Capitolo Trentasettesimo - Parte Prima: Cultus Sanguinis
"But I'm not the villain
Despite what you're always preaching
They call me a traitor
I'm just collecting your victims
And they're getting stronger
I hear them calling (calling)
They're calling"
- Monster, Paramore
Noah tossì sentendo l'aria mancargli dai polmoni e in un istante Levi fu al suo fianco, la mano poggiata con forza alla sua schiena e lo sguardo pieno di agitazione. Quel tocco fece tremare l'Hagufah, uno scossone che divampò dall'interno perché, improvvisamente, si sentì l'ultima persona al mondo degna di avere l'affetto di quella creatura. Cosa diamine gli aveva fatto? Quali terribili sacrifici gli aveva chiesto? E come poteva, lui, essergli rimasto accanto, averlo aspettato e poi cercato dopo che finalmente si era liberato del proprio boia?
«Akh! Akh, tutto okay?»
No!
No, assolutamente!
Gli occhi di Noah, brucianti, si spostarono sulle labbra di Levi, sul mento dove un accenno vago di barba rendeva la sua pelle un campo a primavera. Scese lungo il collo, per un istante rimase ammaliato dal movimento del suo pomo d'adamo, poi cadde sulla catenina a cui era appeso il tallero, quello stupido e dannato tallero che aveva usato per condannare il suo migliore amico e che lui ancora portava con sé. Rimase immobile a fissarlo, riconoscendone la faccia. Testa. Se non fosse stato troppo impegnato a cercare spasmodicamente ossigeno, forse avrebbe riso davanti a tanta ironia da parte della sorte.
Una mano più delicata e minuta gli si strinse intorno al polso: «Noah?» pigolò Alexandria distraendolo. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo, ma fu sufficiente per sovrapporre al momento il ricordo della sua morte. Noah scorse nella misera fessura lasciata dai denti, dove adesso fuggiva un fiato grosso e pieno di panico, un'ombra di un rosso troppo scuro e denso, viscido. Involontariamente si ricordò il movimento tremolante delle sue labbra, quelle parole incorporee che le aveva sentito pronunciare mentre gli moriva tra le braccia, e la paura, o forse qualcosa di più simile allo schifo, lo assalì. Con un colpo di reni si scansò malamente da entrambi, alzando lo sguardo su un punto indefinito del soffitto. Deglutì e nonostante l'irrequietezza provò a tendere un sorriso. Non poteva certo dire ciò che era successo, no? Non poteva in alcun modo rievocare quel momento, soprattutto se ancora... no, semplicemente quella non era la circostanza; con l'attacco al Cultus ad attenderli rivangare qualcosa di così... come avrebbe potuto definirlo? Traumatico? Orribile? Profondo? Malvagio? Non lo sapeva, ma era certo che confessare quel flashback avrebbe portato a conseguenze tutt'altro che benefiche per le Chimere.
Annuì, forzando maggiormente i lati della bocca. Con una mano cercò la spalla di Levi, vi picchiò contro un paio di pacche e poi, tornando a guardarlo, tentò di rincuorarli: «Cough! Mer-da! Una...» si schiarì la gola, sentendo l'aria riprendere a circolargli regolarmente in corpo: «una mosca, scusate!»
La testa di Alex si piegò da un lato: «Una mosca?»
Noah non smise di annuire: «Sì, dannazione!» poi si affrettò a bagnarsi le labbra e picchiare un pugno sul petto: «Ero talmente ammaliato» tossì ancora un'ultima volta «che vi stavo guardando a bocca aperta!»
Lei rise e il suono della sua voce riecheggiò nelle orecchie dell'Hagufah in modo diverso, come una campanella lontana mentre le guance le divennero un poco più rosee. L'imbarazzo che aveva visto nella sua memoria sembrò lo stesso che la costrinse a sedersi a terra e distogliere lo sguardo da lui. «Santo cielo! Si vede che voi ragazzi d'oggi non siete più abituati a certe cose!»
Anche Levi sembrò rilassarsi. Volse verso di lei uno sguardo così dolce e affascinato che a Noah parve di poterne sentire la consistenza, come zucchero filato tra palato e lingua. L'osservò per il breve istante in cui si soffermò sulla sorella, poi deglutì, tornando al presente: «Colpa vostra, sembravate...» entrambi lo fissarono, l'attesa a schiudere loro le labbra. Anche lui rimase per qualche secondo interdetto, incapace di proseguire. «Usciti da una favola» decretò infine, sentendosi in qualche modo fuori luogo.
