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35

     Brie arrivò con il fiato corto, sballottandosi appresso il fucile e quei pochi proiettili che restavano – se ne restavano. Aveva percorso le scale con la massima velocità. Era inciampata un paio di volte, e l'arma le era sfuggita dalle mani. Poco male. L'aveva raccattata e ripreso l'avanzata.

Lì, trovò ad aspettarla solo un campo di battaglia vuoto. I Guardiani la fissarono, dall'altro lato del tetto. I Divora Anima identici a Echo dormivano, inginocchiati, spenti. I droni riprendevano delle macchie di sangue sparse a terra.

La bile le risalì lungo la gola. Brie deglutì istericamente per rimandarla giù. Le restò il sapore acidulo e disgustoso nel palato.

Dov'era Celes? Dov'era Leean?

La risposta gliela diede una dei Guardiani, dalla pelle scura e gli occhi sgranati: alzò il mento a indicarle il bordo del tetto. «Sono cadute,» disse. Non era imbavagliata, come gli altri. Tuttavia, le manette a mani e piedi impedivano loro di scappare.

Brie non comprese, non all'inizio. La osservò soltanto, il capo inclinato da un lato. Nello stomaco le si aprì una voragine, grande e immensa, pronta a espandersi fino a inghiottirla dall'interno. Eppure, il cervello non processava l'informazione, non voleva.

Erano cadute.

Erano cadute.

Entrambe.

I piedi le si mossero da soli. La condussero sul bordo, dove il pavimento terminava e il cielo si stagliava in tutta la sua vastità; un cielo terso, allegro, che si faceva beffa delle loro lotte mortali e stupide. Odiò ogni cosa. Odiò perfino quell'unica nuvola che, soffice, passava sopra di lei.

Il cuore le martellava nel petto. Voleva uscire, fracassarle la gabbia toracica e riversarsi fuori.

Poi Brie abbassò la testa. Scrutò giù, verso un terreno troppo lontano.

E la vide lì. Leean. Appesa alla ringhiera delle scale antincendio. Dondolava le gambe nel tentativo di issarsi su.

Brie rimase immobilizzata per alcuni istanti di troppo. Temeva che l'altra si vaporizzasse nel nulla da un momento all'altro, rivelandosi per l'allucinazione che era, nient'altro che la sua mente che non ce la faceva, a sopportare l'idea che fosse finita così. Invece Leean continuò a lottare per risalire. Vera. Reale. Ammaccata ma viva.

Brie indietreggiò dal bordo. «Presto arriveranno gli altri a liberarvi,» disse ai Guardiani.

Rientrò dalla porta, si precipitò giù dalle scale. Nella sala, Monia e Benjamin si erano risvegliati: lei calciava i resti di Echo, per assicurarsi che fosse andata; lui si massaggiava la testa, ancora frastornato. Si voltarono nella sua direzione non appena si resero conto della sua presenza.

Brie però continuò ad avanzare. «Sopra ci sono i Guardiani, portateli al sicuro.»

«Aspetta! Tu dove vai?» le chiese Benjamin.

Lei si arrestò soltanto un momento. «A salvare quell'imbecille.» Poi corse via.

Se Leean era viva, lo doveva a un qualche miracolo. Perché non sapeva nemmeno come fosse possibile: il secondo prima precipitava a testa in giù verso il vuoto, quello dopo eccola, aggrappata alla ringhiera delle scale antincendio.

Il vento le sferzava il volto. La contrastava mentre cercava di issarsi su.

Pesava troppo. Avrebbe dovuto continuare la dieta della zia. Maledizione a lei e alla sua fissa per i cibi grassi.

Un colpo di tosse la scosse. Le sbarre di ferro della ringhiera le scivolavano fra le dita. Strinse con più forza e continuò a tirare verso l'alto. Con il petto sfiorò le sbarre. C'era quasi. Doveva solo arrampicarsi un po' di più.

Solo un po'.

