8. L'Assassino e la gelosia
Bum. Un colpo alla porta. Sentii le lacrime solcarmi le guance. Mi strinsi alla gonna merlettata della bella donna vicino a me.
«Apri la porta, Edna...» sibilò la voce imperiosa di un uomo, abbastanza alta da essere udita da dietro alla porta. Aveva un qualcosa di cantilenante, di perverso e sbagliato. Tirai su col naso, tremando.
«Ho paura mamma.» biascicai, col muco che mi colava dal naso.
Bum. Un altro colpo.
Lei mi si chinò di fronte. I suoi capelli dorati brillarono alla luce delle candele, i suoi occhi viola, chiari come mazzetti di lavanda estiva appena tagliata, si concentrarono nei miei, pieni di coraggio. La sua mano morbida mi solcò la guancia, asciugandomi le lacrime e il moccio col suo candido fazzoletto di seta. Mi poggiò le mani sulle spalle e la sua gonna di seta rosa strusciò sulla moquette.
«Ascoltami, Helias.» avvertii la presa farsi più salda, pur restando delicata. Lei non tremava. «Devi avere coraggio.»
«Ma io voglio stare con te!» piagnucolai. Scosse la testa e mi tolse una ciocca di capelli dagli occhi.
«Se mi dovesse succedere qualcosa, ricordati che non sei solo.» mi rassicurò. «Finché sarai in vita, finché avrai un ultimo respiro in corpo, non sarai solo.» mi prese il volto fra le mani, mostrandomi un sorriso d'incoraggiamento, anche se aveva qualcosa di spezzato. «Perché avrai ancora te stesso.»
Le lacrime mi inondarono ancor più copiosamente la faccia. Sentivo che qualcosa non andava, lo percepivo, lo comprendevo. E non volevo restare solo. «Ma io non voglio stare senza di te! Ho paura!» soffocò il mio singhiozzo in un abbraccio, tenendomi stretto stretto.
«Anch'io ho paura.» mi sussurrò all'orecchio. «Ho sempre paura, continuamente.» Un altro colpo alla porta ci fece sussultare, ma non smise di parlarmi. «Ma sai cosa mi dico sempre?»Tirai su col naso, scuotendo il capo. «" Mi chiamo Edna Bloomwood e non avrò paura".» scandì con voce fiera. «Sono anni che lo faccio.»
«E funziona?» bisbigliai. Lei rise, tornando a guardarmi negli occhi con determinazione.
«A volte sì, a volte no.» ondeggiò la testa a destra e poi a sinistra, facendo ciondolare i suoi boccoli biondi. «Ma mi ha fatto sempre sentire meglio, oppure semplicemente mi fa ridere di me stessa.» spiegò con un sorriso.
«Apri questa porta!» ripeté l'uomo, mentre continuava a menare colpi. Lo ignorammo, persi nei nostri pensieri e nei nostri discorsi. Nelle nostre lacrime e nei nostri sorrisi.
«Avanti, ripetilo per me.» mi invitò, pazientemente.
«Mi chiamo Helias Bloomwood...» biascicai. «...e non avrò paura.» Lei scosse la testa, insoddisfatta.
«Non va bene così.» Aumentò la stretta intorno alle mie mani. «Devi essere più deciso, devi credere a queste parole. Ripeti!»
«Mi chiamo Helias Bloomwood e non avrò paura.» dissi, un pochino più determinato, mentre quel nuovo ritornello incominciava ad entrare nella testa.
«Ancora!»
«Mi chiamo Helias Bloomwood e non avrò paura!» esclamai. Nel petto mi saliva una nuova sensazione, calda e potente, una che mi avvolgeva il cuore. Il coraggio.
La donna distese le labbra in un ampio sorriso, mettendo in mostra i denti bianchi e perfetti. «Ottimo!» disse, raccogliendosi le gonne per mettersi in piedi. Gettò uno sguardo alla porta, poi ritornò ad osservarmi, sovrastandomi con la sua altezza. La sua mano scivolò sulla mia. Tremavano entrambe.
«Ora ascoltami con attenzione, Helias.» Ma non mi fissava più, adesso era concentrata sulla porta, sulla persona fuori dalla stanza. «Se mi accadrà qualcosa di brutto, se quell'uomo ti troverà, scappa.» Mi condusse fino all'armadio. «Scappa e non ti fermare finché non l'avrai seminato.» Mi sollevò per le braccia, nascondendomi all'interno. «Non uscire finché non se ne sarà andato.» Poi mi diede un bacio sulla guancia, con gli occhi lucidi. «Ti voglio e ti vorrò sempre bene.» E richiuse l'armadio, lasciandomi completamente al buio.
Aprii un poco l'anta sbirciando ciò stava per succedere. Mia madre deglutì e mormorò qualcosa fra le labbra, qualcosa che assomigliava molto alla formula che mi aveva insegnato poco prima. Poi spalancò la porta guardando rigidamente oltre l'uscio.
«Chi mi disturba a quest'ora? Non sono in servizio.» finse di non capire chi ci fosse ad aspettarla, con una voce completamente diversa da quella della madre dolce che era sempre stata. Non appena l'uomo entrò, lei fece un passo indietro, con circospezione. Non riuscii a vederlo, era di spalle e aveva il volto coperto da una sciarpa intorno a naso e labbra e la tesa di tuba di seta sugli occhi.
