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26. L'Assassino e la visita

Helias

Una voce mi stava chiamando.

Helias...

Era vicina, come sussurrata al mio orecchio. Ma ce l'avevo dentro, nella testa. Non riuscivo a muovere un solo muscolo, non riuscivo ad aprire gli occhi. Ma avevo già sentito quella voce, sapevo di averla già udita.

Ascoltami Helias...

Mi faceva male la testa, come se tanti pugnali mi stessero trafiggendo allo stesso momento. Ed ero fermo, immobile, come bloccato nel mio stesso corpo.

E' molto importante che tu non...

Improvvisamente, si interruppe, e una nuova voce femminile si aggiunse.

«Ez!»

Si era fatta improvvisamente lontanissima, quasi inudibile.

«Lassù sta succedendo qualcosa! Devi venire!»

«Non posso! Non se sono in contatto con Lui!»«Ezra! E' importante!»

Seguivo quella discussione senza poter interagire, con il corpo pietrificato, le palpebre incollate l'una all'altra, le braccia ferme lungo il corpo. Chi erano quelle voci? Era frutto della mia fantasia? Un sogno forse?

Ci furono attimi di silenzio. Poi, la voce maschile riprese a parlare, rispondendo all'altra.

«... un altro minuto.»

Poi, ritornò a parlare con me, così vicino che quasi pensai mi stesse sussurrando nell'orecchio.

Ricordati soltanto di nascondere gli occhi.

Altrimenti Lui capirà chi sei.

Chi mi aveva già detto una frase del genere? Spalancai gli occhi.

Ero ancora intontito dal sonno e turbato da ciò che avevo... Sognato? Sentito? A malapena ricordavo che cosa aveva detto quella voce familiare. L'avevo già udita, ma mentre la veglia si sostituiva al sonno, lentamente la dimenticavo, come se si trattasse di un incantesimo spezzato.

Sbadigliai, sfarfallando le lunghe ciglia per abituarmi al cambio di luce. Mi schermai gli occhi con una mano, nascondendoli alle prime luci dell'alba che penetravano dalle tende socchiuse.

Il cielo era chiaro e timidi raggi solari s'insinuavano dentro alla stanza, gettando luci d'oro sui capelli rossi dello splendido maschio al mio fianco. I suoi capelli scarlatti scintillavano come rubini.

Mi appoggiai su un gomito, abbandonando la guancia sul palmo della mano mentre restavo a scrutarlo, segretamente in adorazione. La curva delle labbra piene, la linea netta della mascella. Le sopracciglia intense che ripiegavano sugli occhi chiusi.

Le coperte gli si avvinghiavano intorno alle gambe e al bacino, nascondendo parti di lui che conoscevo fin troppo bene, mentre il torace scoperto mostrava muscoli gonfi guadagnati con allenamenti estenuanti. Pelle alabastrina, qualche efelide e piccole cicatrici che erano una fedele testimonianza delle sue vittorie e delle sue sconfitte. Ogni volta che un lavoro andava male o bene.

Anche quelle erano colpa di Alaister.

E quell'uomo splendido, dolce e speciale si meritava una vita lontano da lui. Si meritava un futuro scevro dagli inganni, libero dal sangue. Un futuro dove io potevo regalargli un amore che nemmeno sapevo di poter provare. Invece, lui me lo aveva insegnato. Erano tante le cose che mi stava insegnando con la sua presenza.

Mi concessi di ridere sommessamente, uno tintinnio argentino mentre l'intera città lentamente si svegliava con me.

Yul poteva insegnarmi a vivere una vita dove non ero Sfavillo. Una vita che ci avrebbe consentito di smettere di uccidere e semplicemente goderci ciò che il mondo ci dava, senza dover per forza estirpare qualcosa per guadagnarcelo. Una vita normale.

Immersi le dita fra i capelli rossi dell'uomo che amavo e soffocai l'impulso di ricoprirgli giocosamente il viso di baci. Non volevo svegliarlo. Eppure, quando feci scivolare i polpastrelli sulla sua guancia, premendo il pollice nel punto in cui le sue fossette apparivano quando sorrideva, lui aprì lentamente le palpebre.

Nella luce dorata, gli occhi blu avevano una sfumatura oltremare; sembravano zaffiri. Mi sorrise affettuosamente, ancora assonnato e quell'espressione spontanea e devota mi fece perdere qualche battito.

