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Terzo Interludio

     Il capolavoro che Finney cercava non arrivò mai. Per quanto ci si sforzasse, Erin non trovava interesse nelle tesi che doveva dimostrare secondo lui. Perciò tutto ciò che fece fu ascoltare musica, aggirarsi nella zona profana e sviluppare nuove teorie.

La settimana trascorse in un lampo. Finney le ricordò del compito da consegnare, ma lei lo ignorò finché lui stesso non smise di cercarla.

Il tempo avanzava, e i mesi passarono. Poi un anno.

Di tanto in tanto, Erin udiva i genitori litigare nella cucina. Quel giorno in particolare, la madre urlava a squarciagola, sembrava volesse sfondare le pareti, il tetto, il palazzo intero e Aném stessa.

«È tutta colpa tua! Se non fosse stato per te, non avrebbe mai messo piede nella zona profana!»

Seguì un tonfo. Un paio di secondi, una scusa bofonchiata dal padre, che Erin non comprese, e qualcosa di fragile si frantumò in mille pezzi, in un rumore forte e improvviso. Un piatto, forse.

«Sta' zitto! Lo sai quello che si dice di lei, vero? La gente parla, lo sai, no?»

Erin smise di lisciarsi la gamba con la mano; la fece cadere giù, penzoloni nel vuoto. Con l'altra afferrò il bracciolo della sedia e lo strinse al punto da provare dolore sulle giunture delle dita. Fissava la scrivania, nel punto in cui una lampada da tavolo giaceva morta, senza più una lampadina da chissà quanto tempo.

«Diventerà una Ruggine, ecco cosa dicono tutti! Ed è tutta colpa tua!»

Erin allentò la presa sul bracciolo.

«Non diventerà una Ruggine,» gridò il padre, in risposta. «È una Oro, no? Quelli come lei se ne stanno sempre rinchiusi a pensare a un sacco di stronzate e basta, è normale!»

«No che non lo è! Non riuscire nemmeno a finire la scuola non è normale!»

«Ma perché dovrebbe essere colpa mia? Tu sei sua madre, hai tante colpe quante ne ho io!»

Erin si stirò per raggiungere le cuffiette abbandonate sul letto. Se le portò alle orecchie, ma ne inserì solo una; l'altra rimase sospesa a metà strada. Tremava. Per quanto si imponesse di smetterla e di rimanere calma, non riusciva a fermarsi.

Perché tremava?

Quale sentimento si celava, oltre la reazione inspiegabile del suo corpo?

Immobile, continuò a osservare la cuffietta nera oscillare, stretta fra le sue dita. Basta. Sei calma. Non ti importa niente dei loro litigi. Tutti pensieri veri e genuini, eppure le mani non volevano darle ascolto. Erano due entità diverse, lei e il suo corpo.

Quella era la maledizione dell'Oro.

Qualcos'altro esplose nella cucina. Erin chiuse gli occhi per riflesso e incassò la testa nelle spalle. Giunsero nuove urla, non più arrabbiate, non più parole: soltanto dei versi e un pianto disperato, da parte di entrambi.

Alzati, comandò Erin al proprio corpo. Quello però non si mosse. I muscoli si erano atrofizzati. Erano contratti al punto da sembrarle di essere rinchiusa in un fisico di pietra. E sperò di diventare presto una statua in tutto e per tutto, perché almeno i battiti del cuore avrebbero smesso di rimbombarle nella testa.

La porta si aprì. Sua madre si affacciò, il viso esangue, vistose macchie cremisi sul grembiule. Zoppicando, si fece avanti verso di lei. Lasciava impronte rosse sul pavimento.

«Erin!» Le prese la testa fra le mani. Puzzava di ferro e cipolla, e le dita erano scivolose.

«Mamma?» Le due sillabe le uscirono in un soffio ansioso. La saliva le riempiva il palato.

La madre poggiò la fronte contro la sua. «Per favore, aiutami. Mi dispiace... Dobbiamo portare tuo padre da un dottore.»

Erin abbassò la nuca di quel poco che la presa dell'altra le consentiva. In corrispondenza della coscia della madre, la macchia rossa sul grembiule continuava a espandersi. «Sei ferita,» disse.