«Ciao Edna. Ci hai messo un po' per aprire.» parlò l'uomo dalla voce elegante ma affilata come un pezzo di vetro. Tremai solo a sentirla. Lei, a quel saluto, indietreggiò ancora di più. Riuscii ad interpretare bene quell'espressione di impenetrabile professionalità come una maschera sistemata alla bell'e meglio sulla sua preoccupazione e mi si strinse un nodo in gola. C'erano davvero poche cose di cui aveva paura, mia madre.
«Voi! » esclamò con finta sorpresa. «Cosa vi porta qui, nel bel mezzo della notte? » Percepii il ghigno di quell'uomo quasi fosse rumoroso, mentre si avvicinava a mia madre come un lupo pronto ad azzannare. Avevo il cuore in gola. Edna questa volta restò ferma, a testa alta.
«So chi sei.» parlò l'uomo. Riuscii a vedere gli occhi di mia madre strabuzzarsi dallo shock. «So cosa sei.» Le prese il mento fra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi. Lei li incrociò in un gesto di sfida.
«E sentiamo, chi sarei? Cosa sarei?» chiese, piena di sdegno. Le cose sembravano andare sempre peggio.
Lo sconosciuto sorrise, divertito. «Hai avuto un bel coraggio a venire proprio qui, a Skys Hollow. Devo ammetterlo, una mossa intelligente... Nasconderti mettendoti in bella vista.» Rise, sprezzante. Poi iniziò a guardarsi intorno, muovendosi sulle scarpe pregiate con un suono strisciante, quasi fosse un rettile. «Dov'è Lui? » chiese, stringendo gli occhi. Mia madre si irrigidì, ma cercò di mantenere il suo tono sprezzante.
«Lui chi?» la voce le si incrinò, provocando al suo interlocutore un ghigno che spuntava oltre i lembi della sciarpa.
«Il bambino.» sibilò. «Il mio bambino.» Mi si mozzò il fiato. Stavano parlando di me? Che voleva dire che ero suo?
Il volto di mia madre si fece cupo, tanto che rivolse all'uomo uno sguardo carico di disprezzo. Intravidi i capelli biondi di lui sotto la tuba blu notte. «Non c'è nessun vostro bambino.» Una pausa di silenzio cortissima. «Sapete che non mi è permesso avere figli, in questo lavoro!» replicò la bellissima cortigiana, sbattendo un pugno guantato sulle balze di merletto rosa del suo abito. L'uomo aprì la bocca tumida in un sorriso malevolo.
«Non sta bene mentire.» Finse un tono offeso, poi prese qualcosa di scintillante dalla tasca interna della giacca. I battiti mi accelerarono. «Tanto lo troverò.» La donna rimase a occhi sbarrati, indietreggiando. «E quando succederà ...» Lei si ritrovò con le spalle al muro.
«Cosa fate?!» urlò mia madre, mettendo a fuoco l'oggetto fra le mani dell'uomo. La ignorò e alzò il pugnale.
« ... Ci divertiremo insieme.» E lo conficcò nello stomaco della donna. Una volta, due volte, tre volte. Persi il conto ma continuai a sentirne il suono, il tonfo della lama che affondava accompagnato da lamenti di dolore.
Mi strinsi le mani sulla bocca, cercando in tutti i modi di piegare l'urlo che mi saliva dalla gola, mentre le lacrime mi esplodevano sul viso storcendomi i lineamenti. Volevo uscire. Volevo gridare. Volevo sbattere i pugni a terra. Volevo saltargli addosso, fargli del male. Volevo ucciderlo.
Qualcosa dentro di me si spezzò.
Quando l'uomo fu soddisfatto, abbandonò il corpo di mia madre a terra. Esanime, il suo sangue si allargava in una pozza rossa sul tappeto. Un corpo morto.
Si guardò intorno, cercò sotto il letto, scostò le tende, buttò i cassetti all'aria. Cercava. Cercava qualcosa. Cercava me.
Il cuore batteva con violenza contro le costole, come se volesse uscire di lì per fuggire chissà dove. Il sangue mi pulsava nelle vene e tutto riverberava nelle orecchie come una musica folle e incessante. Mi acquattai in un angolino dell'armadio, stringendomi le ginocchia al petto, tenendomi le mani sulla testa.
Mi chiamo Helias Bloomwood e non avrò paura.
Chiusi gli occhi. L'uomo si fermò, smettendo di fare rumore. Quando vide l'armadio, sorrise.
Mi chiamo Helias Bloomwood...
Con uno scatto fulmineo, si avvicinò. Le ante si aprirono, la luce delle candele mi accecò per un attimo. L'ombra dell'uomo mi sovrastò.
... E non avrò paura.
Sobbalzai dal letto, completamente madido di sudore. Mi stropicciai il viso fra le mani, cercando di togliermi quella sensazione d'ansia e turbamento dallo stomaco. Di nuovo quell'orribile incubo. Quell'orribile ricordo.
Un braccio muscoloso mi spinse di nuovo giù, sul letto, stringendomi in un abbraccio possessivo. Chiusi gli occhi, ancora assonnato mentre sentivo il suo petto appiccicarsi contro la mia schiena, in un perfetto incastro.
«Selim...» mugugnai, con la voce ancora impastata dal sonno, pensando che il bel Sultano si fosse di nuovo infilato nelle mie stanze durante la notte.
«Chi è Selim?!» tuonò una voce maschile che conoscevo bene, di solito beffarda, tradendo un tono infastidito. Solo dopo qualche secondo mi accorsi che ero ritornato alla Fortezza dell'Assassino e che mi ero lasciato alle spalle Costantinopoli da almeno una quindicina di giorni. Ero arrivato alla Fortezza questa notte stessa dopo aver cavalcato per giorni Driahzel, così mi ero subito gettato nel letto senza mangiare o salutare nessuno, sfinito e ancora con l'odore del Deserto Rosso e dei regni del sud appiccicato addosso. Balzai via dalle sue braccia.