Fu come ricevere un fulmine in pieno petto. La forza di una realizzazione.

«Voglio accettare quella missione.» mormorai, incastrandomi nella curva calda del suo petto, il viso sul suo bicipite. Le sue braccia mi avvilupparono come un intrico di rampicanti, esattamente come i fiori che aveva lasciato crescere sulle pareti di casa il giorno del mio compleanno.

Con le labbra mi sfiorò il lobo dell'orecchio, provocandomi un brivido, ma io mi svincolai cercando di restare serio. «Pediniamo la guardia a capo della spedizione. Più informazioni abbiamo sulla spedizione e maggiori sono le possibilità di riuscire in questa folle impresa.» Ma forse, se ci speravo davvero, con Yul al fianco ce l'avrei fatta. «Niente uccisioni, non voglio attirare l'attenzione.»

Se credevamo davvero in quel sogno, allora ci bastava sconfiggere tutti quanti.

Il rosso non disse niente, si limitò a bofonchiare qualcosa su di me, "il mio sedere a forma di pesca" e una crostata alla crema. Gli tirai un pizzico e sussultò appena, ma senza dare segni di volersi svegliare.

Sospirai, strofinando una guancia contro al suo corpo in un vezzo di esasperato affetto, mentre riflettevo. Prima di partire per Ender ci servivano ancora un po' di giorni per comprendere il loro sistema di sicurezza, le loro difese, il numero di guardie impiegate e come aggirare tutti questi ostacoli.

«Andiamo a liberare quegli schiavi, Yul.» fu l'ultima cosa che dissi, prima di tornare a dormire insieme a lui, rasserenato all'idea che, insieme, avremmo potuto anche piegare il mondo. 

***

Incredibilmente, non ci era voluto molto per ottenere un tavolo allo Swan's Nest, e non uno qualsiasi, bensì quello che avevo accuratamente scelto in base alla posizione della saletta privata del nostro obiettivo. O almeno, colui che ne era la base e la colonna portante.

La guardia reale di alto rango, colui che capeggiava molte truppe fra i soldati in città e che era arrivato ad estendere il suo potere su Ender, si chiamava Ciril Crow. Per la posizione favorevole che possedeva a Skys Hollow aveva occhi e orecchie annidate in ogni anfratto della capitale: aristocratici, guardie, cortigiane, avrei sospettato perfino qualche monello di strada.

Visto che la maggior parte degli uomini d'alto rango che lavoravano sotto il Re di Darlan abitavano nel suo Castello ed erano parte integrante della sua corte di corrotti e prepotenti, l'unico modo che avevamo per tallonarlo e capire che genere di persona fosse era frequentare gli stessi locali dove sapevo sarebbe stato, almeno una volta nella settimana.

Per qualsiasi persona, mangiare nel ristorante di lusso dove ci trovavamo io e Yul adesso, sarebbe stato impossibile senza una prenotazione effettuata almeno due mesi prima. Tuttavia, a quanto pareva il proprietario conosceva il Marchese Ellis - una delle false identità di Alaister Noir - e visto che io ero noto fra gli ambienti bene di Skys Hollow come suo nipote, subito aveva trovato modo di liberarmi un tavolo.

Lo Swan's Nest era un posto squisito come il cibo che serviva: la sala risplendeva e le luci si proiettavano sulle delicate vetrate istoriate in stile liberty che circondavano i tavoli. Girasoli dipinti su sfondi celeste pastello, ninfe circondate da fiori, colonnine d'oro e un'imponente cupola di vetro opacizzato dietro cui s'intravedevano tralicci di rampicanti e il sole del mezzogiorno.

Il nostro tavolo, situato in un angolo, mi permetteva di sbirciare da una delle vetrate il raffinato privè di Crow, dove lui beveva vino e malapena consumava la portata che aveva nel piatto, la stessa per cui un centinaio di persone avevano prenotato e che lui probabilmente snobbava ogni giorno. Anche per quello era un disgraziato!

La saletta era riempita di guardie del corpo, mentre lui pranzava con una fanciulla scollacciata che avevo l'impressione di aver già visto fra le protette di Sophia.

