati del tutto, non quando quelle miniere di sale distavano così poco da noi, ed io mi sentivo ancora una formica che aspettava di sentire la suola della scarpa di un umano molto più grande di me che mi spiaccicava al suolo. 

La sensazione di impotenza fu ancora più brutta, quando mi accorsi che mi trovavo nello stesso tratto di strada in cui fu ordita quella trappola. La missione che avrebbe dovuto dare abbastanza denaro a me e a Yul per andarcene nel Continente Meridionale. Era soltanto il nostro sogno. Invece, in quella carovana non trovai schiavi ma guardie; invece, Yul trovò Crow a puntargli la spada alla gola. Ricordavo tutto quasi fosse ieri.

Quella missione era stata l'inizio della fine, ed io sapevo che non avrei mai dovuto prendervi parte, ma l'idea della felicità era un lusso talmente grande che non potevamo lasciare nulla di intentato.

«Corri più veloce!»

Ritornai alla realtà in fretta: da quando ero arrivato ad Ender, il dolore era diventato parte integrante della mia quotidianità, quindi non sentivo nulla a correre a piedi nudi in mezzo a quella strada serrata, a calpestare le pietre aguzze. Cercai di correre più in fretta, ma il massimo che potevo fare era lasciarmi trascinare in avanti dal suo passo incalzante. Io, però, ero troppo debole. Non sapevo per quanto ancora avrei retto.

La situazione iniziò a complicarsi quando i cancelli si spalancarono e, da essi, ne uscirono una ventina di soldati al galoppo, con il Capitano della Guardia al comando: fui certo che quelli non erano che l'inizio di molti, molti più uomini mandati a darmi la caccia. Il Re avrebbe dato di tutto pur di non lasciarmi scappare dalla mia tortura, da lui personalmente scelta.

Mi voltai a guardarli galoppare furiosamente verso di noi e una sorta di lamento spezzato mi salì alla gola: non avrei mai potuto affrontarne così tanti. Quando iniziai sul serio a preoccuparmi, il mio salvatore mi afferrò con un movimento veloce delle braccia e mi caricò in spalla. Non mi aspettavo fosse così forte. O forse ero io che ero diventato molto più leggero. Più che altro, non ero mai stato pesante. Ma in quel momento mi sentii un fuscello, mentre continuava a correre e si insinuava in mezzo al bosco che costeggiava il sentiero, nel tentativo di far perdere le nostre tracce.

«Non hai un cavallo?!» esclamai, e come prime parole da rivolgergli non erano certamente il massimo, ma gli avrei fatto molte più domande quando saremmo stati in salvo. Ok, lo avrei anche ringraziato. Sempre se fossimo riusciti a sfuggire. Magari potevo anche non farcela io, ma se ce l'avesse fatta Yul...

«No! Non ne-»

Smisi di ascoltarlo all'istante, perché in quel momento, come se un fulmine mi avesse appena colpito, mi sentii pervadere da un panico acuto, così intenso che percepii ogni singolo atomo del mio corpo implodere in se stesso. Avevo dimenticato, o meglio, avevo dato per scontato la cosa più importante, più vitale.

«No.» sussurrai, con il sangue che mi si ghiacciava nelle vene e il sudore freddo che mi si raccoglieva sulla fronte in piccole perle trasparenti. Imposi le mani sulle spalle dello sconosciuto, cercando di staccarmi dalla sua presa, di tirarmi via. «No no no no...» ripetei, in una specie di mantra, quasi muovendo semplicemente le labbra. Mi bastò una ginocchiata ben assestata in mezzo alla schiena del mio salvatore, per vederlo inginocchiarsi a terra, mentre io ritornavo in piedi. Si girò verso di me, con un'espressione fra l'irritato e lo sbigottito, colto completamente di sorpresa.

Io però, mi ero quasi convinto che Yul ci stesse seguendo. E invece no, lui non era stato toccato da quel misterioso salvatore: lui non era magicamente apparso dall'altra parte dei cancelli di Ender. Con una sorta di singhiozzo privo di lacrime, lo capii: lui era ancora dentro. Lanciai una specie di grido rauco, poi mi voltai e iniziai a correre dalla parte opposta, andando nella direzione da cui proveniva il rumore di zoccoli.

Non mi importava se stavo correndo incontro alla prigionia, o alla morte, se era quello che mi serviva per arrivare a lui. Sarei andato in capo al mondo, pur di rimanere assieme a Yul, di non lasciarlo andare. Non lo avrei mai potuto lasciare solo ad Ender. Lui non l'avrebbe mai fatto per me. Così, continuai a correre finché non intravidi fra gli alberi i musi affusolati dei cavalli delle guardie che avanzavano e incombevano, sempre più vicini. Poi però, un paio di braccia mi avvolsero alle spalle e mi attirarono dietro ad un tronco.