«Yul?! » esclamai, trovandomi di fronte la faccia del bell'assassino dai capelli color sangue e dagli occhi blu. «Che diavolo ci fai nel mio letto?!» sbottai. «E come fai a sapere che sono tornato?» Uscii dalle coperte, stringendo i pugni. Ero finalmente ritornato a casa e la prima persona che vedevo era proprio l'ultima che volevo avere davanti. Lui alzò le spalle con fare strafottente.
«Lo sai che sono onnisciente, no?» Mi rivolse un sorrisino svogliato e provocatorio. Digrignai i denti, lanciando uno sguardo alla porta di mogano. Chiudere a chiave era la prima cosa che facevo dopo essere entrato nelle mie stanze ed era un gesto involontario, di routine, una precauzione in una fortezza piena di assassini. Impossibile che me ne fossi dimenticato. Yul sembrò cogliere al volo i miei pensieri perché sghignazzò. «Era una serratura davvero... cedevole.»
E si alzò anche lui dal letto, seguendo i miei movimenti. Mi si avvicinò e di conseguenza feci un passo indietro. Increspò la bocca in un sorriso beffardo. «Sono stato il primo a dirti "bentornato", non sei contento?» si avvicinò ancora di più ed io indietreggiai, inconsciamente, trovandomi spalle al muro. Cercai di colmare quella strana timidezza che mi saliva nel petto col mio tipico tono sprezzante.
«Dovrei essere contento perché sei il primo a rompermi le palle?» sbottai, mentre lui esibiva un suadente sorrisetto sornione
«Oh, quanta dolcezza!» In un gesto fulmineo si allungò per stamparmi un bacio sulla punta del naso. Gorgogliai un verso tanto sorpreso che mi coprii con le mani la bocca, arrossendo fino alla punta delle orecchie. Piantò le mani sul muro, accanto alla mia testa, imprigionandomi. Fu un chiaro messaggio a dire: non puoi fuggire. «Passiamo alle cose importanti.» Si avvicinò al mio viso e il suo volto si indurì, gli occhi blu si ridussero a due fessure. «Chi è Selim?» Sembrava parecchio arrabbiato. Deglutii.
Un momento. Non avevo fatto proprio nulla di male e non avevo nulla da nascondere: era lui l'impiccione che doveva occuparsi unicamente dei propri affari. «Il Sultano di Costantinopoli.» ribattei, seccato. «Ora mi lasceresti passare?» Scoccai un'occhiata infastidita alle sue braccia, che mi costringevano a mantenere un contatto con lui. Mi ricordai la sera in carrozza, di ritorno al Ballo dell'Orchidea, e dovetti mordermi l'interno della guancia per non arrossire.
«E perché chiami per nome il Sultano di Costantinopoli?» domandò, sospettoso, come a voler sottolineare la gravissima questione. Alzai le spalle.
«Evidentemente perché ero il suo preferito, me l'aveva imposto lui.» spiegai, senza mezzi termini, mostrandogli un sorrisino maligno. I suoi occhi si strinsero lievemente, come se cercassero di cogliere una sfumatura di significato ancora non molto chiara.
«Preferito?» Inclinò la testa, con le palpebre ridotte a due fessure. Tenni lo sguardo su di lui, sfacciato e ancora scapigliato e puzzolente dal viaggio.
«Esatto.» ribattei. «Sono entrato nell'harem imperiale e sono diventato il suo sposo. Ed è stato molto bello!» esclamai, sfrontato e divertito, perfino malizioso, ma di una malizia cattiva. Forse, mi sentivo un po' in colpa. In colpa di cosa poi? Non l'avevo ancora capito. Cercai di nascondere quella strana sensazione di disagio e ansia che mi si annidava nelle viscere e mi costringeva ad ingoiare la saliva. Che modo strano di sentirsi.
Gli occhi blu notte di Yul parvero scintillare di una sfumatura nera e feroce, come se quel colore si fosse macchiato d'inchiostro. Non ebbi il tempo di reagire che la sua mano mi bloccò in una morsa violenta i polsi, sbattendoli contro il muro, mentre con l'altra mi strappava la camicia. «Lasciami, Yul!» gridai, come se cogliessi in quel momento la sua natura d'assassino, la sua ferocia nascosta sotto la faccia strafottente, la sua voglia di violenza. Sentii i ticchettii dei bottoni che rimbalzavano sul parquet, il rumore dello strappo nel cotone e poi il morso. «Ahi!» urlai. «Mi fai male!» Mi ignorò.
Udii i denti penetrarmi nel collo con forza, come con l'intento di sbranare, di rivendicare. Mi dimenai invano sotto i muscoli del bell'assassino sopra di me. Passò sulla spalla, poi sul petto, lasciando lividi rossi-violacei sulla pelle candida. Morse un capezzolo con forza, ed io mi lasciai andare ad un gemito dovuto più al dolore, che altro. «Ti ho detto che mi fai male!» sbraitai, con la voce ansimante.
Solo allora incrociò i suoi occhi color notte nei miei, ghiaccio chiarissimo. Qualcosa dentro di me vibrò di piacere e allo stesso tempo di paura a contatto con quello scintillio di furia animalesca, pericolosa e sensuale.
«Sarà meglio far vedere a chi appartieni se qualche altro bastardo oserà toccarti.» ringhiò, con voce arrochita dal desiderio e allo stesso tempo dalla rabbia. Gli scoccai un'occhiata torva, mentre alzavo un sopracciglio.