Lasciai cadere, sfilandolo sotto il tovagliolo di seta ecrù che avevo sistemato sulle ginocchia, un anellino da mignolo verso il pavimento. Fingendo di chinarmi sotto al tavolo per cercarlo, ne approfittai per infilare l'occhio nel sottile interstizio che divideva due lastre di vetro istoriato e affacciava sul privè. In quel modo potevo guardare meglio la scena e studiare Crow, la sua espressione arrogante ed impettita, le labbra arricciate in un ghigno crudele.

Yul capì ciò che stavo facendo e mi diede manforte nella recita, spostando lo stivale proprio sopra l'anello così da nasconderlo, per poi dire con un leggero cruccio: «Oh no, l'anello del marchese! Dov'è finito?»

Mugugnai un verso dispiaciuto, mentre in realtà spiavo la guardia di Ender. Avevo ovviamente sentito tanto chiacchierare di Ciril Crow.

Un uomo che aveva superato i trenta solo da qualche anno, ben piazzato, dai capelli scuri sempre impomatati e il completo cucito su misura. Affascinante pur avendo un inquietante sorriso da iena. Era stato abbandonato nei sobborghi della capitale da appena nato e si era guadagnato da vivere facendo la spia per il Re sul conto di certi criminali locali. Poi aveva cominciato a lavorare come soldato e con gli anni si era fatto strada nei ranghi dell'efferata società di guardie reali, lasciandosi dietro una scia di cadaveri che gli avevano fatto guadagnare una carica piuttosto prestigiosa.

Troppe volte avevo udito il suo nome: dove c'erano schiavi, c'era anche lui. La prima volta era stata durante il mio processo e la mia condanna per Treblin. Ovviamente, un individuo di tale importanza era a capo di Ender, il campo di lavoro più spietato e spaventoso, ma aveva anche i suoi agganci nel resto dei campi sparsi per Darlan.

Anche mentre effettuava un gesto semplice come tagliare il suo pregiato filetto di manzo, potevo notare la potenza e la violenza che il suo corpo emanava. La forza con cui avrebbe potuto strangolarti. Accompagnò la forchetta dorata alle labbra e masticò molto lentamente: mentre fissava la cortigiana come se fosse anch'essa il pezzo di carne sotto ai suoi denti, mi vennero i brividi.

Quanta gente aveva schiavizzato? Quanta aveva frustato? Quanta ne aveva uccisa?

Si portò il bicchiere sotto al naso e con un movimento fluido lasciò il vino ad arieggiare. Poi i suoi occhi si spostarono. La mia mano tastò confusamente il pavimento in parquet e la punta dello stivale di Yul, in preda al panico. Ero convinto che non potesse vedermi attraverso il vetro colorato, perché dall'altro lato doveva essere opaco... Invece mi vedeva. Mi vedeva e sorrideva, come sorridono i serpenti davanti ai topi.

«Oh, Cain! L'ho trovato!» esclamai esultante, alzando l'anello di fronte alla mia faccia, prima di ritornare composto sulla sedia imbottita in pelle rossa. Feci finta di nulla, rivolgendo un sorriso allegro al rosso seduto di fronte a me, come una coppia di giovani aristocratici che era venuta lì per chiacchierare e consumare cibo delizioso.

In realtà, mi stavo asciugando i palmi sudati sui pantaloni, inquietato da quel sorriso impregnato di disumanità. Ed era questa la ragione per cui il nostro cliente aveva offerto una fortuna: vedere gli schiavi, la propria gente, lontana da un simile individuo.

Mi infilai l'anello al dito e presi fra le mani il menu, sfogliandolo con la reale intenzione di ordinare: sarebbe stato sospetto fermarsi lì per poco tempo prendendo solo un paio di caffè. Pertanto, c'eravamo accordati nel prendere le portate più economiche che la carta offriva: l'unica cosa su cui non ero disposto a lesinare era il dolce.

Visto che avremmo presto abbandonato Skys Hollow, quella era l'ultima volta che avevo la possibilità di mangiare la famosa sette veli al cioccolato e pistacchio dello Swan's Nest.

Mentre spiluccavamo un piatto di filetto di rombo in salsa agrodolce ai lamponi, Yul nemmeno per un secondo guardò nella direzione del vetro dietro cui c'era la saletta privata di Crow. Eppure, era evidente si riferisse a lui quando disse: «Va eliminato.»