«LASCIAMI!» Mi divincolai, sferrandogli pugni e calci, ma ero troppo debole per fargli male, troppo debole perfino per sfuggire da quella stretta. Non avevo più l'elemento sorpresa dalla mia. «Yul è ancora- mphf!» Mi tappò la bocca con una mano e mi strinse a sé, forte, mentre poggiava la schiena contro un tronco, come cercando di appiattirsi.

Fai silenzio, o ci troveranno.

All'inizio pensai che avesse parlato ed anche ad alta voce, tanto che avrei voluto dargli dell'idiota per aver aperto bocca per primo. Ma presto capii che non l'aveva fatto. Con un brivido, compresi che me l'aveva detto nella testa. La sorpresa mi lasciò abbastanza sconvolto da farmi afflosciare come una bambola di pezza fra le sue braccia, trasformandomi in un burattino facilmente manovrabile. 

Sentii i suoi nervi allentarsi un poco, la presa farsi meno salda. Ma io decisi che non sarei stato per nulla collaborativo: valutai l'idea di addentargli la mano abbastanza forte da fargliela sanguinare. Eppure abbandonai l'ipotesi quando intravidi, in un anfratto fra due tronchi, abbattuti da qualche fulmine e riversi a terra, qualcosa che mi lasciò senza fiato: una macchia rossa. O meglio, ciocche rosso sangue.

Acquattato in un nascondiglio fra gli alti abeti scuri, c'era proprio Yul. Vederlo lì, così all'improvviso, mi invase di un tale sollievo che mi lasciai ricadere contro le braccia dello sconosciuto, facendo rimbalzare un sospiro contro il suo palmo. Ma non ebbi il tempo di rilassarmi oltre, perché il rumore incalzante degli zoccoli mi portò di nuovo a tendermi come una corda di violino sul punto di saltare.

Non muovere un muscolo.

Strinsi i denti così tanto da sentirli scricchiolare. Forse per l'arrivo imminente delle guardie, o forse perché quel tipo mi stava stringendo a sé talmente forte che potevo sentire contro la mia schiena scheletrica ogni singola rigonfiatura dei suoi muscoli, ogni piccola forma del petto, ogni ciocca color mercurio che mi sfiorava le guance e che profumava deliziosamente di pino. Chiusi gli occhi per un attimo soltanto: una frazione di secondo in cui ricordai le parole di mia madre. Un posto fatto di luce e magia, di tappeti di stelle, di aghi di pino, di gocce di miele. Per qualche ragione, questo misterioso ragazzo mi richiamava alla mente le sue parole.

Eppure, averlo così vicino, con Yul ad un paio di metri di distanza, mi sembrò terribilmente sbagliato. Restargli appiccicato fu una specie di tortura: il mio corpo non desiderava altro che allontanarsi, che spingerlo via, che mettere distanza fra me e lui. Invece fui costretto a restare fra le sue braccia, con la schiena incastrata in un puzzle perfetto col suo petto e la vita avvolta dalla sua presa inaspettatamente forte. Questo, perché il rumore dei passi iniziava a farsi sempre più vicino: evidentemente le guardie erano smontati dalla sella per battere il bosco a piedi, setacciando la zona con più attenzione.

Ci avrebbero senza dubbio trovati.

Cercai di mantenere i nervi saldi, ma quando i ricordi di Ender mi tornarono alla mente, assalendomi uno per uno, iniziai sul serio ad avere paura: ricordai la fame talmente intensa che portava la gente ad impazzire e a mangiare gli altri prigionieri; ricordai la sete così forte che ci costringeva a sperare nella pioggia e ad allungare le lingue come disperati nel tentativo di acchiappare qualche goccia; ricordai il dolore intenso alla schiena dopo le frustate più violente, così come la sensazione calda e bruciante del sangue che scivolava sulla pelle sporca. Il mio respiro iniziò a diventare sempre più corto, ed anche se avevo la bocca tappata, inspiravo ed espiravo furiosamente dalle narici.

Stai calmo, Helias. Ci sono io.

I passi diventarono sempre più vicini, ma sentii i battiti martellanti del mio cuore rallentare un poco. Chiusi gli occhi, strizzando le palpebre talmente forte da farmi venire il mal di testa e rimasi ad aspettare, riscaldato dalla presa dell'uomo che mi aveva salvato da una morte certa. E sperai con tutto il mio cuore che nessuno vedesse Yul. Per un momento ci fu soltanto silenzio: neanche i passi delle guardie riuscivano più ad essere udibili, perfino gli animali selvatici sembravano star trattenendo il fiato. Poi, lo schiocco vicinissimo di qualcosa che si spezzava.

