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8

     Il corpo di Leean non ascoltava. Nonostante gli stimoli che la accerchiavano – le urla, la gente che incitava, la ruota che girava, i dadi che roteavano, le luci colorate – lei si sentiva una spettatrice di un mondo che non le apparteneva. Non faceva parte di quella realtà, forse non faceva parte di nessuna realtà. Perfino la sua stessa esistenza non le sembrava più così scontata.

Perciò osservava, seduta al suo posto, con la spalla fasciata che pulsava senza sosta. La roulette girava, e la pallina si fermava sul nove rosso. Una donna con un ciuffo rosa che le copriva l'occhio esultò; tutti gli altri bestemmiarono, con tanta forza da far tremare il pavimento.

Leean si infilò le mani fra le cosce e le strinse. Anche lei aveva giocato qualcosa, solo che non era sicura di quale numero. Non aveva vinto però, di questo era certa.

Un cameriere passò a offrirle un calice di vino bianco. Si chinò su di lei, spargendo l'essenza della colonia in cui si era immerso. Un profumo che le entrò nelle profondità della gola.

Leean declinò con un cenno del capo. Lui annuì e porse il vassoio alla donna dal ciuffo rosa, lì a fianco. La giacchetta color salmone gli si attaccava alla pelle, tanto attillata da sembrare che fossero un tutt'uno; delle frange colorate gli sventolavano dietro la schiena, solleticandole il braccio nudo.

La sgradevolezza della sensazione di quel tessuto ruvido sulla pelle la ridestò dallo stato di trance in cui era precipitata. Leean spostò tutto il peso sul lato opposto della sedia e si strinse il braccio contro il petto. Solo quando il cameriere volteggiò verso altri clienti, e portò via con sé le sue dannate frange, Leean si rilassò.

Raccoglievano nuove offerte. La donna dal ciuffo rosa puntò tutte le sue monete, poi le rivolse un occhiolino.

Leean distese le labbra nel suo solito sorriso da maniaco. Non si sarebbe stupita se l'altra avesse fatto finta di nulla e si fosse rimessa ad acclamare la pallina che girava – ci sperava, in realtà – ma quella le rispose con un'alzata di mento e un sorriso obliquo. Appoggiata al bancone, mostrava un paio di braccia muscolose. Un serpente d'inchiostro le si attorcigliava al bicipite.

«Vieni spesso da queste parti?» le chiese. La sua non era una voce sgradevole, tuttavia suonava ruvida.

Leean si grattava la spalla, proprio sotto la fasciatura. Già li sentiva, i segni bianchi che le lasciavano le unghie sulla pelle arrossata. «Diciamo di sì. Sto cercando di smettere.»

Il sopracciglio inarcato dell'altra le provocò un brivido. «Vieni dai piani alti?»

«Più o meno,» rispose. Per la gente di Aném, con "piani alti" ci si riferiva agli ultimi piani dei grattacieli, chiamati anche sacri. Ma per gli abitanti della zona profana, chiunque abitasse a un livello superiore al piano terra veniva considerato "uno dei piani alti".

«E com'è la vita nei grattacieli? Se ne vanno ancora tutti in giro a parlare di roba astratta che non serve a niente, eh?»

«È da tanto che sei confinata qui?»

La donna dal ciuffo rosa estrasse una sigaretta da un contenitore di metallo sul bancone. In un movimento veloce e fluido, degno di un prestigiatore, risvegliò la fiamma di un accendino e ne accese la punta. Fece un lungo tiro e sbuffò il fumo dalle labbra. «Una decina d'anni, o giù di lì. Ma è come se ci fossi nata, qui.»

Il croupier annunciò il numero vincitore. Ancora una volta, fra le imprecazioni generali, la donna dal ciuffo rosa mimò lo sparo di una pistola contro gli altri giocatori e si appropriò di tutti i gettoni. Puntò ancora, prima di tornare a girarsi verso Leean. I due orecchini che le pendevano dalle orecchie imprigionarono le luci della stanza.

«Mi hanno appioppato la nomea di Ruggine quando ero ancora adolescente. Prima ero un Argento.» Cacciò un'altra ondata di fumo. «Ma sono stata felice di finire qui, dopotutto tutti quei damerini vestiti di bianco dei piani alti non li ho mai sopportati.»

Leean evitò di dirle che sua zia era la regina dei damerini vestiti di bianco. Accarezzò il punto della spalla in cui i graffi la rendevano bitorzoluta. «Non sono poi così male.»

L'altra sbottò in una risata raschiante. «Immagino sia una questione di punti di vista.» Le offrì la mano. Pellicine bianche le circondavano le unghie e la pelle, al tatto, era troppo secca. «Monia,» si presentò.

«Leean,» rispose.