Poi ci fu un tonfo. Le scale tremarono, le travi di ferro che le tenevano attaccate all'edificio lanciarono un lamento. Leean imprecò.

Celes atterrò a poca distanza da lei. Le restava un solo braccio, con cui si teneva alla ringhiera, da cui era appena risalita; dall'altra spalla, un intrico di fili spezzati spruzzava scintille. Si guardava attorno con aria spaesata, come se non sapesse nemmeno più dove si trovasse.

«Scherziamo,» borbottò Leean. «Merda, mi prendete in giro. Merda.» Superò la cima della ringhiera con la testa. I muscoli delle braccia le mandavano urla di dolore, le tiravano; si rilassarono un poco, quando poté aiutarsi anche con le gambe.

Cadde di schiena sulle scale, ansimante. Celes si accorse della sua presenza. La scrutò dall'alto, e le labbra si ridussero a una fessura. La afferrò per il bavero della maglia, per poi scagliarla contro la finestra. I vetri si ruppero in un clangore assordante; Leean strinse i denti, le braccia protese a ripararsi il viso. Sentì la sensazione di bagnato sugli avambracci come prima cosa. Come seconda, il pavimento sotto di sé, duro e liscio, ci scivolò sopra a causa del sangue che le imbrattava le mani.

Celes si calò nella finestra ormai in frantumi. Piombò nella stanza, avvolta da quadri appesi su delle pareti che si diramavano in tanti piccoli sentieri labirintici.

Leean trattenne il respiro. Conosceva quel fottuto posto. Alla fine, si tornava sempre lì.

«Nuovo inizio un cazzo,» mormorò fra sé e sé. Le tempie le martellavano ai lati della nuca, la comprimevano. Si sentiva la testa schiacciata fra le pareti. Fece forza sulle mani e tentò di alzarsi. Il sangue la fece scivolare, e urtò il mento contro le mattonelle.

La seconda volta fu quella buona. Barcollando, si tirò su.

Celes la osservava in silenzio. La sua calma placida, per quanto oscura, era sparita. Il gelo che l'avvolgeva si stava scaldando. Le stalattiti che la circondavano si scioglievano, solo per mostrare gli aculei acuminati al di sotto.

«Salvarmi da cosa, Lee?» Gli aculei si attorcigliavano alla sua voce. «Sei tu quella che si ostina a rimanere incatenata.» Con l'unico braccio che le rimaneva, le sferrò un manrovescio sulla tempia.

Leean sbatté contro il muro. Il quadro accanto a lei sobbalzò, si sfilò dal chiodo e cadde a faccia in giù.

Andava male. Malissimo. Senza armi non poteva sperare di affrontarla. Così si guardò attorno, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa, da usare per difendersi. Ma lì non c'era nulla, e Celes si avvicinava.

Raccolse il quadro caduto. Lo sollevò a mo' di scudo; la mano robotica lo trapassò, le dita si agitarono a un centimetro dal naso di Leean. Poi si ritirò, e lei le lanciò il quadro addosso. Non attese di vedere Celes liberarsene, si precipitò fra le strade labirintiche.

Il piede le mandava fitte costanti. Forse si era slogata una caviglia, forse aveva solo preso una storta. Non importava. Non poteva fermarsi.

Celes la seguiva a grandi falcate. Lacerava i quadri al suo passaggio.

Leean raggiunse la sala principale. L'Uomo Infinito – ormai diventato l'Uomo Finito – l'aspettava al solito posto, con la sua unica ala. Lanciò una veloce occhiata dietro di sé e si diresse lì. Lo afferrò, lo sollevò sulla nuca.

Celes si arrestò, un sopracciglio sollevato e un vago sorriso divertito sulle labbra. «Cosa credi di fare con quello?»

«Erin aveva ragione, sai?» le urlò invece Leean. Perché se non poteva affrontarla con armi decenti, almeno poteva provare a far leva sul tasto giusto. «Aveva ragione, su ogni cosa. Ma guardati ora. Tu l'hai tradita. Non l'hai solo incatenata, l'hai rinchiusa in una prigione senza finestre e hai buttato via la chiave.»