«Io non appartengo proprio a nessuno!» sibilai, mentre gli rifilavo una rapida ginocchiata nello stomaco. Allentò la presa e ne approfittai per sgusciare via, infilandomi nel bagno piccolo ma lussuoso dei miei appartamenti, chiudendomi la porta alle spalle. Era incredibile, anzi, più che incredibile: non avevo mai visto Yul tanto arrabbiato. «E ora vattene!» gli urlai da dietro la porta, esalando un sospiro di sollievo. Non ebbi risposta e fui convinto che se ne fosse andato. Mi sembrava... geloso. Scossi la testa.
Mi liberai della camicia da notte ormai strappata e mi infilai sotto la doccia con un sospiro piacevole. Una delle cose migliori della Fortezza dell'Assassino era l'acqua corrente: era costosissima e non si trovava ovunque. Sentii i granelli di sabbia ancora appiccicati alla pelle abbandonarmi con leggerezza, i capelli mossi ma sporchi afflosciarsi sulla fronte, grondanti d'acqua e le gocce accarezzarmi la pelle.
Lanciai un'occhiata severa al petto, costellato da morsi e succhiotti rossastri, ma poi mi lasciai andare, chiudendo gli occhi e abbandonando per un momento tutti i problemi sotto lo scroscio dell'acqua.
Li riaprii velocemente solo quando sentii uno scatto verso la serratura della porta e un cigolio. L'assassino dai capelli rosso sangue era di nuovo lì, appoggiato allo stipite della porta, a braccia incrociate. Gli angoli della sua bocca di piegarono in un sorriso malizioso.
«Che bella visuale.» Si leccò le labbra, squadrandomi da capo a piedi. Arrossii violentemente, cercando di coprirmi le nudità con le mani. Trattenni a stento una smorfia. Pensavo d'aver chiuso a chiave anche la porta del bagno. Quel dannato furfante invece doveva averla di nuovo forzata!
«Non pensavo fossi così pudico.» mi schernì con il sorrisetto incastrato sulla faccia, mentre si avvicinava con un fare tutt'altro che innocente.
«Mi sembrava d'averti detto d'andartene!» esclamai, cercando il più possibile di mantenere le distanze mentre lui le accorciava. Ridacchiò al tono imbarazzato della mia voce. In un attimo avevo perso tutta la mia tracotante arroganza.
«Ci avevo pensato ma poi ho cambiato idea.» Il suo sorriso si spense per un attimo. «Volevo scusarmi.» Fece scorrere il suo sguardo sui morsi rossi che di lì a poco sarebbero diventati viola. Le mie abilità di guarigione mi facevano ridere: quando si trattava di ferite, gravi o superficiali che fossero, guarivo in poco tempo; ma quando si parlava di graffi minuscoli o lividi, rimanevano come un qualsiasi altro umano, come se il corpo rifiutasse di guarirmi per così poco.
«Farlo in un altro momento, no?» ironico, cercai di riacquistare il tono infastidito da acerrimo nemico quale ero, ma subito ricordai delle mani chiuse a coppa intorno alla mia nudità e mi zittii. Era difficile fare i galletti senza vestiti. Yul evidentemente lo notò perché ghignò compiaciuto. Si avvicinò ed io non potei più indietreggiare perché ancora una volta avevo le spalle al muro. Stava accadendo troppe volte.
Mi voltai dall'altra parte, dandogli la schiena pur di non affrontarlo nelle condizioni in cui ero, dimenticandomi delle mie natiche incustodite.
«E poi chi ti laverebbe la schiena?» sussurrò sul mio orecchio, sfiorandomi la pelle nuda della schiena con la sua camicia da notte bianca. Si insaponò le mani, facendole scorrere poi sul mio corpo bagnato.
«So farlo... Ah-» mi bloccai, senza controllare la mia voce. «So farlo da solo!» completai la frase, cercando in tutti i modi di non gemere mentre le sue mani lunghe, affusolate, coperte qua e là da piccoli calli causati dalle impugnature delle armi, mi sfioravano la pelle, dalla nuca fino al fondo schiena, senza però arrivare a toccarlo direttamente.
«Bugiardo.» bisbigliò con tono canzonatorio sfiorandomi l'orecchio con le labbra, il suo tono roco e il suo fiato caldo mi si insinuò nei canali uditivi, le sue dita non smettevano di insaponarmi.
«Ah... Bast...» ansimai, lasciando quella parola a metà fra un basta e un bastardo.
«Cosa sono questi versetti lascivi?» canticchiò, la voce ammantata di malizia. «Eppure, ti sto solo lavando la schiena...» Percepii il tocco delle sue mani che premevano sulla carne, scivolando dolcemente sulla schiuma e sulle gocce d'acqua con una sensazione vellutata. Mi leccò l'orecchio, mordendomi il lobo.
«Di più.» sussurrai, a voce bassissima.
«Come dici?» chiese il rosso, con un ghigno, facendo finta di non aver sentito, giusto per il gusto di farmelo dire un'altra volta.
«Non lo ripeterò.» dissi e, questa volta, mi girai col petto rivolto verso di lui, prendendolo per il collo e baciandolo, senza chiedere niente e senza pormi alcun problema. Era stato lui il primo a stuzzicarmi, no?
