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34

     Il pavimento del soffitto, un tempo, era fatto di vetro. Adesso invece Celes si ergeva sopra le piastrelle, il suo azzurro l'unico tocco di colore acceso in un quadro altrimenti rimasto bianco, abbozzato quasi. Lei creava eleganza. Un'eleganza fredda, distante e distruttiva.

I droni dotati di telecamere la riprendevano dall'alto. Ronzavano come mosche, fastidiosi, e si spostavano da Celes ai Divora Anima ancora addormentati, soffermandosi di tanto in tanto sui volti disperati di Quinn e gli altri Guardiani – due uomini e un'altra donna, di cui tuttavia non ricordava il nome.

Leean arrivò sul finale del discorso. Celes agitava un braccio nell'aria, disegnava cerchi concentrici mentre pronunciava le ultime parole. Le conosceva fin troppo bene. «Liberiamo la macchina.»

Poi Celes le rivolse la propria attenzione. Fra tutti, era una dei pochi Divora Anima con delle labbra; le distese in un sorriso bizzarro, misterioso, a metà fra il compiaciuto e il seccato. «Cosa ci fai qui?»

Oltre le sue spalle, Quinn boccheggiava, gli occhi sgranati. Una macchia rossa sbiadita le attraversava la fronte, si perdeva nel sopracciglio. Inginocchiata e legata, aspettava la sua fine accanto ai suoi colleghi.

Leean strinse il fucile al petto. Si beò del ferro tiepido, che lei stessa aveva scaldato con il suo stesso sudore, percorrendo le scale a due a due. «Secondo te?» chiese soltanto, perché la verità era che la risposta, adesso che aveva Celes di fronte, le suonava fin troppo stupida.

L'altra sollevò il mento. «Vuoi davvero rischiare la tua vita per fermarmi? Perché? Ci tieni davvero così tanto a restare imprigionata? A lasciare tutti imprigionati?»

Leean si passò la lingua fra le labbra secche. «Ci stai solo facendo cambiare gabbia.»

«Affascinante.» Celes allungò le dita di fronte a sé. Le chiuse, afferrò la brezza dolce del vento. «Quindi è per questo che mi hai tradita? Non credi nella mia concezione di libertà?»

«No.» Scosse la testa, la abbassò.

Non doveva farsi manipolare dalle sue parole. Brie gliel'aveva detto, di stare attenta. Indossa dei tappi, se ti serve, ma vai e riempila e di piombo. Aveva ragione. Avrebbe dovuto davvero mettersi dei tappi alle orecchie. Forse a quel punto, il suono del tamburo che le rimbombava nella testa sarebbe stato l'unico rumore, per lei. La sua colonna sonora.

Celes avanzava. Piano. Sorridente. Credeva di aver già vinto.

Leean combatté l'istinto di indietreggiare. Di correre via. Lo affrontò costringendo il piede a sollevarsi dal terreno e spingersi poco più avanti. «Sai cos'è la morte, Celes?» le chiese allora. La vide bloccarsi, inclinare il capo come un cagnolino perplesso, e una scintilla dolorosa le guizzò nello stomaco.

«Un nuovo inizio,» rispose Celes.

Leean stirò le labbra in un sorriso forzato. «Non credi sia venuto il momento anche per te di ricominciare?»

«Ridicolo.» Disse così, eppure Celes esitò un qualche attimo di troppo. Soppesò la verità dell'affermazione. Leean glielo leggeva nelle nubi che le oscuravano gli occhi, il dubbio.

Magari Celes avrebbe capito, pensò. Magari ci avrebbero ragionato su e, fra una frase filosoficamente profonda e una stronzata buttata lì tanto per dire qualcosa, avrebbero trovato un accordo. Una soluzione migliore, senza il bisogno di scontrarsi.

La sua però non era nemmeno una speranza, quanto più un sogno a occhi aperti.

Un sogno che si dissolse in una scia di vapore che il vento portò via con sé; Celes l'attraversò a testa bassa, lo distrusse con il suo corpo fatto di metallo. Leean le sparò un paio di proiettili, ma lei si spostava da una parte all'altra, in una danza folle e selvaggia. Non la colpì.

Il suo freddo la avvisò della vicinanza. Poi arrivarono le dita a chiudersi sopra la sua bocca.

Leean non tentò di divincolarsi. Affrontò il gelo. Affrontò le stalattiti che le crescevano nella bocca dello stomaco. E si buttò in avanti, premendole il fucile contro l'articolazione.