Celes mosse un passo di lato, cauta. «Senza offesa, Lee,» cominciò. «Una mente piccola come la tua non può capire...»

«Eppure lo pensi anche tu, no?» la interruppe. Premeva i polpastrelli contro il busto dell'Uomo Finito. Lo imbrattava di sangue. «L'hai detto tu, che vuoi liberarti. O sbaglio?»

Questa volta, Celes scattò. Leean se la ritrovò a un palmo dal naso in meno di un secondo. Le dita, calde, bollenti come non mai, le si serrarono attorno al collo. Leean abbassò la statua che reggeva fra le mani con tutta la propria forza; la mandò in frantumi. Un pezzo le schizzò lungo il sopracciglio, le aprì una ferita e un rivolo di sangue le entrò nell'occhio.

Celes la lasciò andare. Il sollievo però durò poco, perché la spinse in avanti con un calcio. Leean batté il sedere contro il pavimento. Una fila di piccoli martelli che colpivano senza sosta le risalì lungo la spina dorsale.

«Non posso!» Celes urlava. Era la prima volta che la sentiva urlare. Fu come se il tempo stesso si increspasse. Come se il suono stesso creasse una bolla che le esplose in faccia. «Devo salvare la città, devo liberarvi tutti. Non posso ancora andarmene, non lo capisci?» Levò un piede. Voleva sfondarle lo sterno. Ucciderla, una volta per tutte.

Leean lo sentì, il suo intento omicida. Le tagliava la pelle come una lama. Serrò le palpebre, in attesa.

Almeno spero non faccia troppo male, pregò.

Un colpo di fucile esplose fra le pareti.

Leean spalancò gli occhi: il piede di Celes giaceva a terra, separato dal resto del corpo; lei invece rimaneva con la gamba sollevata, il collo girato su se stesso. Leean seguì la direzione del suo sguardo.

Brie, con il fucile spianato. Era stata lei a sparare. «Quanti Divora Anima devo far saltare, oggi? Comincio a prenderci gusto.» Non era vero. Tremava, e le gambe la condussero indietro di alcuni passi.

Celes saltò per raggiungerla. Leean si risollevò e caricò verso di lei a testa bassa. Le bastò schiantarsi con la spalla contro il suo corpo metallico per farla cadere su un fianco. Adesso toccava a lei osservarla dall'alto.

«Sei tu non a capire,» le rispose. «Ti sei talmente fissata con i tuoi ideali da esserti imprigionata da sola. Hai distrutto tutto quello in cui Erin credeva e sei diventata come loro. Sei diventata tutto quello che lei ha combattuto. La verità è che non ti importa più niente di liberare la città. Celes, tu ormai vuoi liberare solo te stessa.»

Brie le si affiancò. Aveva il respiro pesante, affannato. Il calore che emanava, però, contrastava quello di Celes. Leean mise una mano sulla canna del fucile per convincerla ad abbassarlo.

Celes si trascinò distante. Non rideva più. Fissava nel vuoto. «Cosa sono diventata?» mormorò. «Volevo... volevo solo trovare me stessa. Invece, guardami, ho finito per perdermi.» Cercò nel palmo della mano che le restava il senso di ogni cosa. Cercò nella finta pelle azzurrina un motivo, forse, una spiegazione.

La osservò, come se non la riconoscesse nemmeno, come se vedesse per la prima volta quel suo corpo sintetico.

Gli aculei che la circondavano si sgretolarono uno dopo l'altro. Il fuoco che la bruciava si acquietò; tornò il freddo, un paio di secondi, e le due forze si contrastarono finché Leean non percepì altro che un tepore tranquillo e seppe, con assoluta certezza, che quella davanti a lei era Erin.

Non Celes, la creatura forgiata da un'infinità di anime riunite in un unico corpo. Solo Erin, la ragazza che cercava il proprio posto in un mondo che non le apparteneva.