La mia anima assetata di sangue, ciò che c'era di più oscuro dietro alla maschera luccicante di Sfavillo, bramava intensamente la morte di Crow. Volevo spaccargli la faccia tanto sicura che ostentava. Volevo fargliela pagare per tutto quello che avevo dovuto passare a Treblin, per tutto quello che gli schiavi passavano ogni giorno. Ma non potevamo. Se lo avessimo eliminato prima della missione, il controllo sul carico di schiavi si sarebbe fatto ancora più serrato.

Scossi la testa. «Sai che è una pessima idea farlo ora.» gli ricordai, consapevole di tutte le guardie che lo attorniavano, dentro ma anche fuori dal ristorante, le avevo viste appostate nei vicoli circostanti. «Ma potremmo quando saremo davanti ai cancelli.» Di Ender.

Era meglio parlare in codice, benché Crow fosse troppo lontano per sentire e il ristorante era pieno della confusione di tutti i locali: tintinnio di bicchieri, lo stridore delle posate contro la porcellana, l'intricata mescolanza di voci e chiacchiere.

Yul si tamponò le labbra col tovagliolo, sollevando gli splendidi occhi color zaffiro verso le volte a vetri, pensieroso. «Mi ci vorrà qualche giorno per effettuare una strategia.»

«Ti ci vorrà?» Al singolare?

«Pensavo di lasciare a te l'onore di liberare il carico.» Gli schiavi. Poi abbassò la voce, fioca abbastanza perché potessi sentirlo solo io. «Io mi occuperò di ammazzare le guardie. Soprattutto Crow.»

Sentii il boccone fra lingua e palato farsi amaro. «Perché non insieme?»

Il sorriso di Yul si spense. «Non voglio che ti cacci nei guai... E che quell'essere ti metta le mani addosso.»

«Nei guai?! E' il mio lavoro, il nostro lavoro. Ora saremmo anche una coppia, ma sono ancora quello di sempre, non un pivellino!» Mi accigliai.

Il bel ragazzo dall'altro lato del tavolo sospirò. Aprì la bocca per rispondere ma restò in silenzio, aspettando che il cameriere che ci stava togliendo il piatto vuoto dal tavolo si allontanasse. «Lo sai che non la penso affatto così! Desidero soltanto che la persona che amo stia al sicuro, lontano da quel mostro.»

Rimasi imbronciato, ancora poco convinto, invece lui proseguì: «So che non sei un pivellino. Conosco ormai tutte le tue imprese e tutti i pericoli alla quale sei scampato. Ma l'ho trovato io questo incarico, perciò faremo a modo mio.» sentenziò, il tono perentorio e determinato. Poi abbassò la voce, flebile ma non per questo meno convincente: «Crow è un sadico ed Ender è pericolosa. Se dovesse succedere il peggio, se andasse tutto a rotoli... Non potrei mai permettere che tu finisca fra le sue mani.»

Mandai giù il groppo in gola con un bel sorso d'acqua. «Però sarebbe tutto più sicuro se lavorassimo insieme. In fondo, l'unione fa la forza. No?» giocherellai ansiosamente con lo stelo di cristallo del calice. Non mi sentivo tanto tranquillo ad affidare sulle sue sole spalle un simile compito.

«Helias.» sussurrò, con calma fermezza. «Mi assumo la totale responsabilità di questa missione. Non c'è bisogno che tu mi assista. Sono perfettamente capace.» Inarcò un sopracciglio: temeva che non lo ritenessi abbastanza bravo? Nonostante mi pavoneggiassi sempre delle mie capacità, sapevo che era dannatamente abile e l'ultima cosa che volevo era che gli passasse l'impressione sbagliata.

Perciò, decisi di fare un passo indietro sulla questione. «Se è quello che desideri...» Strinsi le labbra: non m'importava fare da spalla in questo incarico. Per questa volta. Chissà se sarei stato capace, un giorno, di rinunciare del tutto ad essere Sfavillo. La popolarità e il prestigio che quel nome mi regalava... Era una reputazione che mi ero costruito tutto da solo, con ogni pugno, coltellata e sangue sputato.

«Andata. Tu libererai gli schiavi, io giocherò con Crow e i suoi amici.»

«Oh, mi sembra una completa idiozia.» mugugnai, appoggiando il gomito sul tavolo per reggermi la radice del naso fra le dita.

