Ultima volta
Alzai il viso verso il cielo, scrutando il lento danzare della neve, che cadeva in grossi e pesanti fiocchi bianchi. Chiusi gli occhi, lasciai che mi cadesse sul viso, che si sciogliesse sulla pelle e che mi donasse una sensazione fredda e pungente sulle guance.
- Lyle, che cavolo fai? - sbottò una voce alle mie spalle, con quel tipico tono fra lo scocciato e l'aggressivo che era solito rivolgermi. Mi voltai per fissare la faccia lurida di un bambino, nascosta sotto la coltre di fuliggine e di sporco.
- Mi godo il Natale. - risposi, con il naso per aria e le punte dei piedi nudi protese verso l'alto.
- Vieni qua piuttosto, idiota. - mi rimproverò, facendomi cenno con la mano di raggiungerlo sotto ad un porticato. Durante l'inverno, con gli stracci che indossavamo, era difficile non morire per il freddo. Ma, nonostante quello, la vita che conducevamo era fin troppo futile per continuare a proteggerla. L'unica cosa da fare era viverla al meglio, viverla senza troppa prudenza. Che mi importava di morire di freddo, quando magari fra qualche giorno sarei morto per la fame? Quelli erano i soliti quesiti che mi ponevo. Non solo io, anche il resto della banda.
Per fortuna, rubare era un'attività che ci prendeva a tempo pieno. Le guardie di certo non facevano troppa attenzione ad un gruppetto di sudici bambini che giocava a nascondino fra le piazze più in vista di Skys Hollow. E noi ne approfittavamo, a volte infilando le nostre piccole manine sporche nelle tasche dei nobili e, raramente, altre volte, facendoli impietosire per avere un po' di elemosina. Un po' troppo raramente, però.
Comunque, quella era una sera come tante. Che fosse il giorno di Natale, era assolutamente irrilevante, per noi. Si diceva che la gente diventasse più buona: una bugia bella e buona. C'erano sempre le stesse facce a guardarti male, sempre gli stessi occhi colmi di disgusto. Ma noi, che eravamo nati e cresciuti sotto quegli sguardi, non ci facevamo certo condizionare. Ecco, magari l'unica cosa buona del Natale era che la gente era troppo impegnata a fare regali per accorgersi di noi. Rubare diventava un pelo più semplice. Giusto un pelo.
Di certo il Natale per noi non possedeva quell'importanza che aveva per gli altri bambini. Per noi non c'erano regali, non c'erano genitori gentili, o cene spettacolari. Per noi c'eravamo... noi stessi. Quel gruppetto di ladruncoli nati nella strada, sporchi e affamati. Potevamo considerarci una famiglia. Non una famiglia molto comune e neanche legata a vincoli o sentimenti di grande affetto: c'era ostilità, a volte si combatteva per ottenere l'unico pezzo di pane da dividere in una decina di bambini. Ma, tutto sommato, agivamo come un gruppo e non ci lamentavamo mai. Era la vita.
Mi avvicinai al porticato e ne trovai riparo, accovacciandomi accanto ad un ragazzino più grande di me di alcuni anni. Mi diede uno scappellotto in testa, svogliatamente.
- Cos'è, vuoi morire? - borbottò, incrociando le braccia e fissando il fondo della strada. Alzai le spalle.
- Come se te ne fregasse qualcosa, vecchio cagnaccio. - risposi, seguendo con gli occhi il precipitare incessante della neve. Di sicuro le strade di Skys Hollow sarebbero state invase dalla neve il mattino successivo.
- Effettivamente, hai ragione. - ammise con tono piatto, mentre si mangiucchiava le unghie.
- Trovato qualcosa di interessante? - chiesi, ricordandomi della sua incursione nell'immondizia qualche ora prima.
- Macché. -
Così passavamo la notte di Natale, noi. Un giorno come gli altri, pensavo. Finché non lo vidi.
Se ne stava a ridosso di un negozio di lusso, uno di scarpe. Si riparava a malapena dalla neve, che gli stava piano piano coprendo gli stivali di ottima fattura. Non poteva essere vero, anzi, aveva qualcosa di surreale. Aveva i capelli dorati come il sole che si riflette nell'oro, e occhi di un color ghiaccio purissimo, ben lontano dalla neve ghiacciata e sozza al ridosso della strada. Indossava vestiti pregiati, simili a quelli di un nobile ma non troppo per essere considerato tale. E il suo viso... I lineamenti dolci, la bocca rosea, e quella sfumatura di un viola simile ai fiordalisi che ogni tanto si scorgeva nei suoi occhi. Era bellissimo. Pareva un angelo nel dipinto di un grande pittore. Tuttavia, i suoi perfetti ed eterei lineamenti erano distorti dal pianto, e le lacrime gli rigavano costantemente le guance.
Che cosa ci faceva un bambino di notte, in mezzo alla neve, seduto da solo a piangere? Mi strofinai gli occhi, credendo di essermi addormentato e di star sognando.
- Lo vedi anche tu? - sussurrai al mio compagno di malefatte, che stava al mio fianco.
