25
Spuntone era un pezzo di roccia, immobile, statico, sul suo pezzo di tronco. Gli occhi da rettile fissavano un punto lontano oltre il vetro. Leean batté un colpetto contro la gabbia, per assicurarsi che fosse vivo: non ottenne nulla, nemmeno il più microscopico movimento.
«Un giorno mi dirai come ci riesci, vero? A fingere di essere una statua, intendo.»
Quello continuò la sua recita da creatura secolare e pietrificata, così Leean emise un sospiro e lo lasciò stare. Le sarebbe piaciuto, saper diventare un tutt'uno con l'ambiente con lui, rimanere impassibile di fronte a qualsiasi stimolo fino a far credere al mondo che fosse morta. La vita sarebbe stata più facile, nelle vesti di un animale: seguire solo i propri istinti sarebbe stato il suo unico scopo.
Il corpo, le avrebbe detto Celes. Gli animali seguono i bisogni del corpo.
Si lanciò sul divano di faccia. Affondò il naso fra i cuscini, le braccia distese lungo i fianchi. Odorava ancora di erbe fresche, come il prodotto che aveva usato per pulire.
Si girò sulla schiena per rimirare il soffitto. Una piccola crepa incrinava la vernice, una singola linea nera che serpeggiava lungo un mare di bianco.
Siamo più che metallo.
Tante erano le voci che le ripetevano quella stessa frase, nelle profondità della mente. Le immagini che le evocava – un paio di occhiali scintillanti, il suono di uno sparo, urla di donna e il frastuono di un'esplosione – la tormentavano da tanto di quel tempo che non ricordava più nemmeno come fosse la sua vita, prima.
Eppure, sentirla pronunciata da Celes aveva cambiato tutto.
Non sei una Argento.
No, che non lo era. Non lo era mai stata. Non poteva esserlo. E finalmente poteva accettarlo.
Giunse le mani sullo stomaco, gli occhi chiusi, quando trillò il campanello. Saltò su con il busto – uno spasmo ai muscoli della schiena le provocò una smorfia. Da giorni non vedeva nessuno. Pensò si trattasse di Brie, sperò non fosse Benjamin, e invece nell'aprire la porta si ritrovò davanti Nicholas.
Fischiettava un motivetto sconosciuto, ma si fermò per sorriderle. «Lee!» Le prese il polso e la tirò a sé per schioccarle un rapido bacio sulla guancia. La barba le irritò la pelle.
«Perché sei qui?» chiese lei, poggiandosi allo stipite.
«Come mai così fredda? Pensavo fossimo dalla stessa parte.»
Lo erano? La risposta le rimase intrappolata in una fitta nebbia di pensieri vorticanti. «Cosa vuoi?» disse invece.
Lui incrociò le braccia al petto, che gonfiò fino all'inverosimile prima di buttar fuori un sospiro epocale. «Celes vuole vederti.»
Giusto. A quanto sembrava, il momento di prendere una decisione definitiva era già giunto. Non si sentiva pronta, per niente. La gola le si chiuse, le riuscì difficile anche solo deglutire, ma annuì come se nulla fosse e gli intimò di aspettare; lo lasciò sulla soglia mentre raccattava le scarpe e cercava lo Psych sul comodino. Perse una buona manciata di minuti prima di ricordarsi che non gliel'avevano mai ridato. Allora strinse i pugni e raggiunse Nicholas fuori, nel corridoio vuoto e freddo.
Nicholas, che quel giorno appariva normale, proprio come l'aveva incontrato la prima volta. Senza armi. Senza altro che il sorriso smagliante, i capelli raccolti a metà fra l'ordinato e lo scompigliato e il suo chiacchiericcio continuo.
«Come sta Ben?» Le fece cenno di seguirlo. Insieme, si diressero all'ascensore. «Voglio dire, in faccia, si vede tanto il colpo che gli ho dato? Non volevo ferirlo. Ci sono stato male, credimi.» Spinse il pulsante e le ante dell'ascensore si aprirono vibrando.
All'interno era vuoto. Leean evitò lo specchio, mantenne gli occhi sul pavimento, concentrata a mettere i piedi esattamente al centro delle mattonelle. «Potevi evitare di colpirlo allora.»