«Sto bene.» Con le mani, le accarezzava i capelli. «Tuo padre ha bisogno di aiuto...»

«Cos'è successo?»

Una domanda stupida. La cosa giusta da fare sarebbe stata alzarsi e andare da lui, lo sapeva, tuttavia il corpo continuava a restare bloccato. Forse era davvero diventata una creatura di pietra, costretta a restare immobile per l'eternità.

«Un incidente. Si è tagliato... È stato un incidente.»

«Come?»

«Ti prego, aiutami a portarlo da un dottore, io non riesco... mi fa male.» Si ritirò per sfiorarsi la gamba ferita.

E allora, soltanto allora, Erin si sbloccò. Il braccio scattò in avanti, come la lancetta di un orologio d'epoca, e le parve di sentirlo scricchiolare. Afferrò il grembiule della madre, che cercò il suo sguardo.

Andarono in cucina insieme, la madre aggrappata alla spalla di Erin. Sulle gocce di sangue già cadute a terra e ancora fresche ne caddero di nuove.

Seduto con la schiena appoggiata contro il frigorifero, trovarono il padre: la testa gli ciondolava da un lato e, dal piede scalzo, zampillava liquido cremisi. A circondarlo, una marea di vetri rotti; ne reggeva uno fra le dita, completamente zuppo.

Erin non ebbe mai la certezza di cose fosse accaduto. La madre raccontava di come il marito l'avesse ferita con un vetro rotto; il padre la accusava di avergli lanciato addosso bicchieri, piatti e pentole. Entrambe le versioni erano vere, e lei lo sapeva, ma non le bastavano per ricostruire con precisione gli eventi.

Ma quale che fosse la soluzione, il risultato non cambiava: con il piede ferito, lui faticava a camminare, perciò smise di recarsi nella zona profana. Erin non dovette più andare a richiamarlo ogni giorno, e alla fine anche lei perse i contatti con l'uomo-locomotiva e tutti gli altri.

I litigi dei suoi genitori però non fecero che peggiorare. Più tempo passava lontano dai piaceri terreni della zona profana, più suo padre diventava irritabile. Erin non vide mai più il suo sorriso genuino, e l'uomo felice della zona profana che aveva conosciuto tempo addietro morì per sempre.

«Vorrei solo che stessero zitti,» le diceva, in quei rari momenti in cui non si lamentava con la moglie. La guardava dalla poltrona di finta pelle color carne, un libro dalle pagine ingiallite sul grembo e un dito a tenere il segno.

«Cosa?» chiedeva Erin.

Lui si lisciava la nuca ormai stempiata con la mano. «I pensieri.»

«Non puoi smettere di pensare,» gli faceva notare lei.

«Ma vorrei non restarci bloccato. Ogni mattina mi sveglio, e so già quello che mi aspetta: una giornata di domande. E tu stai lì, a chiederti qual è il motivo per cui esisti, arrivi a chiederti se troverai mai il modo di andare avanti... e il corpo smette di funzionare. Non si muove più, non risponde ai comandi.»

Erin lo ascoltava con interesse dalla soglia del soggiorno. Il quadro di una colomba incatenata al ramo di un albero faceva da sfondo alla figura del padre. Le pennellate del dipinto erano leggere, i colori di un pastello tenue.

«Ma lascia perdere.» Lui agitava il libro davanti a sé. «Non puoi capire cosa si prova.»

Così terminava sempre la discussione. Erin non gli rispondeva mai, sebbene sapesse benissimo cosa si provava, forse anche più di lui; quello che non conosceva era la sensazione di libertà. E allora fissava il quadro del soggiorno e si chiedeva chi soffrisse di più, se la colomba incatenata al ramo, o una colomba nata senza le ali.

In quel periodo tornò a scrivere. Non inviò nessuno dei nuovi lavori al professore, che ormai nemmeno si ricordava più della sua esistenza. Scrisse articoli per la rete. Il suo preferito divenne il più letto nel giro di poche settimane.