Non si aspettava funzionasse, non contro un robot, eppure il braccio di Celes si piegò. Le dita scivolarono via dal suo volto. Ma, prima che Leean potesse fare la prossima mossa, un piede le si conficcò nella pancia. Il freddo le ghiacciò i muscoli. Urtò la schiena contro il pavimento, e si disintegrò in mille pezzi.

Lanciò un urlo. Mantenne la presa sul fucile.

Il cielo sopra di lei divenne sfocato per una manciata di secondi. Le nuvole si sdoppiarono e si riunirono. Ogni singola parte di lei gridava: i tendini, troppo tesi; le dita, che premevano sul ferro del fucile fino a farsi male; la colonna vertebrale, che sentiva un unico blocco di ghiaccio pieno di crepe.

Eppure, i muscoli non si bloccarono. Chiese al braccio di muoversi, e quello la ripulì dal rivolo di sangue che le gocciolava dalla bocca. Chiese alle gambe di sostenerla, e quelle spinsero contro il pavimento.

Così si rialzò in piedi.

«Liberarmi?» gracchiò Echo. «Ma non farmi ridere! Non sei capace di fare qualcosa per qualcuno che non sia te stessa.»

Brie spostò lo sguardo da lei ai compagni. Fatta eccezione per Wyatt, che cercava di proteggere una Zoey priva di sensi, erano tutti incoscienti. Doveva trovare un modo per contrastarla da sola, e alla svelta.

La punta del fucile tremava. I muscoli del braccio le tiravano per lo sforzo di tenerlo fermo. L'esplosivo invece era ancora caldo nell'altra mano.

«È facile, per te, giudicarmi.» Accompagnò il discorso con un sorriso obliquo, ferito. «Dopotutto eri una psicologa, no? Sapevi benissimo cosa mi passava per la mente, sapevi benissimo in che stato di disperazione ero.»

Echo spostava il peso da un piede all'altro, muovendosi in cerchio attorno a lei. Ricordava la grazia della danza di Wyatt e, allo stesso tempo, la pazienza di un predatore. «Non ti conoscevo, ma sapevo abbastanza cose di te per farmi un'idea precisa.»

Un'ammissione. Ottimo.

Brie seguiva i suoi spostamenti con il fucile. «E hai pensato bene di venire da me e rinfacciarmi tutti i miei difetti, tutte le mie colpe. Sapevi in che stato ero, no? Mi sbaglio, o il tuo comportamento è stato tutto fuorché etico? Umanamente etico, intendo.»

Non ottenne una risposta questa volta. Echo rallentò i movimenti.

«Ero fragile, e lo sapevi. Hai deciso di sfruttare le tue conoscenze per spezzarmi. Dimmi quello che vuoi, ma io non ci vedo tutta questa differenza, fra me e te.»

«Io...» si bloccò. Arrestò la sua danza predatoria. Strinse i pugni, un riflesso di un comportamento umano. «Jane,» si corresse, «voleva solo proteggere un'amica.»

«Distruggendo me,» insistette Brie.

A quel punto, chiuse gli occhi, in attesa che l'altra la attaccasse. Che la sollevasse da terra e la scagliasse contro il muro, come aveva fatto con gli altri. Che divorasse ciò che rimaneva della sua anima e la cancellasse dall'esistenza.

Invece non accadde nulla di tutto ciò.

Riaprì le palpebre, piano, con timore. Davanti a lei, Echo chinò la testa. I fasci di luce al posto degli occhi emettevano un bagliore blu intenso. Creavano affascinanti giochi di ombre e luci sul pavimento.

«Non credevo,» mormorò. «Credevo... una parte di me si era convinta che non avevi nemmeno dei veri sentimenti.»

Brie abbassò il fucile, di poco. Abbastanza per riposare il braccio. Le formicolava. «Lo credono sempre in tanti.» Non voleva ammetterlo. Non voleva far trapelare quella verità, eppure non riuscì a fermarsi. Se la teneva dentro da quanto? Troppo.

Alla fine era uscita, bruciandole la trachea con la stessa forza dell'anima che Celes le aveva risucchiato.

«Ti comportavi come se non ce li avessi.»