«ECCOLI!» gridò qualcuno e quello fu il segnale per ricominciare la corsa. Questa volta però, non mi guardai indietro: mi bastò sapere che Yul correva assieme a noi, fuggendo verso la libertà, verso un destino migliore. Soltanto il pensiero di poter vivere assieme a lui senza che dovessimo nulla a nessuno, senza che fossimo costretti a guardarci le spalle, ma semplicemente lontani e liberi, mi fece battere forte il cuore, e non dalla paura. Ma dalla speranza.

Eppure, le mie gambe, sottili come due cenci, stavano tremando in preda alla fatica e al dolore che, evidentemente, ancora riusciva a farmi qualche effetto. Mi stavano sanguinando i piedi, eppure mi chiedevo come fosse possibile: tentai di correre, ancora, spronando e varcando i miei limiti per superarli. Non potevo cedere adesso. Semplicemente non era ammissibile. Però le mie gambe si piegarono lo stesso, incuranti dei continui comandi che mandavo al mio cervello.

Caddi ginocchia a terra, con le mani contro il terreno e le unghie che grattavano nel fango per il furore e per lo sforzo che la mia volontà stava facendo, pur di costringermi a rimettermi in piedi. Nonostante ciò, il mio corpo rigettava gli sforzi, rispondendomi con un dolore pulsante agli arti inferiori, impedendomi di usarli. Il rumore ritmico dei passi che si avvicinavano s'abbarbicò ai miei canali uditivi come filo spinato, ed io capii che per me non c'erano più possibilità di salvezza. Perciò, non mi restava che combattere con l'ultimo spiraglio di rabbia che mi rimaneva.

Allungai un braccio, afferrando fra le mani la pietra più vicina, abbastanza grande da sapere che avrebbe fatto male, ma non abbastanza da impedirmi di sollevarla. Poi, in quella frazione di secondo in cui sentii urlare il mio nome dallo sconosciuto, una guardia mi afferrò il braccio con foga per girarmi verso di lui, sollevando la spada. 

Ma non avrebbe fatto in tempo: io, sfruttando lo stesso movimento che aveva compiuto per voltarmi in sua direzione, gli avevo già sfondato la faccia con quella pietra. Cadde a terra coprendosi il viso sanguinante fra le mani, ancora cosciente, ma io non mi fermai: continuai a sbattergli il masso in faccia finché non sentii un crack inquietante. Finché non vidi le mani dell'uomo afflosciarsi a terra.

A quel punto, tutte le guardie ormai ci avevano visto e la loro furia fu evidente: iniziarono a correre verso di noi con le armi sguainate, il che mi fece istintivamente voltare verso Yul e lo sconosciuto, gridando: «Correte, andate via!» Sarei rimasto soltanto io. Era me che volevano. Era me che il Re di Darlan voleva.

«Non vado da nessuna parte senza di te!» ringhiò quel ragazzo, quello dai capelli color mercurio, quello che non avevo ancora capito chi fosse ma che mi sembrava terribilmente familiare. Invece che fuggire, venne verso di me a tutta velocità, afferrandomi in fretta per caricarmi di nuovo sulle sue spalle, ma questa volta non mi avrebbe più permesso di lasciarlo. Il problema però, era l'estrema vicinanza dei soldati di Ender: pochi passi e ci avrebbero raggiunto.

Poi, però, accadde qualcosa. Mi sembrò una specie di déjà-vu, perché quando i miei occhi registrarono quella scena, capii che era già successo qualcosa di simile. Infatti, Yul smise di correre e si voltò a guardarmi, una sola volta. Poi abbozzò le labbra in una strana sorta di sorriso e si girò dall'altra parte, verso i soldati. Infine, iniziò a correre verso di loro ed io non seppi neppure cosa era accaduto dopo, perché un albero mi coprii la visuale. Però, mi sentii come se mi fossero state strappate via le corde vocali. Spalancai le labbra, ma non riuscii ad urlare.

«Yu...» un flebile sussurro, minuscolo, un pezzo d'aria che si univa al vento, mentre i miei occhi si riempivano di lacrime e le mie mani affondavano nel tessuto del mantello, all'altezza della schiena dello sconosciuto. «Yul.» ripetei, emettendo una sorta di verso gracchiante. Poi però, quando capii che non sarebbe tornato, che non avrebbe ricominciato a correre assieme a noi, che non sarebbe venuto verso la libertà e che non ci sarebbe stato alcun futuro insieme, mi sentii di ghiaccio. Riuscii ad urlare. Effettivamente mi aspettavo che il mio grido facesse esplodere la foresta intera. «YUL!»