Assaporai la sua bocca con un gemito di piacere fra le labbra, mentre la sua ruvida camicia di cotone si strofinava sui miei capezzoli turgidi. Per un attimo parve addirittura stupito, poi le spalle si sciolsero dalla rigidità della sorpresa e fece scorrere le mani sulla mia nuca. Scesero sulla schiena, giunsero sui glutei tondi, spingendoli per avvicinarmi contro il suo corpo. Continuammo ad indugiare uno sulle labbra dell'altro, come se non aspettassimo altro da giorni, come se fosse la nostra unica fonte di nutrimento e noi fossimo dei morti di fame, voraci. Insaziabili.
Un bacio talmente spietato da farmi piegare sulle ginocchia e scivolare verso terra, trascinando Yul con me, mentre l'acqua della doccia ormai ci cadeva addosso. Mi morse le labbra con i denti, tirandole, poi mi accarezzò la lingua con la sua e, senza staccarci, prendemmo aria l'uno dalla bocca dell'altro, senza sprecare centimetri di pelle. Yul si tolse i vestiti ormai fradici e mi avvolse, completamente nudo, facendo aderire la sua pelle con la mia. Mi staccai, giusto per esprimere ciò che provavo in quel momento.
«Ti odio.» biascicai, mentre iniziava a perlustrare con la lingua e con le mani ogni centimetro del mio corpo. Sorrise e leccò una goccia d'acqua che scendeva lenta sulla mia guancia, imitando una lacrima.
«Io invece ti amo.» sussurrò, leccandomi il petto fino a mordicchiarmi i capezzoli con un fare giocoso, indurendosi soltanto perché mi sentiva gemere. Strabuzzai gli occhi, arrossendo più di prima.
«Bugiard... Oh.» Mi succhiò il capezzolo destro con insistenza, cercando in tutti i modi di farmi urlare.
«Sei davvero sensibile, Helias.» sussurrò, stuzzicando ancora di più la mia eccitazione nell'udire il modo in cui diceva il mio nome. Senza accorgermene, mi ritrovai di nuovo sulla sua bocca, godendomi l'improbabile ma piacevole sapore di menta e caramello. Quando fu soddisfatto continuò a lappare e baciare il corpo, cospargendolo di brividi caldi: arrivato al basso ventre, inarcai la schiena ansimando.
«Di più.» ripetei, questa volta un ringhio fra i gemiti. Non mi bastava.
I suoi occhi brillarono di desiderio. «Non aspettavo altro.» disse, prima di allungarsi sulla mia erezione, che si limitò a stuzzicare con la lingua, facendomi gettare la testa all'indietro. Mi prese per le ginocchia, aprendomi ancora di più le gambe. Si staccò, giusto per contemplare compiaciuto il mio orifizio.
«Non guardare!» gridai, paonazzo dalla vergogna.
«Che bel buchino rosato che hai.» cantilenò malizioso, con tutta l'intenzione di mettermi in imbarazzo.
«Stai zitt... Ohh!» iniziò a leccarmi e a introdurre la sua lingua con spinte decise all'interno del mio cerchio di muscoli. «No! » mi divincolai, invano. «Io... Non mi sono ancora lavato!» ansimai, nella speranza di essere lasciato. Yul sorrise, leccandosi le labbra.
«E' per questo che ti sto pulendo,no?» sghignazzò, riprendendo a penetrarmi con la sua lingua liscia e lussuriosa. Chiusi gli occhi, con la schiena inarcata, ritrovandomi involontariamente a stringergli i capelli rosso sangue fra le dita, in un impeto di passione. «Ti prego...» gridai, senza staccare lo sguardo dai suoi occhi, incollati sul mio viso mentre mi leccava. Il suo sorriso lascivo si allargò.
«Ti prego cosa?» ripeté, ghignando, mentre aspettava la mia risposta.
«Fammi quel che vuoi.» ansimai, impaziente. Ma che diavolo stavo dicendo? Non riuscivo più a controllare le mie parole, completamente offuscato dal desiderio. Lo volevo, subito, in quell'istante. Volevo sentirlo sbattere contro la mia carne. Lui non aspettò oltre. Entrò dentro di me con un singolo e rapido gesto. Roteai gli occhi indietro, chiudendoli. «Sì.» mugugnai, affondando nel picco di piacere che mi attanagliava le viscere e godendo alla sua penetrazione, violenta e cruda.
Si mosse velocemente, su e giù, concentrandosi su ogni minimo contatto, scivolando fulmineo in avanti per poi ritrarsi. In quella posizione, uno di fronte all'altro, tutto sembrava più intimo, quasi si trattasse di un abbraccio. Lui si godé la mia espressione di sofferenza e piacere e io mi persi nei suoi occhi blu notte, ricolmi di lussuria e strafottenza. «Più forte!» esclamai con una certa urgenza, assecondando i suoi movimenti, stringendo le mani sui suoi capelli setosi. Era vero, ero andato a letto col Sultano, ma non era stato niente in confronto alla sfrenata lussuria che Yul mi faceva provare.
Come a rispondermi, mi strinse le mani sui fianchi, assecondando ancora più velocemente i miei movimenti contro di lui. Sudore e gocce d'acqua ci scivolavano addosso, seguendo il nostro ritmo. «Yul! » gemetti, quando lui si posizionò con un angolo incredibile, colpendomi la prostata ad ogni movimento dei fianchi. Sollevai lo sguardo verso di lui, condividendo l'espressione di pura lussuria sul viso e di qualcosa di più sfrenato e libero, un po' come il sentimento di spietata perversione che ci riempiva durante un assassinio. Un qualcosa di selvaggio.
«Ah, sì... Hel-» grugnì Yul, sbattendo per un ultima volta contro di me per poi riempirmi di sperma. Gemendo, inarcai la schiena e venni schizzando sul suo petto. Poi si staccò, appoggiandosi al muro per riprendere fiato.