Nicholas premette le labbra una contro l'altra. Portò entrambe le mani dietro la schiena, molleggiando sui talloni. «Non volevo. È stato più forte di me. Mi ha ripetuto le stesse identiche stronzate di quando stavamo insieme.»
Leean ne cercò il riflesso allo specchio. Il Nicholas speculare appariva più piccolo e fragile, rispetto all'originale: il busto sembrava meno muscoloso, la barba meno curata, la testa minuta. Non aveva mai ascoltato il racconto dalla parte di Nicholas, conosceva solo il resoconto di Ben, il suo punto di vista. All'improvviso, si chiese se non fossero entrambi la metà tossica della relazione.
«È per questo che stai combattendo?» gli domandò.
Nicholas – quello allo specchio, quello esile, quello delicato, si riaggiustò lo chignon con fare distratto. «Per cosa?»
«Per fargli vedere che ha torto?» Si voltò verso l'originale, proprio accanto a lei. C'era fierezza, nel modo in cui gonfiò il petto.
«No. Non mi interessa quello che pensa. O meglio, mi interessa, ma onestamente non credo che cambierà mai idea. E poi, lo so che ha ragione, è per questo che fa così male.»
«Allora perché?»
«Perché...» esitò. Si lisciò la barba, pensieroso. Quando un sorriso si fece largo sul suo volto, scrollò le spalle e reclinò la testa. I numeri sul display dell'ascensore continuavano a salire. «Perché non mi importa se ho talento oppure no. Devo avere la libertà di provare a realizzare il mio sogno in ogni caso. Devo avere la libertà di fallire. Tutti dobbiamo avercela.»
Leean portò le dita sul cuore. Le tenne lì, ad ascoltare le pulsazioni, a percepire ogni singolo battito sui polpastrelli. La libertà di fallire. Non l'aveva mai pensata in questi termini.
Lui le si fece più vicino. Si abbassò un poco con il capo. «Come va la spalla?»
«Cosa?» chiese, ma l'istinto la portò a toccarsi il punto in cui il proiettile l'aveva perforata.
Nicholas alzò le sopracciglia. «Mi dispiace, mi hai costretto a farlo. Non potevo permettere che mandassi a monte tutto. Attendevamo il momento da tanto.»
«Sei stato tu a spararmi.» Per qualche assurdo motivo, lo realizzò soltanto allora. Eppure era lampante.
«Già. Ho cercato di dare la colpa al povero Wyatt. Spero non me ne voglia, ero nel panico quando me l'avete chiesto, e ho sparato la prima cazzata che mi è venuta in mente.»
«Sei uno stronzo,» gli rispose Leean, e si lasciò andare a una mezza risata strozzata.
L'ascensore si bloccò. L'arresto brusco fece sobbalzare i corpi di entrambi; poi, Nicholas premette un altro tasto, e mentre quello lampeggiava di blu, l'ascensore cambiò traiettoria. Adesso si spostavano lateralmente, a una velocità più contenuta.
La parete con lo specchio si sollevò, lasciando spazio a un vetro spesso, oltre il quale splendeva la luce del sole. Leean si schermò gli occhi con il braccio; impiegò un paio di secondi ad abituarsi alla nuova illuminazione, poi si avvicinò al vetro e guardò giù. Aveva piovuto, nei giorni passati, e le gocce ancora bagnavano le foglie dei giardini esterni: erano quelle a riflettere i raggi solari e puntarglieli dritti negli occhi.
Il viaggio fra un palazzo e l'altro era la parte che più le piaceva di Aném. La vista sulla natura in comunione con la tecnologia, di un mondo che cercava disperatamente un equilibrio fra le forze ancestrali della terra e la razionalità deprimente dell'uomo, le ricordava che, forse, non era lei la sola a sentirsi sperduta.
«Non è un caso, che abbiate scelto sempre i posti ritenuti più sacri, vero?»
A quella domanda, Nicholas fece schioccare la lingua. «Bingo. Cominci a capire il modo di ragionare di Celes, eh? Complimenti, io non ci riuscirò mai.»
Leean diede le spalle al vetro. «Pensavo seguissi i suoi ordini perché credevi nel suo pensiero.»