«La solitudine ti fa fare le cose peggiori,» rispose soltanto lei. Ancora le si attorcigliava attorno al cuore, la spirale di vuoto. Era lì, forse ci sarebbe sempre stata. Aveva smesso di farle male però. Aveva smesso di ottenebrarle i pensieri.

Echo scosse la testa. «Non è la solitudine. Eri te stessa che dovevi trovare...»

«Dimmi una cosa,» la interruppe, e l'altra le diede ascolto.

All'improvviso erano di nuovo nella sua stanza di meditazione, una di fronte all'altra. Echo era Jane. E Brie sentiva l'odore delle candele e dello stoppino bruciato.

«È davvero così sbagliato, volere qualcuno capace di vedermi? Qualcuno con cui parlare, scherzare e passare il tempo?» Brie lasciò cadere l'arma lungo il fianco.

«A essere sbagliato era il modo. Per trovare gli altri, devi prima trovare te stessa.»

«E se per una volta la smettessimo, di darci sempre la colpa di tutto?» Brie ormai urlava. Un fuoco le accalorava le guance. «E se per una volta ammettessimo che certe volte la solitudine finisce per farti rinchiudere ancora di più nella tua cazzo di bolla fatta di merda? Se non mi avessi dato la colpa, se avessi cercato di avvicinarti, di darmi una mano a capire, forse mi avresti salvata anziché farmi esplodere, ci avevi mai pensato?»

Il piede di Echo tastò il pavimento dietro di sé. La trascinò un poco più lontana, mentre lei le puntava addosso i suoi fasci di luce tornati arancioni. Un arancione scuro, sporco. Arrabbiato. Brie lo scoprì in quel momento, dal modo in cui le ginocchia le si piegarono, pronte a scattare all'attacco, che la risposta era no: non ci aveva mai pensato.

«Non osare darmi la colpa, sei tu la psicopatica.»

A questo, Brie sollevò il sopracciglio. Una risata le risalì lungo la gola, le scoppiò sulle labbra. «Mi prendi in giro? Tu non sei diversa da me. Hai visto cosa ti è successo, non appena ti sei persa nella tua stessa solitudine? Hai visto cosa sei diventata, pur di trovare qualcuno che ti capisse?»

«Non sono uguale a te!» Un ruggito, quello di Echo, metallico, che si sollevò in un'onda piena di furore e si scagliò contro le pareti. Le fece fremere.

«Sì che lo sei. Ti ho resa io così. Io ho chiesto di farti provare il mio stesso dolore!»

Colpì nel segno.

Echo le afferrò la gola. Strinse con tanta di quella forza che Brie perse la capacità di pensare. La visuale le si riempì di macchie bianche. Macchie piccole e grandi, che fluttuavano davanti al volto privo di lineamenti di Echo. Poi inghiottirono del tutto la sua figura.

«La tua anima mi disgusta,» le sussurrò.

Brie azzardò un sorriso. Nonostante la situazione. Sorrise. Non mangiarmi, allora, pensò. Non le serviva di certo, l'approvazione di una come lei.

Echo la agguantò anche con l'altra mano. «Muori e basta.»

Gli occhi le si seccarono. Li sentiva premere nel tentativo di schizzarle fuori dalle orbite. Le energie la lasciavano, le fluivano sulle dita e si dileguavano in una scia di fumo.

Quello era il momento.

Brie incanalò le poche forze che le restavano nel braccio. Lo sollevò, fino a incastrare l'esplosivo sul petto di Echo; lei non si accorse di nulla, continuava a pressarle la gola, accecata dalla furia omicida.

Allora Brie sparò un singolo colpo, contro il terreno. Il rumore lo udì appena, era troppo lontano, in un mondo che scivolava sempre più via.

Il fucile pesava. Alzarlo, puntarlo: tutte azioni che il corpo si rifiutò di compiere. Così sparò ancora a terra. E ancora. E ancora.

Finché Echo non si riscosse. Spalancò le dita, la lasciò ruzzolare. Afferrò l'ordigno che teneva attaccato al petto. Indietreggiò nel tentativo di strapparselo.

Troppo tardi.

Esplose. Una luce immensa rischiarò l'intera stanza. Brie tossì nel silenzio assordante del fischio nelle proprie orecchie. Delle scintille piovvero sul tappeto, lo infuocarono per un secondo; durò poco, poi le scintille persero energia e si spensero. Tutto ciò che rimase fu la puzza di bruciato.