Qualche minuto dopo, con la mente lucida e sgombra dal desiderio, cacciai a calci fuori dal mio appartamento Yul, ancora completamente nudo, come piccola rivincita. Solo dopo qualche minuto mi misi le mani nei capelli, domandandomi cosa mi fosse preso. Come potevo essere così coinvolto dal mio nemico? Evidentemente, il mio incarico a Costantinopoli più che allontanarmi mi aveva fatto venir voglia di rivederlo. Scossi con violenza la testa. No.
Io lo odiavo. Lo odiavo.
Buttai fuori l'aria dal petto, rinvigorito dalla determinazione di quelle parole. Non sarei ricaduto nello stesso errore.
Gettai uno sguardo fuori dalla finestra, scorgendo le prime note di un nuovo mattino a Skys Hollow. Era incredibile la differenza con Costantinopoli: era come se tutto fosse diventato grigio all'improvviso. Le chiese bianche, i cappotti scuri, i comignoli fumanti, le strade grigie. Udii le urla dei giovani strilloni e il tintinnare incessante delle campane, mentre comunicavano ai passanti le nuove notizie e vendevano i giornali ad una moneta. Il nitrire dei cavalli sovrastò le risate di qualcuno e l'incessante battere delle ruote delle carrozze sulla pietra. Nonostante tutto quella era la mia città.
***
«Hai fatto il tuo dovere.» esordì il Re degli Assassini, con un tono di sufficienza. «Ma» trattenni a stento una smorfia: c'era sempre un ma. «non avresti dovuto renderti così noto.» strinsi la mascella, cercando di mantenere la calma. «Una copertura è chiamata tale perché bisogna infiltrarsi e nascondersi, in silenzio.» sibilò, appoggiando il mento regale su una mano chiusa a pugno. «Mi aspetto più discrezione la prossima volta.»
«Certo.» risposi, secco, stringendo i pugni sotto alla scrivania.
«Ho un'altra missione per te.» si limitò a dire, allungando un foglio colmo di informazioni. «Uccidi il Re dei pirati e distruggi i suoi contratti coinvolti con la tratta degli schiavi via mare.» riassunse, con un espressione disinteressata, come se stesse dettando legge e non si aspettasse di essere mai contraddetto. Poi la sua espressione si indurì, mentre i suoi occhi giallo oro si stringevano. «E questa volta voglio un lavoro pulito.»
Non ci fu bisogno di chiedere quando prepararmi per la partenza, perché diedi per ovvio che aveva già preparato tutto. Non importava che fossi arrivato durante la notte di quel giorno stesso da un lunghissimo viaggio e da un'estenuante missione. La presi come l'ennesima batosta da parte del sadico Alaister Noir.
Reduce dalla prima missione, non ci fu neanche bisogno di disfare i pochi bagagli che avevo. Mi limitai a togliere da essi il bel pugnale d'oro e d'avorio, sapendo di non poter portare una cosa tanto vistosa in una città di criminali. Portai due lame celate, l'una al polso destro, l'altra al sinistro, poi un coltello per ogni scarpa e due pugnali lunghi legati ai polpacci. Avevo perfino piccoli coltelli da lancio nascosti nella cintura e una lametta attaccata sotto al cappellino.
Questa volta la missione, sebbene molto meno complicata da progettare rispetto a quella precedente, era ben più pericolosa e avevo necessità di tutte le armi di cui disponevo. Dovevo uccidere il Re dei Pirati ed ero sicuro che non si chiamasse così per caso.
Diedi una rapida occhiata allo specchio prima di uscire dalle mie stanze. Il mio costume era perfetto: cappellino blu scuro con nastro bianco e rosso, giacchetta anch'essa sull'oltremare con lunghe file di bottoni, camicia di lino bianco, pantaloni sempre rigorosamente panna e un fazzoletto rosso acceso a circondarmi il collo. Una perfetta tenuta da giovane marinaio.
Quando iniziai a percorrere i corridoi marmorei della Fortezza dell'Assassino quasi mi immaginai di incontrare nuovamente il mio tanto odiato rivale. Così fu, ma mi accorsi in ritardo che quella volta non era solo.
Un volto sottile e minuto mi squadrò da capo a piedi, arricciando il nasino all'insù. Non feci fatica a riconoscere quel ragazzo dalla pelle color crema, i capelli nocciola, gli occhi di uno scialbo verde spento e le piccole labbra carnose, che sembravano più disegnate con la matita che donate dalla natura. Lysandro.
Era uno dei cortigiani del bordello che la Fortezza dell'Assassino sosteneva e ingaggiava. Tuttavia, non lo era ancora diventato a pieno: ben presto avrebbe venduto la sua verginità al migliore offerente e solo allora si sarebbe vantato di essere uno dei cortigiani di uno dei migliori bordelli di Skys Hollow. Storsi la bocca solo a guardarlo e lui fece lo stesso. Poi digrignai i denti, notando come, al mio arrivo, si era spalmato contro il petto di Yul, con il braccio stretto a quello di lui, come a rivendicarlo come suo. Lysandro era una di quelle persone che proprio non sopportavo e Yul... anche lui lo era, quindi facevano di sicuro una gran bella coppia.
Ma allora perché provavo tutta quella rabbia? Mi si annodò lo stomaco in moto di fastidio e sentii la terribile voglia di togliermi il cappellino blu da marinaio solo per il gusto di mettere in mostra la lametta e spaventarlo a morte. Sarebbe bastato ad ucciderlo d'infarto.