«Comunque, il problema di quei damerini non è tanto che si credono superiori.» Monia fece cadere un cumulo di cenere nel posacenere che teneva accanto al gomito, sul bancone. «Il problema è che si fanno troppi problemi inutili. La vita non va vissuta solo qui,» si picchiettò la fronte con un dito. «È per questo che poi succedono quei casini, come l'altro giorno a quella festa senza senso.»

Leean afferrò le dita nell'altra mano e strinse come se volesse stritolarle. «La notizia è arrivata fin qui?»

«Altroché. C'eri anche tu?» Levò la sigaretta a indicarle la fasciatura. «Te la sei fatta lì quella?»

La consapevolezza del foro che il proiettile le aveva scavato nella carne all'improvviso la dilaniava. Le tirava la pelle; scottava anche attraverso i veli delle garze. Un fuoco, ecco cos'era, un fuoco che le avvampava nei muscoli lacerati.

Leean pensò di alzarsi e lasciare il locale, così, senza alcun preavviso. Immaginò il ghigno di Monia – le sembrava proprio il tipo – che la seguiva con lo sguardo. Una come lei avrebbe anche potuto apprezzare un atteggiamento simile, e in ogni caso Leean dubitava che si sarebbe offesa. Tuttavia, rimase.

L'arrivo di qualcuno la sollevò dall'angoscia. Ne avvertì l'essenza prima ancora che le sbucasse dalle spalle: vaniglia, un profumo raro nella zona profana. Nascosto in una nuvola di vapore che sbuffava fuori dopo ogni tiro alla sua sigaretta elettronica, Duke si intromise fra loro. Poggiò una sola mano, piena di gioielli, sul bancone. Rivolse un occhiolino veloce a Leean, poi soffiò un'ondata di vapore sul viso di Monia.

«Lasciala stare, Mon,» disse. «È un periodo difficile.»

Lei scacciò il fumo da davanti a sé. «È amica tua?»

«Una specie. Ma ora vorrei rubartela un attimo, se non ti dispiace.» La tirò per un braccio, costringendola ad alzarsi, e le si mise sotto braccio. Nonostante il dolore alla spalla, Leean lo lasciò fare.

Monia spense il mozzicone nel posacenere. «Come vuoi. Cerca solo di non riempirle la testa delle tue cazzate.» Lo indicò con il pollice. «Negli ultimi tempi non fa altro che parlare di sua sorella e della meditazione. Se comincia a diventare insopportabile, chiamami che lo stendo in due secondi.»

Leean rise. Per la prima volta da quando era arrivata nel locale, o forse per la prima volta da un'intera settimana, dimenticò per davvero tutto. Sospesa nel limbo di un momento piacevole, il resto della sua vita cessò di esistere per alcuni istanti.

Seguì Duke lontano dalle roulette, verso un tavolino isolato non molto distante dal bancone degli alcolici. Bazzicavano sempre poche persone in quel lato del locale, e quel giorno non faceva eccezione: tolto un duetto di tizi vestiti di pelle nera intenti a brindare e ridere senza riserve, non c'era nessuno. Duke scelse il tavolo più lontano dal loro, addossato alla parete. Fece cenno a Leean di prendere posto di fronte mentre si accomodava.

Lei accolse l'invito. «Grazie.»

«Allora, come mai qui?» Raschiava il tavolo con l'unghia dell'indice, distratto. «Avevo capito che saresti più tornata per un po'.»

«L'intenzione era quella.»

Duke reclinò la testa a osservare il soffitto, dove la vernice blu sfumava su quella arancione. Il biondo cenere dei suoi capelli rappresentava l'unica nota stonata in quel locale dove i colori esplodevano in ogni angolo. «C'entra quello che è successo alla festa?»

«Eh?» Leean rispose per istinto. Il significato della sua domanda le arrivò un istante dopo, e prese a picchiettare il bordo della sedia con i polpastrelli.

Duke puntò la sigaretta elettronica a indicarle la fasciatura sulla spalla. «Con il motivo per cui sei qui, dico.»

«Non mi va di parlarne.»

«Certo. È giusto.»

Nessuno dei due aggiunse più nulla. Lui si accontentò della risposta. Leean divenne fin troppo consapevole del bruciore che le si irradiava lungo l'intero braccio, come se qualcuno le avesse appena conficcato un sigaro acceso nel foro dove c'era stato il proiettile.

La parola "silenzio", in quel luogo, perdeva di significato; se attorno a loro continuavano a schiamazzare, però, una cupola invisibile aveva avvolto soltanto loro due. I rumori passavano, eppure appartenevano a un mondo diverso, esistevano oltre la cupola. All'interno aleggiava una quiete nervosa.

Sprofondare nei propri pensieri era troppo facile, così. Leean si pizzicò la pelle per scacciare le immagini del sangue e l'odore ferroso.