«Volevo salvare la città, e invece... cosa sto facendo?»

«L'hai salvata,» le disse Leean. L'altra sollevò lo sguardo, luminoso, terrorizzato, perso. «Hai aperto gli occhi di tutti noi. Ci hai insegnato che siamo molto più che metallo.»

«Davvero?»

Il cuore le mandò una fitta al petto. Leean sforzò un sorriso. «Davvero. Adesso te lo meriti, un po' di riposo.»

Celes – no, Erin – rispose al suo sorriso. I lineamenti perfetti e simmetrici si alleggerirono, sembrarono liquefarsi. Non era mai stata tanto splendida. «Liberami, Lee. Ti prego.»

Brie le passò il fucile. Leean la ringraziò con un cenno, poi si avvicinò a Erin. Tenne l'arma stretta a sé. Il sudore e il sangue le rendevano la presa scivolosa. La lingua le si era appiccicata al palato.

«Credi davvero che questo sarà un nuovo inizio?» le chiese Erin. La sua espressione si era rilassata, il sorriso dileguato. «Credi che potrò ricominciare ancora? O svanirò per sempre?»

«Non lo so. Tu cosa speri?»

Si prese un attimo per riflettere. Inclinò la testa, rivolse una strana occhiata in direzione di Brie. Le sorrise appena. «L'oblio,» ammise. Leean strinse con più forza il manico. «Tutto deve avere una fine, dopotutto.»

Aveva ragione. Leean lo sapeva, così come sapeva che Erin se la meritava, una fine. Eppure un groppo le ostruiva la gola, le impediva quasi di respirare.

Erin si puntellò sull'unico gomito che le rimaneva. Sollevò il busto. E attese. Attese la sua liberazione. Attese di perdere tutto, adesso che finalmente si era ritrovata. «Grazie.»

Leean sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Per chi, non lo sapeva? Per Erin? Per Celes? Per sua zia o per tutte le anime che la città aveva dovuto sacrificare, solo per capire che fosse il momento di cambiare?

Puntò il fucile e chiuse le palpebre. Le chiuse perché non voleva guardare. E poi sparò.

Il corpo di Celes non possedeva più una testa. Non emetteva alcun tipo di energia, né calore né freddo, niente di niente. Aspettava lì, disteso sotto gli sguardi incuriositi delle opere d'arte che un tempo aveva ammirato e di cui aveva cercato il significato. I fili che le uscivano dal collo, dal braccio e dalla gamba puzzavano di plastica bruciata.

Leean appoggiò la testa sulla spalla di Brie. Il pavimento era così duro che le provocava ondate di dolore, ma era pur sempre meglio che stare in piedi. I muscoli si rifiutavano di collaborare ancora. Senza l'adrenalina del momento, restavano solo la stanchezza e il pulsare delle ferite e dei lividi.

I capelli di Brie le solleticavano la punta del naso. Sapevano di bruciato e di sudore, eppure le sembrò l'odore più buono del mondo. Era odore di vittoria. Era l'odore di una vita che non si era spenta.

«Credi che siano liberi, ora?» chiese Leean. «Le anime che hanno divorato, intendo. Credi che torneranno o sono sparite per sempre?»

Brie fece ticchettare le unghie. «Non ne ho idea. Ma poi, tu l'hai capito, cos'è l'anima?»

Questa domanda la colse alla sprovvista. Erin, Celes, zia Ebony e tutti quanti avevano passato tanto di quel tempo a cercare di comprendere quale fosse il ruolo dell'anima, da non essersi preoccupati di chiedersi cosa fosse per davvero.

Si passò la lingua fra le labbra. Era piena di feritine. «No. Non lo so. I nostri desideri, credo. I nostri sentimenti. Secondo te?»

«Non l'ho mai capito. Tutti lo danno per scontato, però non lo so. Un'essenza di ciò che siamo. Una cosa che esiste, che fa parte di noi. La nostra energia, il nostro carburante.»