La testa di Echo rotolò sulle macchie nere. Il resto del corpo era ridotto a pezzi, una carcassa di metallo cocente e bulloni saltati. Un braccio si era staccato, disfatto in un miscuglio di filamenti sfilacciati.

Quando anche l'ultimo bagliore delle scintille si estinse, rimase solo il silenzio. Quieto, malinconico, tetro silenzio.

Brie poggiò entrambi i palmi sul tappeto – era morbido. Tossì ancora, tossì fino a farsi uscire le lacrime.

Due fasci di luce azzurra le inondarono il viso. Socchiuse gli occhi e ne cercò la fonte: la testa di Echo. Ancora funzionava. Gattonò per avvicinarsi.

«Sono davvero... come te,» disse Echo. La cadenza, la pausa fra una parola e l'altra, ogni cosa le ricordò Jane.

Brie scosse la testa. «Mi dispiace. Avevi ragione tu, sono fin troppo brava a manipolare gli altri.»

L'altra non rispose subito. I fasci di luce sfarfallarono. «Tu... Mi hai manipolata... per farmi arrabbiare?» Brie annuì. «Perciò... quello che è successo non è... colpa mia?»

«Mi prendo piena responsabilità delle stronzata che ho fatto. Ti chiedo scusa, Jane. Ebony. Echo.»

La fessura che aveva al posto della bocca si allargò. Il risultato fu un foro oblungo e inquietante. Un sorriso. «Scusami tu...» Gli occhi le si spensero per sempre.

Echo non esisteva più. Jane era davvero libera.

Celes la teneva per i capelli. La trascinò in giro. Le ginocchia le strusciarono sul pavimento, il dolore le si espanse lungo tutte le gambe, la fece fremere. Nonostante tutto, Leean rimase aggrappata al fucile.

Poi Celes la lasciò andare. Leean sbatté il naso e si morse la lingua. Il sapore di sangue le inondò il palato. Ne sputò dei grumi e osservò le macchie: imperfette, dei piccoli ovali storti.

«Ti ostini a inseguire un ruolo che non ti appartiene.» Celes la sovrastava. I suoi piedi nudi le riempivano la visuale. «Un ruolo che nemmeno esiste. Perché? Cosa speri di ottenerci?»

Leean issò il proprio peso sulle braccia. I muscoli erano scossi da spasmi incontrollati. «Non mi ostino a fare proprio niente.» Piano, si rialzò, incurante dello sguardo sprezzante dell'altra. Sollevò la canna del fucile, pronta a sparare.

Celes ne afferrò la punta e la spinse in avanti; Leean si ritrovò con il manico della sua stessa arma conficcato nella faccia. Sentì il rumore delle ossa del naso che si incrinavano. Immaginò una crepa saettare lungo la sua superficie.

Altro sangue le si infiltrò fra le labbra. Non stava andando un granché. Lo sapeva, che avrebbero fatto meglio a mandare Monia, al suo posto. Lo sapeva, eppure Brie aveva insistito: il piano prevedeva che fosse proprio Leean a battersi per salvare Quinn e gli altri Guardiani.

Se esisteva qualcuno che poteva riuscire a fermare Celes, quella era lei. O almeno, così affermava Brie. Il perché, lei non lo capiva. E mentre Celes la prendeva a calci, spedendola pericolosamente vicina al bordo del tetto, il motivo diventava sempre più oscuro.

Celes le fu di nuovo addosso. Leean si aggrappò al suo braccio mentre quella la spingeva oltre il bordo.

Si ritrovò ad agitare i piedi nell'aria. Sotto di lei, il terreno era tanto lontano che non lo vedeva nemmeno. Soltanto la stretta di Celes la teneva in equilibrio. Celes, che per tenerla così vicina al bordo, si sporgeva lei stessa con il busto verso il vuoto.

«Credevo avessi compreso, Lee. Gli Argento non esistono. Perché ti ostini a provarci?»

Allora capì perché Brie avesse mandato proprio lei.

Leean le sputò del sangue in faccia. Il rosso le coprì l'azzurro della pelle. «Hai ragione. Gli Argento non esistono. Ma questo significa anche,» levò il fucile, le incastrò la canna sotto la giuntura del braccio, «che ho la libertà di scegliere, e io voglio salvarti.»

Lo sparo staccò il braccio di Celes dal resto del corpo. Il busto la sbilanciò in avanti, perse l'equilibrio, ed entrambe precipitarono nel vuoto.

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