«Non riesco davvero a capire perché.» Si accorse troppo tardi di aver pensato ad alta voce.

Duke tornò a fissarla. «Cosa c'è da capire?»

Leean si sporse sul tavolo. Un calore spiacevole le risalì dall'interno. «Perché fare tutte quelle domande? Perché confonderci così e poi... Farsi, insomma...»

Farsi esplodere. Lo pensò, ma non trovò il coraggio di dirlo.

«Io non ne so molto della situazione.» Lui sollevò le mani. «Però sai, forse la stai guardando dall'ottica sbagliata. Forse non volevano confondervi, ma farvi arrivare a qualche conclusione particolare.»

A questa eventualità Leean non aveva affatto pensato. Eppure avrebbe dovuto, si rese conto.

«Ma perché uccidersi subito dopo?» chiese. Quello della festa si poteva chiamare suicidio? Senza contare che c'era anche qualcun altro, nascosto nell'ombra. Qualcuno che aveva sparato a Leean per permettere alla donna di liberarsi. Qualcuno che poi era sparito, e lei non poteva far altro che immaginarlo come un fantasma dotato di occhiali scintillanti.

«Potrebbe essere un messaggio.»

Lei corrugò la fronte. «Un messaggio?»

«Sì. Come un simbolo, no?»

«Ma di cosa?»

Quale simbolo valeva più della propria vita?

«Non ne ho idea, ma penso che dovresti smettere di pensarci così tanto. Non ti fa bene.»

Se solo fosse stato così facile, non pensarci. Leean si abbandonò di nuovo contro lo schienale. «Vorrei solo sapere perché ci devo capitare sempre io.»

Duke si lasciò andare a una risatina. ­«Tu vivi la tua vita, è normale che ti sembra che capitino tutte a te. È una questione di prospettiva. Credo che tutte le persone presenti alla festa si stiano facendo la stessa domanda, no?»

«Scusami tanto se mi lamento dei miei traumi,» sbottò lei, e gli rivolse un gesto con la mano, come per mandarlo a quel paese. Però si agitò più del necessario e il piede sbatté contro la gamba del tavolo. Trattenne a stento un'imprecazione.

«Hai ragione, scusami.» Si diede uno schiaffetto sulla guancia. «Sono un deficiente. Lamentati, ne hai tutto il diritto.»

Leean sbuffò. «Lascia perdere. Ero venuta qui per distrarmi, non per frignare.»

«Allora facciamo così,» Duke schioccò le dita, e il cameriere con le sue frange colorate cambiò rotta per dirigersi da lui, «ti offro qualche schifezza. Cosa vuoi? Patatine? Panini? Una bella confezione di alette di pollo? Decidi tu.»

Quella sì che era una proposta interessante. Leean cancellò il cipiglio e lo sostituì con un sorriso; le labbra ancora faticavano a restare distese, ma si sforzò per il bene del pasto indecente che stava per ordinare. Al cameriere – che non scrollava gli occhi da Duke – chiese l'hamburger più grande che avevano, una porzione gigante di patatine fritte e un frullato al cioccolato.

Se zia Ebony l'avesse saputo, si sarebbe beccata una predica che non finiva mai. La immaginò agitare le mani, concitata, mentre le spiegava ancora e ancora quanto fosse importante non cadere nei tranelli del corpo. Rinchiuse quella figura in una bolla e la fece volare via, in un mondo lontano e sperduto.

Per una volta, quello che avrebbe pensato sua zia non aveva importanza.

«Te l'ho detto che mia sorella ha iniziato un corso di meditazione?» le chiese Duke. Una luce particolare lo illuminava, un sorriso innocente, da bambino.

Leean accolse volentieri il cambio di argomento. «Monia mi ha accennato qualcosa.»

Lui annuì, ma gli occhi persi nel vuoto lo smascheravano: non la stava nemmeno ascoltando. «Si è iscritta qualche settimana fa,» iniziò. «Dice che l'insegnante è una tipa parecchio tosta, lì per lì non era nemmeno sicura di aver azzeccato corso. Uno si aspetta una persona paziente, no? E invece lei si scalda davvero con poco.»

«Sembra davvero un ottimo corso.»

«È quello che ho pensato anche io.» Duke fece un altro tiro alla sigaretta elettronica. Il vapore che gli uscì dalle labbra sparse un profumo di vaniglia. «Però Zoey aveva qualche problema di concentrazione, e a quanto pare l'insegnante si è impegnata a trovare un modo per aiutarla. Ogni lezione si mette lì vicino a lei e la guida con la sua voce.»

Leean non era sicura di che genere di risposta si aspettasse. Si morse l'interno del labbro, poi azzardò un altro sorriso esagerato, di quelli degni di un assassino squilibrato.

A lui sembrò bastare. «È migliorata davvero tanto, adesso riesce a mantenere molto meglio la concentrazione. Pensa che se le dici di fare qualcosa, dopo cinque minuti se ne ricorda e lo fa.»

«Addirittura?» Non le sembrava una gran conquista.

«Esatto! Prima nemmeno ti sentiva. Quasi non la riconosco più.»

Il cameriere tornò con il frullato. Abbandonò il bicchiere di plastica sul tavolo, e sbuffò al flebile «grazie» di Leean. Andando via, toccò la spalla di Duke e gli rivolse un occhiolino. D'accordo essere sfacciati, ma quel tipo esagerava.

Pur con quel pensiero, Leean evitò di commentare, dopotutto, finché le portava il suo ordine non le cambiava nulla. Si attaccò alla cannuccia che sporgeva dal bicchiere e prese alcune sorsate. La dolcezza arrivò tutta insieme, le invase il palato e lavò via ogni traccia di amarezza che la tormentava. Chiuse gli occhi un paio di secondi per godersi la sensazione.

«Dovresti provarci anche tu,» le disse Duke.

«Non ho bisogno di un corso, so già come si medita.»

«Sì, ma se devi andare alle lezioni almeno sei costretta a farlo davvero.»

Leean intrappolò la punta della cannuccia fra indice e pollice. «Sembri mia zia adesso.»

«Tua zia deve essere una che dà ottimi consigli.»

«Non sono scesa qui per farmi fare la predica, però.»

Duke alzò le mani. «Temo di non essere una persona poi così altruista,» ammise, e il suo solito sorriso si incrinò di colpo. Non morì del tutto, ma quello che rimase era poco più di un'ombra malinconica. «Volevo convincerti perché devo chiederti un favore.»

Leean alzò il sopracciglio, sorpresa. Di solito era lei a chiedergli appoggio, dopotutto era una delle poche persone di cui si fidava, lì nella parte profana. «Che genere di favore?»

«Si tratta di Zoey. Vorrei che la tenessi d'occhio per me.»

«Avevo capito che il corso le stava facendo bene.»

In un sospiro, Duke appoggiò la sigaretta sul tavolo. La luce gli colpiva la punta del naso dall'alto, e ne seguiva la forma un po' troppo schiacciata. «Infatti. Non è tanto per il corso in sé, quanto per le persone che ha conosciuto lì. Non lo so, mi danno delle strane vibrazioni.»

Dopo un altro sorso, Leean scrollò l'unica spalla che non le faceva male. «Non è che sei solo geloso?»

Lui si portò una mano sul petto. «Geloso? E di cosa?»

«Che la tua dolce sorellina si innamori e si dimentichi del suo fratellone?»

«Che stronzata.» Scacciò la possibilità con un gesto brusco e riprese la sigaretta. «Sarei solo felice se trovasse qualcuno che si prenda cura di lei.»

Disse così, eppure la sua espressione suggeriva tutt'altro. Cosa, di preciso, Leean non avrebbe saputo dirlo. Duke era come un dipinto tratteggiato dalla mano delicata di un artista che custodiva un uragano nel cuore; a una prima occhiata, ciò che colpiva della sua presenza era proprio l'eleganza, la gentilezza dietro degli occhi pieni di tranquillità. Oltre però celava l'irrequietezza di una tormenta.

«Quindi?» chiese Leean. «Di cosa hai paura in realtà?»

Con le dita incastrate nei capelli, lui fissava un punto lontano oltre le sue spalle. «Non lo so nemmeno io. Ho una brutta sensazione, non te lo so spiegare. Mi piacerebbe dirti che forse sono solo paranoico, ma ogni volta che mi sono sentito così non ho mai sbagliato.»

«Io dico che dovresti rilassarti un po'.» Leean bevve un altro sorso. «Lasciala fare le sue esperienze.»

Duke si massaggiò una guancia. «Lo so. Lo so, e hai ragione. Lascia perdere, fingi che non ti ho chiesto niente.»

Con il bicchiere ormai mezzo vuoto fra le mani, Leean annuì appena. «Meditare però potrebbe farmi bene, questo te lo concedo,» ammise. «Ma non ho nessuna intenzione di farti da spia.»

Il modo in cui lui si illuminò le diede una stretta al cuore. Le mise una mano sul polso. «Davvero? Grazie, Lee, sei un tesoro!»

«Non capire male. Non lo faccio per te.» Non del tutto, almeno.

Il resto dell'ordine arrivò in quel momento.

Spazio autrice:

Ed eccoci qui, avete fatto la conoscenza di Duke. Non è un protagonista, ma tornerà sicuramente, e a me come personaggio da scrivere piace davvero tantissimo. Fatemi sapere voi invece cosa ne pensate, se vi va.

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