E poi perché mi preoccupavo tanto? Aveva l'obbligo di arrivare casto il giorno in cui sarebbe stata venduta la sua verginità. Anche se, c'era da dire, si potevano fare tante altre cose senza perdere la verginità. E poi, avrebbe anche potuto perderla e nessuno se ne sarebbe accorto. Strinsi i pugni e incrociai lo sguardo blu notte dell'assassino dai capelli color sangue.
L'espressione di Lysandro mutò in una smorfia felina.
«Valentine.» mi chiamò con aria maliziosa mentre stringeva la stretta intorno al petto muscoloso di Yul. Lui ci osservò cautamente, mentre io mi avvicinavo con fare non troppo amichevole.
«Lysandro.» gli feci eco. Ci conoscevamo entrambi da parecchio e in tutto quel tempo, non riuscii a ricordare una singola volta in cui non avessi provato l'impulso di colpire quel grazioso visino con un mattone. O di provare su di lui una delle tante torture che il Re degli Assassini si era premurato d'insegnarmi.
Non aiutava certo il fatto che lui avesse speso una montagna di soldi per trasformare Lysandro da un povero orfanello di strada in uno dei cortigiani più contesi di Skys Hollow. Alaister era amico della proprietaria del bordello, Sophia o anche chiamata la "madre", nonché munifico benefattore di Lysandro e del bordello da molti anni.
«Pensavo ti avessero spedito nel deserto.» disse lui, fissando con occhio attento i miei abiti, come se fosse pronto a criticare. «La primavera è passata così in fretta, da non credere! Be', suppongo che, se uno si diverte molto...» E lanciò un'occhiata maliziosa a Yul che saltellava con lo sguardo da me a Lysandro, da Lysandro a me.
Una calma feroce, mortale, iniziò a pulsarmi nelle vene. Una sola volta l'avevo aggredito, quando avevamo entrambi quindici anni e lui mi aveva strappato dalle mani un bellissimo bracciale d'oro che mi aveva appena regalato un nobile. La lotta che ne era seguita ci aveva fatto ruzzolare giù per le scale. Poi avevo passato una notte nelle segrete della Fortezza, per via dei lividi lasciati sul suo volto, picchiandolo selvaggiamente.
Cercai di ignorare quanto ormai si fosse appiccicato a Yul. Lui di solito era sempre gentile con i cortigiani o le cortigiane e tutti lo adoravano, sapeva che la loro sorte non era affatto migliore della nostra. Anche io lo ero, in fondo, avevo trascorso la mia infanzia in un bordello e sapevo come andavano le cose, conoscevo il triste destino di mia madre. Eppure, non riuscivo proprio a farmi andare giù quel ragazzino, come se qualcosa, qualcosa collegato a tanti anni prima, mi spingesse ad odiarlo. Qualcosa. Incrociai le braccia, stringendo la mascella fino a sentire i denti scricchiolare. Finsi indifferenza.
«Posso chiederti cosa ci fai qui?» Mi lanciò uno sguardo d'intesa. Evidentemente avevo fatto la domanda giusta.
«Oh, Alaister...» pronunciò il suo nome con un tono che lasciava intendere un'amicizia più che intima. «ha organizzato un pranzo per me, in onore dell'imminente cerimonia a me dedicata.» In poche parole, in onore alla vendita del suo culo.
«Ha invitato i tuoi futuri clienti?» sibilai, tagliente e disgustato.
«Oh, no.» disse lui, soffocando una risatina. «Solo io e i ragazzi. E Sophia, naturalmente.» Usava il nome della Madre come un'arma, una parola che stava a significare: sono più importante di te, ho più influenza di te, IO sono tutto e tu non sei niente.
«Che meraviglia.» risposi. Yul non aveva ancora detto una parola. Lysandrò alzò il mento con aria altezzosa, guardandomi dall'alto del suo nasino lentigginoso e abbronzato. «La cerimonia è stata annunciata fra tre mesi e tutti si aspettano grandi cose da me!»
Avevo già assistito ad una delle loro aste: alcuni giovani cortigiani venivano istruiti fino ai diciotto anni, poi si vendeva la loro verginità al miglior offerente. «Yul è stato così carino ad aiutarmi e ad accertarsi che fosse tutto pronto per la mia festa.» continuò lui, stringendogli il braccio con le piccole dita tutte tirate a lucido. Mi sorpresi della rapidità con cui volli staccare la mano di Lysandro dal polso che la sorreggeva. Solo perchè Yul non prendeva le distanze dai cortigiani non significava che dovesse essere così...amichevole!
«E quanti ospiti ci saranno!» riprese, su di giri. «I clienti importanti devono essere trattati al meglio.» cinguettò. «Oh, vorrei tanto poterti dire chi sarà presente, ma Sophia mi ucciderebbe! E' tutto avvolto nella massima riservatezza.»
Basta. Ancora una parola dalla bocca del cortigiano e fui certo che gli avrei fatto ingoiare tutti i denti. Inclinai la testa, gettandogli uno sguardo torvo mentre stringevo i pugni. Yul si schiarì la gola, osservando il mio gesto e la pericolosità del mio sguardo. Solo poco dopo notò la sacca che portavo in spalla e il mio abbigliamento particolare.
«Dove stai andando?» disse, ignorando completamente le parole e i gesti civettuoli di Lysandro.
«Parto per una nuova missione.» risposi, secco, senza più sforzarmi di trattenere la rabbia. Allora lui si scostò le mani di Lysandro di dosso. Finalmente.