Non ci avevo neppure pensato, ma questa volta il mio corpo si ribellò da solo, cercando in tutti i modi razionali e non di liberarmi per andare da Lui, e salvarlo. Ma fu inutile. Fu inutile perché poi quello sconosciuto parlò e, dentro di me, qualcosa si spezzò.

«Helias, Yul è morto! Devi accettarlo!»

Yul è morto.

Quelle parole mi colpirono in testa come la pietra che avevo scagliato contro la guardia. Mi colpirono più e più volte, dolorosamente, perché mi sentii andare in frantumi. E sentii anche il cielo andare in frantumi. Non mi capacitai di come potesse stare ancora sopra di me, intatto. Mi sentii il cuore andare in frantumi. Non capii come facessi ancora a respirare, a pensare, a lasciar scivolare le lacrime lungo le guance.

Yul è morto. Devi accettarlo.

Mi ricordai. Effettivamente mi ricordavo tutto.

Sapevo tutto. Sapevo che quel giorno, sul patibolo, i soldati erano tantissimi. Sapevo che quella spada stava per trafiggermi il petto e che mi avrebbe ucciso. Sapevo che lui aveva gridato il mio nome, prima di gettarsi davanti a me. Sapevo che la lama gli aveva trapassato il petto. Sapevo che tutto quel sangue, rosso come i suoi capelli, era proprio suo. Sapevo che il suo petto stava pian piano smettendo di sollevarsi e abbassarsi. Sapevo che la scintilla dentro ai suoi occhi si stava per spegnere. Sapevo che quelle labbra non mi avrebbero più baciato, che quelle mani non mi avrebbero più toccato, che quella voce non mi avrebbe più chiamato.

Sì. Sapevo che lui non ci sarebbe stato più, mai più. Che nel mondo non sarebbe più esistito un altro Yul Pevensie, così come non ci sarebbe stato più nessuno capace di amarmi come mi avrebbe amato lui. L'unica cosa che non sapevo, era come avrei fatto senza di lui. Perché aggrapparsi alla sua immagine mentre l'inferno mi circondava era stato un lusso di cui avevo bisogno.

Ne avevo sempre bisogno. Perché avevo bisogno di lui. Avevo bisogno delle sue braccia che mi stringevano forte. Avevo bisogno del suo calore che mi teneva lontano dal freddo e della sua forza d'animo, che mi spronava a superare i miei limiti. Avevo bisogno di quei suoi occhi da guardare, di quel suo sorriso da ricambiare, di quelle fossette sulle guance da toccare, di quelle lunghe ciglia da sfiorare, di quella pelle bianca da accarezzare.

Ma lui non c'era. Lui non sarebbe ritornato dal bosco, perché non c'era. Non c'era mai stato, da quel giorno sul patibolo. Non ci sarebbe stato mai, mai più.

Mi coprii le labbra con entrambe le mani, premendo forte, come se avessi voluto vomitare, mentre lo sconosciuto ancora correva ed io, sulle sue spalle, non facevo che sobbalzare, ma non sentivo comunque nulla. Il mio viso, rivolto alle nostre spalle, guardava da lontano le figure dei soldati di Ender che si avvicinavano senza riuscire a raggiungerci. 

Ma non m'interessava, perché tutto il mondo attorno a me pareva ovattato, rarefatto. Finto. Mi sembrava una menzogna di cui facevo parte integrante, perché non aveva senso che Yul fosse morto, ed io invece fossi ancora vivo. Non era giusto. Quello che mi chiesi, infatti, fu perché non mi fosse stato concesso di morire assieme a lui. Perché non potevo semplicemente morire anch'io?

La mia domanda scivolò in un oblio. Non mi rimase che stringere le mani sulla bocca per trattenere le grida strazianti che mi stavano lacerando dall'interno. Non mi rimase che chiudere gli occhi per non guardare più nulla, per offrire alla mia mente soltanto i ricordi lontano che avevo del mio assassino. E poi, non mi rimase che lasciarmi trascinare da quel mondo finto ed ingannevole che aveva lasciato morire Yul, incurante di quanto fosse prezioso. Mi abbandonai a quell'evolversi degli eventi e, dentro di me, seppi che non aveva più alcun senso combattere.

Perché Yul era morto, ed io non potevo accettarlo.










❖ ❖ ❖

* NDA - L'angolo ritornato dell'autrice inqualificabile*

Hola a tutti!

Sì, lo so, non dite niente: avevo promesso di essere costante e alla fine eccomi qui, di nuovo super ritardataria. SIGH. Mi accorgo che ogni volta che dico "Stavolta farò veloce!" in realtà continuo ad essere lenta come una capra. Oh sì, ho ricominciato a dare nomi all'NDA visto che qualcuno *non fa nomi* (ihih) mi ha detto che gli/le mancava! Detto questo, spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto e scusate il ritardo c':

Alla prossima!

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