Leean annuì soltanto, perché non sapeva come rispondere. Forse una risposta esaustiva non esisteva nemmeno. Forse un cervello umano non possedeva la facoltà di comprenderla fino in fondo, la risposta. «Gli altri come stanno?» chiese allora.

«Ammaccati, ma bene.»

Nessuna delle due diede cenno di volersi alzare. Sostarono così, l'una accanto all'altra, a godersi la sensazione di pace.

La folla aveva osservato tutta la scena o, almeno, tutta la scena in cui gli altri liberavano i Guardiani. I droni ronzavano ancora nel cielo, infatti, e Leean li occhieggiò salendo sul tetto.

La nuova generazione di Divora Anima non si sarebbe mai svegliata. I resti di quelli che aspettavano in ginocchio il loro momento bruciavano in una pira. Il fumo si levava al cielo, si attorcigliava su se stesso. Ormai non esistevano più né Divora Anima né Gestori.

Con la loro fine, s'innalzava l'alba di un nuovo inizio.

Sostenuta dal peso di Brie, Leean avanzò su quello che, poco prima, era stato il suo campo di battaglia. Benjamin fu il primo a notarle. Andò da loro, premendosi le dita contro la fronte. «Lee! Brie! State bene.»

«Siamo vive,» rispose Leean. Le uscì in un sospiro.

Loro erano ancora vive. Erin no. Anche se, forse, era giusto così, il pensiero del suo ultimo sorriso le scombussolava lo stomaco.

Quinn arrivò poco dopo, quando Benjamin si allontanò per scambiare qualche parola con Duke. Aveva ancora i rimasugli di chissà quali colpi ricevuti. Le ricordò le ferite di Ebony, quelle che le coprivano il volto l'ultimo giorno; le lacrime le offuscarono la vista, e Leean se le asciugò con la manica. Brie le si strinse un po' di più.

Nonostante tutto, Quinn manteneva il suo aspetto rigido e composto. La schiena restava dritta, lo sguardo serio. «Hudson,» esordì.

Leean trasalì. «Sì?»

«Grazie per quello che hai fatto. Tua zia aveva ragione, su di te.»

No. Zia Ebony si sbagliava su un sacco di cose. Perfino lei l'aveva capito, alla fine.

Leean sorrise appena. «Grazie.»

Quinn annuì e la discussione terminò lì. Portò le mani dietro la schiena. «La città ormai è cambiata. Dopo tutto quello che è successo, non accetterebbero mai dei nuovi Gestori. Dovremo fondare una nuova società, immagino.»

«Magari una che non pretenda di dirci chi siamo,» disse Brie. Leean gliene fu grata. Lei non possedeva più le forze per portare avanti quella conversazione, specie non con Quinn.

«No, infatti.» Fece una smorfia contrariata. «Spero solo che la città non vada nel caos più totale.»

«Se create delle regole meno stronze, non avrete più bisogno di sbarazzarvi di ogni persona che vi dà fastidio.»

Leean osò ridere. La pancia le esplose in un dolore lancinante, ma non riuscì a smettere. Continuò a ridere e ridere, finché la risata non divenne un accesso di tosse.

Brie aggiustò il braccio con cui la sorreggeva. «Che hai fatto? Ti è venuto un attacco di isteria? È un po' tardi per impazzire, aveva più senso farlo prima.»

«No,» disse Leean. Le lacrime le sostavano agli angoli degli occhi. «È solo che il mondo è davvero cambiato.»

Perfino Quinn si lasciò andare a un sorriso. «Hudson, volevo farti una proposta. So che non credi più di essere una Argento, so che non esisteranno più, ma mi piacerebbe se decidessi di diventare una guardia ufficiale, qui ai piani alti. Sempre ammesso che ci saranno ancora, dei piani alti.»

Leean però scosse il capo. Non ebbe bisogno di pensarci. «Ti ringrazio, davvero, però non posso. Non è il mio posto.»

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