Alexandria arrossì maggiormente: «Che peccato che io sia troppo vecchia per desiderare di essere una principessa Disney!» e mentre lei si rimetteva in piedi, Nakhaš soffocò una risata. Noah la osservò mettere a posto le cose che avevano spostato poco prima e per un momento si chiese se magari, se non l'avesse offesa, quella notte si sarebbe potuta salvare. Se Levi l'avrebbe cercata ancora nei giorni a seguire, se le avrebbe confessato i suoi sentimenti. Si domandò come sarebbe stata la vita di tutte le sue Chimere se il suo egoismo e quella brama inspiegabile di piegare la morte al proprio volere non avessero avuto la meglio.
Di fronte a lui, Nakhaš gli porse una mano: «Direi che è ora di preparare la cena, che ne pensi? Per domani dobbiamo farci trovare in forze.» Non che la fame fosse tornata; a dire il vero dopo il flashback pareva essere sparita del tutto, eppure l'Hagufah non volle destare nell'amico alcun sospetto, così lo seguì verso la cucina. Parlarono di sciocchezze tra un ingrediente e l'altro, fecero qualche battuta per distendere i nervi ancora tesi, ma nessuno dei due volle approfondire ciò che era accaduto in salotto. Le mani pesanti di un fantasma sembrarono posarsi sulle spalle di entrambi, schiacciarli, metterli in una sorta di soggezione che non volevano condividere con l'altro per un timore sconosciuto. Noah percepiva se stesso e Levi, sapeva che in qualche modo non era stato il solo a rivivere quella sera di molti anni prima.
Al ritorno di Zenas, visibilmente provato, cenarono frugalmente. Alexandria tirò nuovamente fuori quella che l'Hagufah decretò essere la sua scorta privata di even e ne servì una manciata a ogni fratello. Non li aveva mai visti prenderne tante e tutte insieme, ma comprese fin troppo facilmente la ragione di quelle dosi. Si stavano preparando come atleti ai ferri corti, un doping di Ars che speravano potesse aiutarli.
Quando arrivò il momento della buonanotte, Noah rimase sulla soglia della cucina per qualche minuto di troppo. Con il cuore in gola osservò le Chimere, le studiò nei minimi dettagli. Vide una portar fuori tutto il cibo che avevano nel frigo, forse seppellirlo in qualche angolo del giardino per evitare che andasse a male. Ne scorse un'altra riporre con cura tutti gli oggetti e l'ultima chiudere imposte e tapparelle con attenzione. Si stavano preparando ad abbandonare quella casa sia in caso di vittoria, sia di sconfitta. Una volta compreso il significato delle loro azioni l'Hagufah si diresse a passi pesanti in quella che era sempre stata la sua stanza. Ombre confuse e voci lontane lo seguirono, perseguitandolo fin quando non si lasciò cadere sul letto, gli occhi fermi tra le travi del soffitto. Non aveva idea di come interpretare la miriade di sensazioni che lo stava assalendo. La paura gli balzava sullo stomaco come un folletto, mentre l'eccitazione gli pizzicava gli avambracci. Sentì l'ansia passare le proprie falangi tra i capelli scompigliati, arrotolandosi le ciocche tra le dita per formare anelli dorati, poi la determinazione massaggiargli i piedi e le gambe per essere certa che non potessero cedere una volta raggiunto il covo dei nemici e, in tutto ciò, la testa gli girava vorticosamente. Chissà se anche nelle vite precedenti, prima di una grande battaglia, si era sentito così.
Chiuse gli occhi e provò a inspirare dalle narici ed espirare dalle labbra. Contò ogni soffio che gli uscì di bocca al pari di un mantra anche se, in tutta onestà, dubitava sarebbe riuscito a riposare. Come per la cena, il sonno sarebbe stato utile al corpo per affrontare la sfida dell'indomani e, anche se nolente, doveva ammettere di averne un infinito bisogno - peccato che più si ripetesse quelle parole, meno Morfeo pareva intenzionato ad accoglierlo tra le proprie braccia. Non importava quanti respiri facesse e quanto stanca fosse la sua mente, le palpebre non volevano restar chiuse.
Con la punta delle dita prese ad accarezzarsi il ventre giocherellando con la peluria spessa appena sotto l'ombelico e, demoralizzato, tornò a fissare il soffitto.