- Sì. E allora? - Sorrisi. - Non ci pensare nemmeno. Abbiamo già abbastanza gente che ci rallenta. Non ci serve una nuova rottura di scatole. - Rimase a fissare il bambino per qualche minuto. - Sarà il figlio di qualche borghesuccio, scappato di casa perché il paparino non gli ha regalato il giocattolo giusto. - E liquidò la faccenda con un gesto della mano.
- Ah, chiudi quella fogna. - ribattei, alzandomi in piedi. Ero consapevole della stupidaggine che stavo per fare, ma qualcosa mi diceva di andare da lui.
Così mi pulii le mani sporche e bagnate sui vestiti sdruciti e lerci, cercai di lisciare gli scarmigliati capelli castani e presi un respiro. Un passo dopo l'altro, affondando nella neve, mi ritrovai davanti a lui. Da vicino era ancora più bello. Teneva la testa incassata fra le ginocchia, e le spalle erano scosse dal pianto. Non sapevo cosa gli fosse successo, ma non credevo proprio si trattasse di giocattoli. Mi umettai le labbra, cercando di non tremare per il freddo. Poi, parlai.
- Ehi – dissi, con un tono squillante che non pensavo di possedere. Lui sobbalzò, sollevando di scatto il capo verso di me. - Sei solo? - I suoi chiarissimi occhi azzurri, appena arrossati dal pianto, mi scrutarono con circospezione. Ma dopo annuì, stropicciandosi gli occhi e tirando su col naso. Non ero abituato a quelle reazioni, ai pianti, alle lacrime. Ognuno di noi, di quelli nati nella strada, aveva reagito al nostro tipo di vita con una reazione diversa. Ma nessuno aveva versato una lacrima, perché sarebbe stato inutile. Così mi ritrovai per la prima volta davanti a quelle lacrime e quei sentimenti, e non potei non provare un pizzico d'imbarazzo. - Il nostro gruppo ha bisogno di un nuovo componente. - Una bugia, una bugia grossa quanto il Castello di Cristallo del Re di Darlan. - vieni? - E gli rivolsi una mano, il palmo aperto verso di lui, ad offrirgli un posto in un gruppo di ladruncoli sporchi, nati e vissuti in una strada, ma che insieme formavano una famiglia.
Lui mi guardò a lungo, gli occhi brillanti di lacrime che splendevano alla luce della luna, ovattata dalle nuvole. Qualcosa, in fondo a quegli occhi, mi diceva che lui conosceva quella sensazione amara che noi sentivamo ogni giorno. Qualcosa, mi faceva capire che lui già faceva parte di noi. Così afferrò la mia mano.
Tuttavia, non sarei mai andato da lui, se solo avessi saputo cosa il futuro ci avrebbe riservato.
❃ ❃ ❃ ❃ ❃
Spalancai gli occhi e il sole mi punse lo sguardo con la sua luce dorata. Il sogno mi ridestò velocemente dallo stato di sonnolenza, riportandomi a vecchi sentimenti colmi di rabbia e amarezza. Scesi drasticamente dal letto, ma appena lo feci mi maledii: un dolore acuto mi partì dal fondo schiena e si propagò lungo tutto il corpo. Strinsi i denti in una smorfia d'agonia e mi sforzai di non accasciarmi a terra.
Presi un respiro e mi costrinsi a rimanere in piedi, fermo, immobile. Mi sentivo nervoso, irritato. Vecchi ricordi avevano bussato alla mia porta ed io non volevo fare altro che chiuderla a chiave. In più, il presente si mostrava ancora più funesto del passato: ero diventato proprietà assoluta del Re degli Assassini. Helias e Yul avevano lasciato la Gilda.
Nonostante mi fossi ripromesso di non crollare, mi dovetti sedere di nuovo sul letto, per prendere fiato e guardare in faccia alla realtà.
Guardai verso la finestra. Il mattino si presentava caldo e dorato, tipico per una piacevole giornata estiva. Mi risollevai, aggrappandomi alla struttura in legno di quercia del baldacchino. Dovevo uscire.
Dovevo assolutamente uscire dalla stanza di Alaister Noir, o avrei vomitato.
Così misi piede fuori dagli appartamenti del corvino, così com'ero: i capelli scompigliati, la camicia da notte che mi copriva a malapena le parti intime. Non me ne poteva importare di meno se qualcuno della Gilda mi avesse visto. Dovevo uscire da quella camera da letto e basta.
Seguendo il corridoio, mi feci strada fino all'imponente scalone di marmo che finiva nell'ingresso. Prima di iniziare a scendere però, udii un grande fragore: porte che venivano sbattute e passi veloci sul marmo, come di qualcuno dalla stazza enorme, o forse di qualcuno che sbatteva volutamente i piedi a terra per la rabbia. Mi sporsi oltre il corrimano, appoggiando i gomiti sul marmo fresco.
