Quando l'universo smette di suonare
Le sue corde vibravano armoniose, fondendosi nella melodia di tutti i cuori che fremevano proprio come il suo, d'amore, in quella sala. Non c'era possibilità di prendere respiro, tanto roteavano veloci immersi nella danza, muovendosi fra una nota e l'altra, colmi di luce negli occhi. Era la gioia, l'incantesimo, nell'essersi ritrovati come legati in uno strumento dove uno era la parte del tutto, e senza uno, tutto avrebbe cessato di esistere.
Lui però non ci pensava, cieco di lei. Non muoveva solo una corda del suo cuore, ma tutte insieme, e chiunque avesse camminato vicino a lui, sarebbe rimasto in una religiosa contemplazione di quella musica descritta come la forza motrice dell'universo.
E l'universo suonava in armonia con loro due.
Finché.
Ballava, ballava sotto quei lampadari fiorenti, senza più vederla. E la stanza girava, girava senza pietà sotto i suoi piedi, e lui non si librava più, ma cominciava a perdere l'equilibrio che l'universo gli aveva donato. Si affannava, pesante, il petto ristretto perché mai era successa una cosa così abietta.
Lei era scomparsa; scomparendo aveva portato via tutta l'armonia per cui lui respirava. E sentiva il cuore mancare: lo tastò, sfiorando le corde a tutti ben visibili. Una musica oscena sgorgò fuori dalla sua anima, vomitevole stridore che andava eclissando la composizione degli altri. Una corda mancava, strappata via, e tutto il male nasceva da lì. Era stato privato della corda dell'amore che legava tutti i presenti, eccetto lui. Loro lo osservavano perché non capivano. Mai avrebbero potuto comprendere la tragedia del sentirsi lacerare le orecchie dalle note del dolore, che perforavano il cranio e silenziavano la danza. E loro, quindi, non avrebbero potuto sentire nulla di ciò che gli si era annidato nell'anima.
Non più armonia, ma stridori, grida, adesso lo facevano vorticare per la stanza contro il suo volere. Disperato per quella mancanza, avrebbe desiderato il silenzio del mondo piuttosto che restare lì a guardare gli altri ridere e godere della sinfonia che gli era stata sottratta.
Era cieco di lei. Era. E adesso la odiava.
Nella mente gli si accalcarono pensieri che mai l'avrebbero sfiorato: anche di questi pareva sentirne il rumore. Si bloccò, tappandosi le orecchie per non lasciare che gli strascichi delle scarpe contro il pavimento, i respiri affannati e tutti i cigolii inquinassero la sua essenza.
E fu Vuoto.
Uscì dal complesso che aveva accolto la sua vita urtando con gli altrui sorrisi, senza emettere un solo fiato. Aveva paura di sentire l'eco dentro il suo corpo, e che cosa ne sarebbe stato a quel punto? Lui per se stesso, una cacofonia lamentosa che non avrebbe più raccontato la gratitudine per la vita, ma la sofferenza di essere vivi.
E scese le scale, lasciando di sé gocce di lacrime amare.
***
Il mondo, scoprì, era un giardino.
Un giardino che lui non poteva ascoltare. Aveva riempito le orecchie con un cumulo di terra, sicuro che avrebbe sentito ben altro rispetto al bello che poteva osservare. Foglie al vento? Macigno su macigno. Le acque? Schegge. L'unico desiderio custodito era di guardare. Aveva l'impressione che solo un tramonto o dei petali potessero guarirlo, ma la sua era una corruzione interna e a quella, secondo le sue conoscenze, non c'era rimedio se non la corda.
«Maledetta questa corda!» urlò. Per la prima volta in vita sua. Balzò all'indietro, scosso dal suono interno che avvertì. Era la sua voce? Lui poteva parlare, con delle parole? E perché non lo aveva mai fatto?
Aprì la bocca, ed ebbe subito paura di rifarlo: non era naturale, pensò, toccandosi il petto. Camminò fino al lago laggiù, uno specchio d'acqua, chinandosi alla riva. Il riflesso del suo cuore lo scandalizzò e una tristezza gli appesantì le spalle. Era diventato diverso e lo sarebbe sempre stato, in quelle condizioni. Anzi, sarebbe peggiorata. E tutto perché lei s'era ripresa la corda che gli aveva donato.