Di quel passo non sarebbe stato utile a nessuno, soprattutto alle Chimere. Era stato il loro fardello in passato, negando loro la libertà e costringendole a sottostare al suo volere, e lo sarebbe stato ancora nel presente per colpa, ma in qualche modo anche grazie, alla sua amnesia, pensò. Non essere più l'uomo di un tempo equivaleva a una possibile condanna a morte, ma anche alla possibilità di fuggire dai capricci di una persona che sperò di non tornare a essere mai più. E se ciò significava perdere per sempre la memoria di ciò che aveva fatto ed era stato non si sarebbe tirato indietro. Aveva bramato quella conoscenza con tutto se stesso, eppure ora che aveva scoperto anche solo una misera parte del male che aveva fatto alle persone che con ipocrisia aveva chiamato famiglia si pentì di quella foga. Preferiva andare alla gogna come un condannato che nei panni del boia.
Noah premette le palpebre superiori contro le inferiori, si immaginò le ciglia intrecciarsi per diventare una maglia stretta e impossibile da sciogliere. Il respiro si fece più profondo e lento, l'andamento delle dita sulla pelle una nenia carnale. Forse era vero quello che Alex aveva insinuato all'inizio della loro avventura: lui non era il loro Signore. Non era la persona che avevano perso, non lo sarebbe più stato. Avrebbero potuto ricominciare, liberi da ogni catena, da qualsiasi crudeltà che li aveva tenuti legati. Sì... avrebbe fatto di tutto perché fosse così.
***
Noah aveva accolto il sonno come un bimbo che si infila nel letto dei genitori. Lo aveva aspettato per un tempo che aveva smesso presto di calcolare, ma quando aveva udito la porta della stanchezza cigolare gli aveva scostato le coperte. L'incoscienza era avanzata con pacatezza, gli si era raggomitolata accanto stringendo le proprie braccia intorno al suo busto finché non lo aveva avvolto tutto e, a quel punto, i sogni erano sopraggiunti nella testa dell'Hagufah come ricordi. Forse, delle innumerevoli immagini che aveva visto, qualcuna era appartenuta a una delle sue vite passate, o forse erano state tutte frutto della suggestione. Più volte la minaccia di un incubo si era palesata, ma il turbinio di eventi che stavano avendo luogo nella sua testa gli aveva impedito di svegliarsi fino a tarda mattina, quando qualcuno aveva avuto la premura di bussare alla sua porta.
Si era svegliato dapprima confuso, credendo di essersi immaginato il suono di nocche sul legno, poi i suoi occhi erano caduti sullo schermo inattivo del proprio telefono. Per abitudine, anche se a scrivergli ormai erano giusto i suoi genitori, aveva sfiorato lo schermo per scorgere le notifiche in attesa, ma a farlo sussultare erano invece state le cifre 10 e 46 che riempivano metà display.
«Cazzo!» aveva imprecato con la voce roca e il cuore a mille. Le Chimere dovevano già essersene andate, dovevano averlo lasciato lì cogliendo l'occasione! In un attimo si era alzato, i pantaloncini del pigiama a sfiorargli le ginocchia come una carezza. Barcollando si era fiondato alla finestra per capire se fosse davvero stato abbandonato lì, ma prima che le sue dita potessero spalancare i battenti la voce di Alexandria lo bloccò: «Allora sei sveglio!» da sopra la spalla Noah osservò la figura di lei avanzare titubante nella camera «Ci stavamo chiedendo se avessi bisogno del bacio di un principe per alzarti.» La vide tendere un sorriso e affrontare con poco sforzo la stanchezza - a differenza sua, Z'év doveva aver dormito un gran poco. Era pallida e aloni viola sembravano volerle infossare gli occhi.
«I- pensavo ve ne foste andati...»
Lo sguardo di lei cadde sulla tazza fumante che teneva tra le mani.
«Ancora non hai capito che per noi giurare è una questione seria, eh?»
Il braccio di Noah tornò al proprio posto lungo il fianco e i piedi, insieme al busto, si girarono per impedirgli di dare le spalle all'interlocutrice. Nell'aria, oltre al profumo di tè alla melissa e vaniglia, si poteva sentire il peso di quel giorno; fu come svegliarsi con la consapevolezza di dover attendere un funerale.
«Con in gioco la mia vita pensavo che foste capaci di qualsiasi cosa.»
Alexandria fece una smorfia di assenso: «Ci abbiamo pensato, non posso negartelo.» e con fatica prese un sorso dalla tazza. «Ascolta, Noah...»