«Torna al tuo pranzo.» gli disse. Lui mi rivolse un altro dei suoi sorrisi, che poi rivolse anche a Yul con fare decisamente meno velenoso e assolutamente più malizioso.
«Quando torni a farci compagnia?» ribatté, increspando le labbra rosse in un accenno di broncio.
Basta. Basta. Basta.
Girai i tacchi, furente."Ti amo" mi sentii riverberare nelle orecchie come un ingannevole richiamo. «Goditi il tuo bell'amichetto!» dissi sopra la mia spalla, girandomi per andarmene.
«He...» si bloccò. «... Valentine!» si corresse. Ma non mi voltai, nemmeno quando sentii Lysandro ridacchiare e sussurrare qualcosa, anche se ciò che più desideravo al mondo, in quel preciso istante, era afferrare il coltello da lancio nella cintura e piantarlo con tutta la forza che avevo nel viso fin troppo carino del cortigiano.
L'hai sempre odiato, mi dissi, sempre.
Vederlo toccare in quel modo Yul, non cambiava certo le cose. No signore. Eppure... La verginità di Lysandro era fuori dubbio, doveva esserlo per forza. Ma con le altre milioni di cose che potevano fare? Che cosa poteva aver fatto con Yul? Sentendomi nauseato, furioso e in qualche modo piccolo, mi diressi a grandi falcate verso l'ingresso, schiumante di rabbia. Yul mi rincorse, lasciandosi alle spalle un Lysandro offeso dall'essere ignorato tanto bellamente.
«Helias!» mi chiamò, in un sibilo basso. Questa volta soli, mi voltai, con la collera dipinta sul viso.
«Vedo che ti sei divertito parecchio nei mesi in cui sono mancato!» sibilai, assottigliando gli occhi in due fessure. Incrociò le braccia, accennando ad un sorrisetto beffardo.
«Sai, mi sembri quasi...»
«Geloso?!» lo interruppi. «Neanche nei tuoi sogni più sfrenati!» gli gridai in faccia. Allargò il suo ghigno, mutandolo in compiaciuta malizia.
«Stavo per dire arrabbiato.» ammiccò, sorridendo per mostrare le fossette sulle guance. Accidenti. Arrossii fino alla punta dei capelli.
«Io...» cercai di ribattere senza però trovare nulla di efficace. «Be', in ogni caso non mi interessa! Anche io mi sono divertito col Sultano!» E gli diedi le spalle, pronto ad uscire. Come potevo essere geloso di un simile bastardo?! E in più era anche il mio rivale, il mio acerrimo nemico. Aprii il portone, furioso.
All'improvviso, Yul diede un calcio alla porta, richiudendola con un tonfo sordo. «Pensi di essere stato l'unico ad essere punito?» parlò, questa volta con una fredda serietà. Aggrottai le sopracciglia, voltandomi verso di lui. «A te almeno ha dato una missione.» continuò, con una smorfia sul viso sensuale, gli occhi blu adombrati. «Io invece sono stato costretto a scortare Lysandro e le cortigiane dai negozi ai caffè, dalle visite con i clienti ai pranzi regali.» Strinse i pugni. «Dappertutto.» sbatté una mano contro il muro accanto a lui. «Hai idea dell'umiliazione che prova un assassino a fare da baby sitter e servitore?!»
Per un attimo mi sentii piccolo e stupido, ma poi mi feci coraggio gonfiando il petto, senza lasciare che le sue scuse mi scalfissero. «Già, ma ti è comunque piaciuto passare il tuo tempo con Lysandro!» ribattei, mettendo su il broncio.
«Pensi mi sia divertito?!» ribadì, questa volta con la rabbia che gli si leggeva in viso. Poi mi prese il mento con una mano, portandomi il viso di fronte al suo e costringendomi a guardarlo negli occhi. «Cosa vuoi che me ne importi di un cortigiano qualunque, che sta per vendere a peso d'oro la sua verginità?!» Mi piacque da morire la definizione di Lysandro come un cortigiano qualunque, mi faceva sentire mille volte più importante.
Mi lasciò il viso e inclinò la testa, riprendendo il suo tono strafottente. «E poi come potrei ambire a lui? Non mi interessa e non ho un soldo.» sbuffò una mezza risata, alzando le spalle. Era vero. Diversi Assassini avevano un enorme debito con Alaister Noir, perché erano stati accolti nella Gilda sin da piccoli ed erano stati e continuavano ad essere praticamente mantenuti da lui. Perfino i soldi delle missioni venivano retratti per colmare la somma di denaro che gli dovevano. Io e Yul eravamo fra quelle persone.
«Ah, d'accordo.» dissi, sentendo il sollievo attraversarmi la pancia. No, perché mai dovevo sentirmi sollevato? Scossi la testa. «Comunque non mi interessa.» Mascherai i miei sentimenti nella strafottenza e alzai il mento, impettito. Aprii nuovamente la porta, questa volta con tutt'altro stato d'animo.
«Certo, certo.» Si avvicinò. «Ma comunque sei molto carino quando ti ingelosisci!» E mi stampò un bacio sulla guancia, volutamente casto e forse per questo quasi più eccitante. Strinsi i denti arrossendo dalla punta dei piedi a quella delle orecchie. E dire che speravo se ne fosse dimenticato.
«Io non sono geloso!» tuonai, fra la rabbia e la vergogna. Poi mi richiusi la porta con un tonfo fragoroso, ma non prima di sentire un'ultima frase che mi agitò le membra come se avessi delle farfalle svolazzanti al loro posto.
«Ricorda ciò che ti ho detto stamattina!»
Già, ricordavo.
Ti amo. Ti amo.Ti amo.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro