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5

     In occasione della festa, il lucernario era aperto. Nuvole bianche galleggiavano pigre nell'oceano azzurro; entrava una brezza fresca, che portava con sé gli odori dell'esterno: fiori, erba, rugiada. I raggi del sole vibravano nella sala, abbattendosi contro le colonne, sul palco allestito al centro e sulle vetrate chiuse che si affacciavano verso l'esterno.

Leean osservava il via vai dei pensatori che, con i loro strascichi candidi, lasciavano ombre bianche sul tappeto al loro passaggio; ombre altrettanto fugaci, che sparivano assieme ai proprietari nel giro di pochi attimi. Uno di loro, con un codino raccolto sulla nuca e un sorriso stanco, le rivolse un cenno del capo. Lo ricambiò senza capire chi fosse.

«Allora? Ti senti pronta?» Benjamin le diede di gomito. Lindo e preciso nel suo abito migliore, continuava a controllare che la giacca dal taglio asimmetrico fosse ben chiusa. Slacciò e riallacciò l'ultimo bottone un paio di volte ancora. «Come sto?» le chiese, senza nemmeno attendere una risposta all'altra domanda.

Leean sbuffò. «Come stavi dieci secondi fa.»

«Sto diventando assillante?»

«Sei sempre stato assillante,» gli fece notare.

Lui rise. «Lo so. È che ero indeciso fra questa e l'altra giacca, hai presente, no? Quella con i bottoni neri? Forse avrei dovuto scegliere quella.»

«Ma se è identica a questa.»

«Stesso modello, sì, ma te l'ho detto: questi sono neri.» Benjamin indicò un bottone. Un bianco sporco, non perfetto, che si scontrava con quello immacolato della stanza stessa.

«Chi vuoi che faccia caso ai tuoi bottoni?» disse lei alla fine.

«Hai ragione. Scusami.» Batté le mani di fronte a sé e le fece l'occhiolino. «Tu come stai? Pronta a riprendere in mano le tue sorti?»

«Pronta per mandare a tutte a puttane, semmai.»

Lui già guardava il movimento sul piccolo palco allestito al centro della sala, dove lo stesso ballerino dell'altro giorno ripassava i passi; l'abbigliamento tipico della festa, una tuta argentata e tanto attillata che Leean si chiese come gli fosse possibile muoversi, lo rendeva meno ammaliante. In compenso, guadagnava fin troppi punti che lo classificavano sotto l'aggettivo "ridicolo". Il collare dorato che gli allungava il collo verso l'alto di certo non lo aiutava.

La mano di Benjamin le trovò la spalla. Il suo cipiglio arrivò poco dopo. «Andrà tutto bene, te lo prometto.»

«Non è una cosa che puoi promettere,» gli fece notare, e si scansò.

Sapeva già che le avrebbe risposto con una qualche ramanzina sulla fiducia in se stessi e chissà cos'altro e, sebbene non avesse alcuna voglia di sentirlo, non le riuscì di trattenersi. Lui prese fiato, pronto ad avverare quella previsione; si bloccò con ancora il petto gonfio d'aria e di parole, perché Quinn si era appena distaccata da un gruppo di sacerdoti e veniva verso di loro.

Al contrario degli altri, lei non si trascinava appresso nessuno strascico: vestiva abiti compatti, che le aderivano al corpo come una seconda pelle, e la coprivano con quel loro colore niveo..

«Hudson, sei in anticipo.» La sua figura imponente si sciolse in un sorriso più caldo di quanto Leean si sarebbe mai aspettata da una come lei. «Molto bene. Sono contenta di sapere che almeno intendi iniziare con il piede giusto.»

Come doveva prendere quel commento?

Insicura se fosse un complimento o meno, Leean evitò di replicare. Si passò una mano sul polso, sotto la stoffa della divisa, e le sue stesse dita le congelarono la pelle. «Zia Ebony?» chiese, più per distogliere l'attenzione da sé che per vero e proprio interesse.

«Ha voluto accompagnare i ragazzi personalmente. Avevano davvero un'aria troppo agitata. Mi chiedo che cosa insegnino nelle scuole, se un semplice test li rende così nervosi.»

«Oggi sapranno che strada ha scelto la loro anima,» intervenne Benjamin. «È comprensibile che siano agitati. Lo siamo stati tutti quando ci è toccato, no?»

Quinn incastrò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Con tutto il rispetto, ma non sono d'accordo. La mia generazione ha vissuto l'evento con serenità, come dovrebbe essere.»

«Certo, non ne dubito.» Benjamin nascose le mani dietro la schiena, raddrizzando il busto. «Anche io ricordo soprattutto l'evento con una sensazione di gioia, però un po' di ansia credo faccia parte del gioco.»

«Non dovrebbe esserci, invece. Non esiste un esito giusto e uno sbagliato, è soltanto un momento in cui scopriamo noi stessi.»

«Può darsi...»

«Ma i ragazzi spesso si lasciano fuorviare dalla parola,» lo interruppe. «Test. Di solito lo si ricollega all'esperienza scolastica, e se è con quest'ansia che la vivono, è chiaro che ci sia qualcosa di sbagliato.»

Leean non ricordava molto bene il momento del test. Aveva solo quindici anni, una paura immensa di qualsiasi risultato avrebbe ottenuto e una certa curiosità di scoprire cosa ne sarebbe stato del suo futuro. Certo, all'epoca non immaginava che si sarebbe ritrovata a passare la metà delle giornate nella zona profana a racimolare qualche spiccio nella maniera meno sicura del mondo.

Il luccichio degli occhi vitrei del Gestore dopo ogni sua risposta però le restava impresso nella memoria. Il modo in cui all'inizio fossero diventati dorati, e lei aveva dimenticato come si respirasse, come si parlasse, finché il colore non si era schiarito fino a diventare argentato.

«Non sono sicuro sia una cosa poi tanto malvagia.» Benjamin continuava a conversare, tutto impettito, con un sorriso smagliante. «L'ansia, intendo. La mancanza d'ansia in una situazione del genere potrebbe essere un segno di apatia.»

Quinn annuì, assorta. Attese qualche secondo, mentre sul palco nuovi ballerini si univano alle prove. «Capisco il ragionamento, ma c'è un problema di fondo. L'ansia dà per scontato che si pensi possa esserci un esito sbagliato. Se la nostra anima sceglie il nostro ruolo prima ancora di nascere, e se ogni ruolo ha la sua importanza nella nostra società, allora perché dovremmo temere il risultato, Ferro, Argento o Oro che sia?»

Leean si prese il polso ancora una volta. Restava gelida, tuttavia il sudore le rendeva il palmo appiccicaticcio.

«Perciò lei vede l'ansia come una manifestazione del dubbio sulla nostra società?»

La domanda di Benjamin colpì nel punto giusto. Quinn sollevò una mano in aria, le labbra incurvate verso l'alto. «È uno dei problemi,» ammise. «Sebbene non l'unico. La curiosità sarebbe il giusto sentimento per accogliere la giornata, se vuole la mia opinione.»

«Certo. Se la vede sotto un punto di vista prettamente politico, ha ragione.»

«Non è solo una questione politica. Si tratta del benessere dei cittadini. Devono capire che essere un Ferro non significa valere meno di un Argento o di un Oro.»

«Su questo non discuto, perché sono d'accordo.» Benjamin si massaggiò il mento. «Però penso che sia impossibile non temere un esito ritenuto sbagliato da qualcuno. Magari la famiglia potrebbe restarci male, magari gli amici si allontanano perché ci si interessa a cose differenti. La paura di deludere qualcuno resta sempre.»

Leean batté le palpebre, indecisa se considerare Ben come un mito o come il più grande dei deficienti. Considerato il modo in cui Quinn prese ad aggiustarsi il blazer con dei colpetti secchi e troppo forti, come se si preparasse ad attaccarlo, tendeva per la seconda opzione.

«Ed è proprio questo il problema,» disse Quinn. «Non dovrebbero esserci aspettative da deludere, dovremmo tutti accettare ogni anima così com'è.»

«Certo. Ma questa è pura utopia. Irrealizzabile.»

«Ben.» Leean ne aveva abbastanza; gli tirò la manica e gli intimò di smetterla con un cenno del capo. Sperava solo che lui capisse il significato del suo agitare la nuca in quello che sembrava un assenso esasperato.

In un sospiro, Benjamin allargò le braccia. Un gesto amichevole, una tregua. «Vi prego di scusarmi, vi ho fatto perdere tempo.»

«Affatto.» Quinn riprese la solita tranquillità, per quanto rigida. «È stato un piacere ascoltare le sue opinioni. Ora, se vuole scusarci.» Si esibì in un piccolo inchino. «Hudson? Vieni con me.»

«Il piacere è mio,» rispose Ben. «Ci vediamo dopo, Lee.»

«Non disturbare troppe persone con i tuoi discorsi.» Leean accompagnò il saluto con un gesto della mano e si affrettò dietro Quinn, già intenta a raggiungere il retro del palco.

Oltre i pensatori ancora intenti ad accendere le candele che costeggiavano il palco, un gruppo nutrito di gente in divisa parlottava piano. Anche da lontano spiccavano i sorrisi, gli ammiccamenti, i sussurri. Si conoscevano già tutti, uomini e donne uniti da chissà quanti anni di servizio insieme. Leean e il suo deprimente passato stavano per arrivare a rovinare l'atmosfera.

Non si accorse nemmeno di essersi fermata, non all'inizio. Quando se ne rese conto, i pollici le bruciavano per quanto li aveva grattati; il resto delle mani, invece, gelido.

Quinn la aspettava pochi passi più avanti. La osservava in silenzio, un'altra delle statue regali e immobili che adornavano la stanza. «Avrai il compito di allontanare chi causa fastidi,» le spiegò dopo un'eternità. «Gente che litiga, chi fa troppo rumore, cose del genere. Perciò starai lontana dal palco. È il ruolo più tranquillo che sono riuscita ad assegnarti.»

«Grazie.» Le uscì in un soffio, che si perse nell'enormità della sala.

«Sei una ragazza intelligente, Hudson.» Una confessione, quella di Quinn, che le tolse la capacità di pensare. «Tua zia ha buone intenzioni, ma non capisce quanto la paura del fallimento possa essere vincolante, a volte.»

Lei invece sì?

Per la prima volta da quando la conosceva, Leean la vide sotto una luce diversa. Da ragazzina odiava i suoi modi di fare, odiava come la costringesse sempre a mantenere le buone maniere, come cercasse di convincerla ad abbandonare i suoi cardigan scuri e lunghi in favore di un vestiario più appropriato.

Eppure Quinn si rivelava l'unica in grado di capire il terrore che le imprigionava l'anima.

«Cercherò di fare del mio meglio,» disse Leean.

A Quinn parve bastare. «Lo so. Ora vieni, ti presento gli altri. Ci penseranno loro a darti le armi di servizio.»


Nayana era alla festa. Insieme a Jane. Le individuò entrambe nella folla, due teste mescolate con altre centinaia, e che eppure spiccavano come due fuochi fatui nel buio. Emanavano un'energia particolare, un vortice, capace di attraversare l'intera sala, spazzare via gli altri presenti e colpire Brie esattamente nel centro del vuoto nel petto.

Nemmeno lei avrebbe saputo dire per quanto tempo se ne restò imbambolata a fissarle da lontano. Fra le mani stringeva il piccolo barattolo di vetro; al suo interno, una farfalla dava continue testate contro le pareti che la imprigionavano. Brie abbassò lo sguardo a cercare un qualche segno di pace nei colori tenui delle sue ali impazzite. Qualsiasi cosa che le quietasse l'acido che le corrodeva lo stomaco, ma la farfalla e la sua inutile tenacia nella ricerca della libertà peggiorarono solo la situazione.

Anche Nayana e Jane avevano un barattolo. Uno ciascuno, e le farfalle al loro interno sembravano fissarsi attraverso il vetro. Immobili, entrambe dalle ali bianche.

Brie schioccò la lingua. Presto sarebbe iniziata la festa. La folla iniziava a raggrupparsi davanti al palco ancora vuoto. Nayana e Jane sparirono, inghiottite da una famiglia di persone ben vestite; i due bambini, un maschio e una femmina, tormentavano le farfalle dentro i loro barattoli, mentre i genitori li trascinavano nella calca.

Anche quando se ne furono andati, di Nayana e Jane restava solo un residuo di energia.

Brie si unì al resto della folla con un sospiro. Solo l'anno prima era lei ad accompagnare Nayana. A ridere con lei, a scherzare, a raccontare di quando loro avevano quindici anni e delle strane domande dei Gestori.

Soltanto un anno.

Eppure, il vuoto nel petto sembrava tormentarla da molto più tempo.

Una guardia di sicurezza si aggirava non molto distante da lei, gli occhi incollati sulla folla. Dai capelli lunghi da un lato e rasati dall'altro, appena troppo strizzata nell'uniforme bianca, si grattava di continuo la testa con aria spaesata. Rappresentava una mancanza di efficienza che Brie non si aspettava di trovare nella Festa dell'Ascesa. Dove erano finite le guardie muscolose e dall'aria sicura di sé degli altri anni?

Eppure quella tizia le ricordava qualcosa. Cosa però non lo comprese, così lasciò perdere e si fece largo fra la gente.

Si ritrovò affiancata da una donna poco più bassa di lei. La sconosciuta rivolse un'occhiata stranita al barattolo di Brie. Delle piccole rughe le comparvero attorno agli angoli delle labbra non appena le stirò in un sorriso.

«Ha qualcosa da ridire?» sbottò Brie.

La donna scosse la testa, senza risponderle.

I tamburi batterono due colpi. Attirate dal suono, le teste di tutti i presenti si sollevarono. Sul palco, un uomo picchiò ancora il tamburo con il bastone; le piume bianche che ostentava sulle maniche si agitavano a ogni suo movimento. Traballavano, cullate dal rumore che si diffondeva nella sala, sempre più forte e imponente.

Un pensatore donna si avvicinò al microfono. Bella e solare, si presentò al pubblicò con un sorriso tanto radioso che Brie ne sentì il calore nonostante la distanza. «Benvenuti,» e alzò un braccio per indicare l'intera sala. «Io sono un Guardiano Pensatore, ma pensate a me solo come Ebony. Non mi sono mai piaciuti i titoli altisonanti.»

Perfino la voce ammaliava. Vitale e al contempo rilassante, così l'avrebbe definita Brie. Per un attimo, si dimenticò di Nayana, di Jane e dei tempi che rimpiangeva. Esisteva soltanto Ebony, con il suo abito fatto di veli che parevano nuvole.

Si chiese se il carattere gentile che presentava fosse illusorio o meno. Si chiese come sarebbe stato esserle amica.

«Oggi è il giorno in cui tutti i ragazzi che hanno compiuto i quindici anni di età scoprono il loro ruolo nella società. Oggi tanti giovani hanno trovato loro stessi, nonché il loro futuro. Ma non è finita qui. Questo è un giorno speciale per tutti noi.» Fece una pausa. Si alzò sulle punte, come a cercare qualcuno.

Brie provò a seguire la direzione del suo sguardo. Un terribile errore.

Trovò Nayana e Jane, spalla contro spalla, rapite dalla presenza di Ebony quanto chiunque altro. Una farfalla le agitò le ali nello stomaco; Brie deglutì e si voltò di nuovo.

«Come sapete, oggi è il giorno dell'Ascesa. Sapete, tempo fa, quando Aném era composta solo di pochi palazzi, tanti dimenticavano l'importanza di nutrire la propria anima.» Ebony afferrò l'asta del microfono. «Ricadere nel vortice degli istinti terreni era – è – fin troppo facile. Era così all'epoca e, purtroppo, è così anche adesso. Il risultato erano anime svuotate, persone che non sapevano fare altro che esistere, tra giornate sempre uguali, pensieri superficiali e movimenti meccanici.»

Brie non osò più distaccare gli occhi dalla farfalla nel suo barattolo. Perse il conto dei colpi che diede contro il vetro.

«Allora un Guardiano ebbe un'idea. Scelse un giorno, un solo giorno all'anno, in cui avrebbe regalato la possibilità a tutti i cittadini di fermarsi ad ammirare la bellezza dell'arte. Di staccare dalla quotidianità e dalla superficialità. Il risultato superò ogni aspettativa: sempre più persone si accorsero di quanto magnifico fosse fermarsi a pensare, a riflettere, a sentire

Le udiva quasi, le voci di Nayana e Jane. Ridevano, e Brie non resistette all'impulso: le cercò, ancora, e scoprì che in realtà non emettevano un fiato. Doveva darsi una calmata, o rischiava di diventare paranoica.

«Adesso,» continuò Ebony, «non c'è più bisogno di spronarvi. Certo, i vizi terreni continueranno per sempre a tentarci, ma tutti noi sappiamo qual è l'aspetto più importante della nostra esistenza. Le nostre anime se lo ricordano. Perciò la Festa dell'Ascesa resta come memoria della nostra crescita. Un simbolo dei giorni in cui l'intera Aném ha trovato la sua strada. Un simbolo di quando tutte le nostre anime sono ascese per la prima volta.»

L'applauso esplose senza un preavviso. Nessuno aveva avuto bisogno di incoraggiarne l'inizio con un energico battito delle mani sperduto nella folla, no. Tutti riconobbero la fine del discorso, e tutti acclamavano la figura eterea al centro del palco.

Prima ancora che il fragore si quietasse del tutto, spuntarono le prime farfalle. Volavano verso il cielo, oltre il lucernario aperto, verso la libertà. Tanti colori diversi si unirono a poco a poco, finché una vera e propria nube di farfalle non oscurò il sole.

Brie aprì il barattolo. Quello stupido del suo insetto alato continuò a battere contro il vetro a casaccio, prima di trovare l'apertura. Si allontanò solitaria e sperduta, indietro rispetto alle altre compagne.

I rintocchi del tamburo annunciarono l'inizio della danza. Ebony si era volatilizzata; al suo posto, tre ballerini piroettavano sul palco. Tre uomini dalle tute argentate. I collari dorati che portavano emanavano scintillii di luce accecante. Il più bravo era un ragazzo dalla testa rasata, al centro, mentre gli altri due scimmiottavano i suoi movimenti senza la stessa grazia.

In una circostanza diversa, forse Brie si sarebbe goduta lo spettacolo. Gli anni passati aveva lasciato che l'anima diventasse un tutt'uno con la musica e con la danza. Qualcosa però era diverso, questa volta.

Le giravolte e i movimenti spastici delle braccia degli uomini non significavano nulla. Tolto il simbolo di cui si facevano portatori, restava solo la gestualità ridicola di tre uomini adulti strizzati in abiti simili a carta argentata.

Scoppiò a ridere. Mentre il vuoto dentro di lei si allargava, Brie rideva. Si preoccupò troppo tardi di coprirsi la bocca per zittirsi, ormai tutte le persone attorno a lei la fissavano. Sguardi acidi, oltraggiati, come se avesse appena sputato su un'opera d'arte.

Le loro espressioni ebbero l'effetto contrario di quello sperato, e anziché calmarsi e scusarsi, Brie rise più forte. I polmoni stessi la pregavano di smetterla. Chiedevano aria, ma lei non riusciva a fermarsi.

Non sapeva nemmeno cosa ci fosse di tanto ridicolo, eppure non si controllava.

E il vuoto nel petto le faceva male. Scavava sempre più in profondità, pronto a inghiottirla.

Il naso adunco della donna a fianco, puntato contro di lei, peggiorò la situazione. Brie sarebbe soffocata. Ormai ne era convinta, che sarebbe morta lì, piegata da quelle risate dolorose.

«È un momento sacro, questo, sa?» le disse la sconosciuta.

Brie le afferrò una spalla per tenersi dritta. Prese un paio di boccate d'aria, che le bruciò nei polmoni. «Allora dovresti dirlo a quelli che fanno gestacci sul palco.» E quasi le sputò in faccia, quando la risata le risalì su.

La donna si irrigidì. «Non ci vede davvero niente di speciale, nella danza?»

«Perché, tu sì?»

La verità era che Brie l'aveva visto, un tempo. Quando il vuoto che si portava appresso non le pulsava ogni singolo istante della sua esistenza, lasciarsi trasportare non era stato difficile. L'arte all'epoca possedeva un senso, e scrutare il riflesso della propria anima nella danza sacra era stata un'esperienza catartica.

Cos'era cambiato adesso? Perché il riflesso era scomparso?

«Io li ho sempre trovati ridicoli,» affermò l'altra. Alzò la voce più del necessario.

Entrambe risero. E gli sguardi della gente divennero pesanti. Arrivarono sussurri, ammonimenti e cenni per convincerle a smetterla di rovinare il momento.

«Che maleducazione,» disse un uomo alle loro spalle. «Da dove sono venute queste? Dalla zona profana? Sembrano due deficienti.» Parlava a un amico lì a fianco a lui.

Brie sventolò una mano in aria, per attirare la loro attenzione. «A chi hai detto deficiente?» La domanda le uscì in un urlo troppo forte, più aggressivo di quanto avesse desiderato.

La donna con il naso da condor annuì. «E anche se venissimo dalla zona profana? Cosa credete, di essere superiori?»

Uno dei due fece schioccare la lingua, infastidito, l'altro distolse lo sguardo, come se cercasse qualcuno in mezzo alla folla. Con il braccio sollevato, il secondo tizio fece un cenno. Un invito a raggiungerlo.

Brie agitò il polso. I bracciali tintinnarono fra loro.

Qualcuno le diede un buffetto sulla schiena, prima che lei potesse rispondere. Così si voltò per incontrare lo sguardo ambrato di una guardia di sicurezza. Il mento stretto e i capelli rasati da un lato, adesso che se li trovava così vicini, le suonarono una campanella nella testa: quella era la stessa donna senza soldi del supermercato.

«Vi domando scusa,» disse, «ma state disturbando l'evento, perciò devo chiedervi di venire con me.»

Brie si asciugò l'angolo dell'occhio, dove una lacrima aspettava il coraggio di buttarsi. «Ci facevamo solo una risata. Sono questi qui che hanno cominciato a insultarci.» Indicò i due uomini in questione.

L'altra esitò. Premette le labbra una contro l'altra, gli occhi rivolti al tappeto azzurro sotto i propri piedi. «State disturbando le persone che vogliono godersi la festa.»

«Ha ragione, ci scusi.» La sconosciuta dal naso da condor si frappose fra le due.

«Andiamo, non mi sono mica messa a lanciare pomodori contro i ballerini,» sbottò Brie.

La guardia scrollò le spalle. Se ne stava troppo ripiegata su se stessa, come se reggesse il peso di chissà quale verità e non riuscisse più a sopportarlo. Davvero poco efficiente, affidare quel lavoro a una tipa del genere.

«Seguo solo le regole, mi dispiace.» La prese per il braccio e la condusse lontana dalla folla. Naso da condor le seguiva in silenzio.

Non passarono vicine a Nayana. Per quanto stirasse il collo, a cercare l'espressione della sua vecchia amica, Brie non trovò altro che facce sconosciute che la giudicavano.


Spazio autrice:

Il piano era di dividere il capitolo in due, ma il primo pezzo da solo non si reggeva molto, perciò ho preferito accorparli. Il risultato è un po' lunghetto, ma visto che ci ho messo un'eternità ad aggiornare, almeno mi sono riscattata xD

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