Non amava l'intero articolo, ma una parte in particolare la rendeva fiera del suo lavoro:

"L'eternità ci blocca. L'eternità ci fa vivere come animali in gabbia. La consapevolezza che l'anima è un'essenza a parte, qualcosa che un giorno tornerà in un'altra veste, ci fa perdere di vista una dimensione altrettanto importante: il corpo.

Noi siamo anima, ma siamo anche corpo. Solo che ce ne dimentichiamo.

Per questo dobbiamo liberarci dell'eternità. L'eternità è la nostra prigione.

Oro. Argento. Ferro. Niente di tutto questo ha senso. Siamo umani, non metallo. Ma per capirlo, dobbiamo uccidere l'anima. Una volta morta l'anima, tutti capiranno che quello che rimane è l'umanità.

Finalmente, potremo essere solo umani."

Il fulcro intero del suo pensiero era sintetizzato in quelle poche righe. Una critica alla società, una verità di cui lei era sempre più sicura, giorno dopo giorno, e una soluzione: era tutto lì dentro.

Rimase nell'anonimato. Aném non avrebbe accettato le sue idee, e i commenti che arrivarono nei giorni successivi ne furono la prova: le davano dell'eretica, alcuni arrivavano a diagnosticarle delle malattie mentali sulla base del nulla. Erin non ci badava, almeno non all'inizio.

Poi arrivò lo Psych. Un triangolino di plastica da attaccare all'orecchio che rese la realtà virtuale molto più che una semplice fantasia. Erin lo ricevette in regalo dalla madre. Ma i messaggi pieni di odio e di giudizi così iniziarono a tormentarla giorno e notte: a ogni nuovo commento, le giungeva un trillo nell'orecchio, e le parole apparivano in controluce nella sua visuale.

Alla fine, cancellò gli articoli, ma la pace durò poco.

Come al solito, quel giorno era in camera. Si rigirava lo Psych fra le dita – fragile com'era, temeva di romperlo, perciò lo teneva con le punte – quando le bussarono alla porta. «Sì?» chiese, e si girò in quella direzione con tutta la sedia.

La madre le si presentò con una faccia funerea. Negli ultimi tempi aveva perso parecchi capelli, e le ciocche le si appiattivano sulla testa, incapaci di creare volume. «Erin,» cominciò. Si fermò. Deglutì. Fece un passo per entrare. «Chiedono di te.»

Erin inclinò la testa da un lato. «Chi?»

«Per favore, vieni di là.»

Non ottenne altre spiegazioni, la madre scomparve nel corridoio. Erin posò lo Psych sulla scrivania e le andò dietro. Un formicolio doloroso le ricopriva il piede, perciò ciondolò lungo il tragitto, con una smorfia che di tanto in tanto le deformava il volto. Doveva smetterla di passare tutto il tempo seduta, non le faceva bene alla circolazione.

Quando raggiunse l'ingresso, trovò suo padre immobile davanti alla porta. Assieme a lui c'erano un paio di uomini alti, con delle divise bianche che mettevano in mostra delle medaglie luccicanti.

Uno dei due le andò incontro. Qualcosa gli scintillava nella mano. «Erin Neal, sei sospettata per la divulgazione di idee eretiche,» le disse. «Ti chiediamo gentilmente di seguirci.»

Sollevò l'oggetto luccicante e lo usò per legarle i polsi: manette. La stavano arrestando.

Erin lo lasciò fare, docile. Il piede ancora le formicolava. «Dove?»

«Dovrai sottoporti a un interrogatorio con un Gestore. Se sei innocente, non hai nulla di cui preoccuparti.»

Un miliardo di domande le vorticava nella mente. Un miliardo di possibili risposte seguì il flusso incessante delle domande, ma Erin si concentrò sull'unica di cui era sicura.

A denunciarla era stato Finney.

Angolo autrice:

Sì, ultimamente sto cincischiando con gli aggiornamenti, lo so. Sono in un periodo strano e sto parecchio distratta. Comunque, per ora credo lascerò solo l'aggiornamento del sabato, spero di riuscire a mantenerlo. Grazie per essere arrivati fin qui!

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