Poi, non appena lo vidi, un verso strozzato mi partì dalla gola e mi morì sulle labbra. Helias o, come la maggior parte dei membri della Gilda lo conoscevano, Valentine, uscì come una furia dall'ufficio di Alaister. Andò a sbattere contro tre individui e continuò imperterrito la sua camminata senza neppure scusarsi, con il mento alto. Era l'ultima persona che volevo mi vedesse in quello stato, ma era anche la prima persona che volevo vedere.
Pensavo se ne fosse andato per sempre. Pensavo che non l'avrei più rivisto.
Quella era la mia possibilità. Quella era l'ultima possibilità che avevo per dirgli tutto, per raccontargli la verità. Eppure, quando lo vidi avvicinarsi all'uscita, qualcosa dentro di me cambiò.
Io ero Lysandro, io ero il cortigiano odioso, antipatico, vanitoso, sempre pronto a ridire su qualsiasi sua mossa. Ma ero anche il ragazzo sporco, ladruncolo e intriso di fuliggine. E lui non lo sapeva. Lui non si ricordava. Non si era mai sforzato di ricordare.
La rabbia iniziò a salire dentro di me, come ogni volta, senza che io riuscissi a frenarmi. Tutto quello che facevo, tutto quello che dicevo... non era la verità. Volevo rivolgermi a lui in altri modi, volevo spiegargli, ricordargli il sentimento che ci aveva legato una volta... Ma quando lo vedevo: bello, famoso, desiderato da tutti... Lui non era diventato un cortigiano. Lui non era stato costretto a prostituirsi. Aveva avuto un destino migliore del mio, e neppure si era mai sforzato di ricordarsi chi ero.
La cosa mi faceva una rabbia, una tale rabbia, che tutto ciò che provavo, tutto ciò che ci aveva legato in passato, svaniva in un soffio, crollava come un castello di sabbia, e veniva sostituito da un sentimento peggiore dell'invidia. No, non era invidia, la mia.
Era rancore.
Una rabbia che ti cova nel profondo e ti consuma lentamente le viscere, molto lentamente. E così sprecai quell'ultima possibilità che avevo.
Sbadigliai forte, desiderando con tutto il mio cuore che mi notasse. Sempre, anche quando mi rivolgevo in quei modi antipatici e insopportabili, non volevo altro che mi notasse. E allora mi comportavo in quel modo stupido e che non mi apparteneva.
Lui si voltò e ci ritrovammo faccia a faccia, l'uno rivolto verso l'altro. Girai intorno al corrimano, facendo in modo che notasse la mia corta camicia da notte, sbattendogli in faccia quello che avevo fatto quella notte. In realtà, era stato un inferno. Ma non gliel'avrei mai detto.
- Forse lo sai già, ma ho battuto tutti i record d'offerta. - gongolai, stiracchiandomi per mettere in evidenza le gambe nude. - Grazie mille... stai pure tranquillo che i vostri soldi sono stati ben utilizzati... - E aprii le labbra in un sorriso, che somigliava più ad un ghigno. Uno di quei ghigni che mi uscivano a meraviglia, ma che io non provavo affatto.
Quando notai l'espressione dell'Assassino distorcersi dalla rabbia, mi sentii trionfante e allo stesso tempo disgustato da me stesso. Mise mano al pugnale e, con un guizzo fulmineo, me lo lanciò contro.
Andò a conficcarsi nel muro, ad un soffio dalla mia testa.
Urlai. Un urlo vero e sentito, non tanto per lo spavento del gesto, quanto per la rabbia contro me stesso. E lui, sempre a testa alta, uscì dal portone in mogano e se lo richiuse alle spalle, senza degnarmi di uno sguardo, come se io fossi un'ombra insignificante nella sua vita. Come se io non contassi niente, per lui. Ed effettivamente doveva essere proprio così.
Ero stato uno stupido. Ancora una volta, come ogni volta, avevo sprecato l'occasione e mi ero lasciato ottenebrare la mente dalla rabbia. Così mi lasciai cadere a terra sul pavimento di marmo. Poi, fissando il portone chiuso e immobile, sbattei un pugno contro il muro, tanto forte da farmi male, riversando tutto il mio furore in quel dolore. Stupido.
Avevo sprecato l'occasione, ma dentro di me conservavo ancora la speranza di poterlo rincontrare. Una speranza vana, perché non sapevo ancora che quella sarebbe stata l'ultima volta che lo avrei visto, l'ultima volta in tutta la mia vita.
❃ ❃ ❃ ❃ ❃ ❃ ❃
L'angolo di un'autrice che divenne malvagia~
Ciao a tutti!
*guarda l'orario* Ah, be'... *rimane in silenzio* Ed eccoci qui al terzo capitolo! *cambia argomento* Vi ricordate di questa parte? Sì? No? Eppure l'abbiamo vissuta in un capitolo di Sfavillo (e se non sbaglio qualcuno aveva pure esultato xD) Vi era mancato Helias? A me manca tanto ç-ç
Ma comunque... non credo che lo rivedremo ancora! In compenso rivedremo altri... *ogni riferimento a tizi rossi e pervertiti è puramente casuale*
Basta, ci vediamo al prossimo capitolo! *v*
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