Il rosso emise uno sbuffo spazientito. Sapevo che ormai era inutile cercare di lottare su quella decisione, non volevo nemmeno farlo: leggevo una punta di rancore, dentro quelle notti sconfinate che potevo ammirare nelle sue iridi. Uno sguardo che non vedevo da prima del ballo dell'Orchidea, quando ancora eravamo dichiaratamente e reciprocamente rivali. Ma non lo eravamo più, ormai, perché metterci l'uno contro l'altro era il volere di Alaister sin dall'inizio: non volevo che Yul continuasse a credere che volessi sovrastarlo o che mi ritenessi migliore di lui.

Alzai le mani in segno di resa. «Va bene, ho detto che mi va bene, visto che ci tieni tanto.» borbottai, allungando la mano sul tavolo per rifilargli un leggero colpetto dell'indice contro le sue dita, in una carezza appena accennata. Finalmente sorrise. «Però sugli schiavi deciderò tutto io, sia chiaro!» sottolineai.

Poco dopo arrivò la fetta della tanto bramata sette veli, luccicante nella sua golosa glassa a specchio al cioccolato fondente. Per il dolce, ci concedemmo di dimenticare l'incarico: l'unico motivo che ci restò per litigare fu a chi spettava la metà di torta più grossa.

***


Feci scorrere le dita sui tasti del pianoforte, l'avorio bianco e liscio che risuonava deliziosamente sotto al mio tocco, esattamente come faceva il corpo di Yul quando io lo sfioravo. La musica era come fare l'amore: una comunione intensissima di sensi, anima e cuore.

Forse non avevo più la sala ricolma di strumenti raffinati di cui godevo nella Fortezza dell'Assassino, forse non possedevo più un piano tutto mio. Eppure, vicino al magazzino che ospitava il mio appartamento, avevo trovato un grazioso pub di nicchia che prendeva lo stesso nome del fiume della capitale.

Il Tibor: un locale a tinte fosche dove servivano alcol scadente, pur in una location graziosa. Non era destinato agli aristocratici, nemmeno alla feccia della società, però. Lo avevo scoperto verso la fine di agosto e avevo pagato un paio di monete in più per consentire all'oste di lasciarmi suonare.

Quando si era accorto del mio talento e aveva notato come i clienti apprezzassero la musica d'atmosfera che diffondevo nel pub, piuttosto che rischiare che gli chiedessi una parcella in cambio, aveva preso l'iniziativa e mi aveva proposto di venire lì ogni volta che volevo per suonare.

"Tanto è un vecchio piano e non se ne fa niente nessuno", aveva detto. Era uno di quei pianoforti a muro, di legno antico, dall'aria vecchia e tarlata: il proprietario però lo teneva ancora accordato e così la musica fioriva dalle mie dita che era un piacere.

Mentre Yul era occupato a pianificare l'assassinio di Crow, io scelsi di restare fino al calare della sera. Era il mio modo per dire addio alla città, prendendomi il tempo che mi serviva. Sapevo che mi sarebbe mancata, a volte tanto da togliere il fiato. Ero nato e cresciuto qui. Avevo vissuto i miei momenti peggiori e anche quelli migliori. Era così triste pensare che presto sarebbe tutto finito: le sartorie che conoscevano ogni mio gusto, il teatro reale, i caffè letterari, i ristoranti tipici. Ma anche il mercato variopinto la domenica, il tramonto sul fiume o locali alla mano e pieni di vitalità proprio come quello dove mi stavo esibendo adesso.

Non importava, mi dissi, quando ormai avevo lasciato il locale, salendo le gradinate di casa mia. Giunsi sino alla porta di legno dipinta, estraendo il mazzo di chiavi dalla tasca interna del mantello, che tintinnarono leggermente.

Non importava perché sarei stato libero. Lontano da Alaister, dai brutti ricordi, da quell'insana vendetta che pulsava dentro di me. Lontano dalla paura del Re e i suoi sgherri.

Non importava perché sarei stato libero insieme a Yul. E potevamo costruirci un'infinità caleidoscopica di bellissimi futuri, insieme.

Con un sorriso colmo di ottimismo aprii la porta, mi tolsi gli stivali e superai il corridoio dell'ingresso. Solo per restare bloccato dinnanzi al soggiorno. Alaister Noir mi osservava, comodo su una delle poltrone.

«Bentornato, mio caro.» cominciò, sorridendo complice.

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