Questa era la tradizione. Nascevano sulle note della vita con un cuore a sei corde, comunicavano sfiorandole e ascoltandosi a vicenda con le proprie melodie. Ma si nasceva anche con un piccolo vuoto: la corda dell'amore, perché veniva donata. «Traditrice» disse, stavolta compiacendosi della sua piccola trasgressione sonora. A lui quel piccolo vuoto era tornato, e le altre corde, osservò, ne stavano già risentendo. Ebbe l'impulso di toccarle, ma ricordò dell'orribile suono che avevano emesso. E se si fossero sgretolate, poi? Sarebbe morto? Il pensiero lo terrorizzò, scacciò il suo riflesso, mentre la nuova calca di pensieri cozzava dietro la fronte.
Nulla avrebbe perso, allora, a ripulirsi i timpani dalla terra per ascoltare il mondo. Si stava trattenendo solo per paura, quindi lo fece.
Ma c'era il silenzio.
Un groviglio gli ostruì la gola, preso a pugni dal nulla, avrebbe preferito essere assorbito dalla terra e diventare parte di quel tutto, poter risentire qualcosa; cascare sotto e non esistere più se non nel suono che aveva immaginato. Da lì, provò di tutto. Corse per giorni, forse, sfinendosi. Rischiò di annegare, di strozzarsi in un nido di animali o di bruciarsi sotto i fulmini.
Pareva essere diventato sordo al reale, ma c'era un suono, quello immaginato, che non smetteva mai. Era questo che cercava sott'acqua, sotto la terra, nel fuoco o nel vento. E steso sul prato, vide il vento accarezzare l'erba come con il suo cuore era stato fatto dall'amore. «Funzionerà. L'erba è la corda della terra, e io le appartengo». Legò un filo d'erba al suo cuore, e fu scosso da un fremito primordiale. Le sue orecchie udirono il sole scivolare tra le foglie, le ali delle api, la sua anima risollevarsi... per un solo istante.
Il filo si seccò e morì nel palmo.
Ma il vento aveva fortificato la nota che risuonava in lui, perciò decise di ritentare. Strappò un altro filo d'erba, che si seccò. Andò avanti, ritentò. E ritentò.
Poi si trovò all'innalzarsi di una collina che lo fece smettere: sentiva un suono scendere da lì sopra.
La nota.
Si arrampicò mani e piedi, si sfinì fino a farsi esplodere i polmoni spinto unicamente da quella nota mai udita prima e viva solo nella sua mente. Si grattò le mani pur di raggiungere la cima, e la mattina dopo era lì, davanti a un tempio in avorio, sul quale rilucevano tutti i Soli dell'universo. Aveva paura di guardarlo troppo a lungo, eppure si trovò a spingersi oltre e, tirato da quella vibrazione, bussò. Bussò, bussò e bussò fino a creparsi le mani e bagnarsi il viso con un pianto che non si era ancora mai concesso, anche questo come se fosse tirato fuori da quella nota che era dentro e fuori di lui. E per la prima volta si sentì pieno, avvolto.
«Stai comprendendo che non dovresti cercare qualcosa che al tuo interno devi trovare» le porte si aprirono a quella voce che era la nota. «E adesso sei a casa, Anima».
«Perché soffro ancora?»
«Perché non c'è guarigione senza sofferenza, e le tue lacrime ti renderanno libero. Mi hai trovata seguendomi dal tuo interno, al contrario dei tuoi simili. Hai cominciato ad ascoltarti e così hai sentito».
«È vietato ascoltarsi, da dove vengo. Ascoltarsi fa male».
La voce rise. «Ti sei fatto male e hai scoperto la vita. Il silenzio ammutolisce l'Anima e sgretola il cuore».
Le lacrime scorrevano sul suo filo d'erba rimasto legato. Lo sfiorò, non era più secco e ingiallito, ma turgido. «Quando smetterò di piangere, morirà di nuovo?»
«Non devi avere paura, ora che siamo insieme». Lo prese con gentilezza, portandolo dentro il tempio. Era ampio, e il centro del soffitto scavato in un'apertura che dava sul cielo e i suoi Soli. «Da solo guarirai, ma non vivrai».
L'eco della voce si addensò attorno al suo corpo, riscaldandolo. «Io voglio vivere».
Lei posò una mano sul suo cuore, l'erba si radicò e indurì come una corda tutta nuova. «E tu avrai nuova vita».
Lei posò una mano sul suo cuore, e il ballo della vita si aprì sotto i loro piedi, innalzandoli tra l'alto e il basso.
Lei posò una mano sul suo cuore e lui poso la posò sul suo mentre, sospesi sulmondo, facevano risplendere un altro sole sopra il tempio delle Anime Ritrovate
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