«Non cambio idea, Alex. Io verrò-»
La Chimera sussultò, rischiando quasi di rovesciarsi il tè addosso: «Frena! Frena!» aveva occhi grandi di confusione che fecero sentire Noah in imbarazzo. «Non sono qui per questo!»
«Scusami, io...» forse era l'agitazione, forse il fatto che non avesse idea di cosa aspettarsi da quel momento in avanti - fortunatamente, il sorriso che Z'év tese parve confortarlo. Le doveva star costando fatica, eppure ai suoi occhi apparve così genuino, dolce. In pochi passi lei gli fu vicino, le sue dita gli scivolarono lungo il polso afferrandogli la mano e un senso di calma lo avvolse completamente.
«Stavo per dirti che prima di partire, mentre aspettiamo l'arrivo dell'auto nuova e delle armi chieste da Levi, sarebbe opportuno che chiamassi i tuoi. Racconta qualche cavolata, poi dì loro che oggi vai a fare un'escursione con i tuoi amici, okay?»
«Non capisco...»
D'improvviso Alexandria s'irrigidì, il suo sguardo calò verso le loro mani unite. Le parole le gravavano addosso come macigni, ma nonostante il peso riuscì a levarsele di dosso molto più facilmente del previsto: «Se non dovessimo tornare... se le cose dovessero andare per il peggio, dico, i tuoi non vivrebbero con il dubbio di una sparizione ingiustificata. O quantomeno non del tutto.» Per un momento il silenzio che calò tra di loro sembrò una presenza scomoda, un ospite indesiderato, ma Noah comprese comunque il senso di quella richiesta, la sua importanza viste le circostanze.
«Perfetto.» Senza che le dicesse nulla, Z'év capì il suo silenzio e i pensieri che fiacchi gli stavano riempiendo la testa. «Quando hai fatto vieni giù. Zenas sta preparando un brunch con i fiocchi.» La Chimera fece per andarsene, si volse e mosse i primi passi verso la porta da cui era entrata. Stava per abbandonarlo nello stesso modo in cui era arrivata, silenziosa e titubante, ma alla terza falcata si ritrovò bloccata. Lo sguardo di Noah scivolò dalla crocchia cinerea di Alexandria lungo il suo collo mentre lei tornava a guardarlo, poi giù lungo la spalla e il braccio fino alla propria mano che d'improvviso si rese conto trattenere quella della ragazza, un po' come la sera prima, quando avevano provato a ballare insieme. La fissò come se vi fosse scritto qualcosa sopra, come se ogni segno della pelle fosse in realtà una frase. Nel passare da una ruga all'altra gli parve di leggere un breve resoconto dei sogni che aveva fatto quella notte e, senza nemmeno rendersene conto, le chiese: «Non è stato un incidente, vero?»
Z'èv corrugò le sopracciglia: «A cosa ti riferisci?»
«Alla morte di Salomone. Al giorno in cui sono sparito.» Non sapeva perché glielo stesse chiedendo, non era nemmeno certo di quando gli fosse sorto quel dubbio, eppure lo fece e la reazione di lei parve essere una risposta più che sufficiente. Alexandria fu scossa da un brivido, il pallore sul suo viso divenne ancor più evidente e il suo sguardo s'incupì. Noah poté sentire il battito del cuore di lei perdere un colpo, il respiro mozzarsi e un groppo bloccarsi in mezzo alla sua gola.
«Cosa te lo fa credere?»
La osservò: «Tu.» e il corpo di Z'èv si rilassò tutto d'un colpo, le labbra le si tesero in un sorriso senza denti. Sospirò.
«No, infatti.» i loro occhi si incrociarono, il senso di colpa che l'aveva tormentata dal loro primo incontro nascosto tra le screziature delle iridi, l'arrendevolezza in tutto il resto. Noah rimase stupito da quanto Alex si stesse facendo trovare indifesa a lui, a ciò che di più oscuro doveva aver tenuto nascosto - così ricambiò il sorriso.
«Voglio che me ne parli» fece una piccola pausa, un nodo alla bocca dello stomaco: «domani, okay?» gli angoli della bocca sempre più alti.
«Akh...» Noah la strattonò appena e Alexandria, colta alla sprovvista, fu subito avvolta tra le sue braccia, la tazza tenuta a distanza troppo breve per evitare che qualche goccia finisse sul pavimento. Strinse la Chimera per rassicurarla, per farle capire di non dover temere nulla - nè la verità che gli stava tacendo, nè ciò che li aspettava - ma in qualche modo anche per confortare se stesso: «Domani, Z'év.»
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