«Onestamente, io la filosofia non la capisco nemmeno.» Allargò le braccia, come per darle una visuale intera sulla sua persona, sulla sua anima. «Te l'ho detto, la seguo perché vuole portare la libertà. Non mi serve sapere altro.»
Il resto del tragitto lo fecero in silenzio – o quasi, Nicholas fischiettò per tutto il tempo. Arrivati a destinazione, la parete con lo specchio si riabbassò a coprire il vetro e le ante si aprirono. Lo riconobbe subito, il corridoio che le si dipanò davanti. Riconobbe l'entrata dalle porte di vetro, riconobbe l'insegna, riconobbe i labirinti di opere d'arte al di là.
Nicholas la condusse in mezzo a quadri che lei ricordava fin troppo bene. L'eleganza dei classicisti si mescolava all'ordine del minimalismo.
Nessuno si aggirava ad ammirare l'arte, a parte loro due e il rimbombo dei loro stessi passi. Superarono i giardini interni, la sua statua dai lunghi capelli e le panchine vuote, e arrivarono lì dove tutto era iniziato: davanti al mezzo busto dalle ali che sporgevano dalla schiena. Davanti all'Uomo Infinito.
E proprio lì, li accolse Celes. La testa ancora priva dei suoi cavi caratteristici, il corpo troppo ingombrante per quelle stanze piene di opere delicate. Eppure, si muoveva con tranquillità, destreggiandosi con grazia felina. Era come se fosse sempre vissuta lì.
Leean ignorò il cuore che le batteva incessante nelle orecchie. Ignorò la flebile eco della voce di un ragazzino, il rimbombo del suo sparo. Ignorò i flash del sangue che imbrattava i muri, e le finiva sulle scarpe.
Li ignorò, eppure la bile le risalì lungo la trachea. Le bruciò la gola.
La rimandò indietro a fatica. «Volevi vedermi?» osò. Desiderò sentirla parlare, perdersi nel baratro di una filosofia per lei troppo complicata. Qualsiasi cosa, piuttosto che rivivere ancora quella scena.
Celes le rivolse la propria attenzione soltanto allora. Alzò un dito, pigramente, e scacciò Nicholas con un gesto. Attese che lui sparisse oltre i labirinti di opere d'arte. «Lee. Temevo non saresti venuta.»
Forse avrebbe dovuto, considerando dove l'aveva portata. Leean si torse le mani. «Come hai fatto? A farti dare questo posto.»
«Sono un Gestore, ormai.» Celes accarezzò le ali della statua. Ne percorse la superficie, piano, con un movimento suadente. «Comando la città, proprio come dovrebbe essere.»
Leean non rispose. La figura di Celes si sovrapponeva a quella del ragazzino con gli occhiali. La sua mano robotica diventava una pistola, la carezza alla statua si trasformava in uno schizzo di sangue che ci si abbatteva con violenza.
«Ammirano molto i vostri Guardiani,» continuò. «Soprattutto tua zia. Farebbero qualsiasi cosa, pur di evitare che si facciano male.»
«Stai usando mia zia come ostaggio,» disse Leean, il tono piatto. L'altra diede un colpo secco sull'ala, e lei sobbalzò, il cuore galoppante nel petto.
Il pezzo di pietra si schiantò sul pavimento. Lì, immobile e separato dal resto dell'opera, non rappresentava nulla di più di un misero sasso caduto. L'Uomo Infinito aveva perso metà della sua anima, eppure la sua figura manteneva la stessa silente eleganza di prima.
«Sai perché ti ho fatto venire qui, Lee?» Celes si chinò a raccogliere l'ala. La tenne sul palmo e la osservò, come se non comprendesse cosa fosse.
«Speravi di farmi venire un attacco di panico?» azzardò lei.
«Tu la capisci, l'arte?»
Le avrebbe mai dato una risposta diretta? Cominciava a credere di no, ma non importava: bastava che parlasse, affinché la sua voce guidasse la coscienza di Leean nel presente, nella sala vuota e tranquilla.
«Non lo so,» ammise.
Celes le si accostò per mostrarle il palmo. L'ala continuava a essere un pezzo di pietra ben levigato, e nulla di più. «Erin non ne comprendeva il senso. Non cercava mai il significato oltre l'immagine. Un mezzo busto per lei era un mezzo busto e basta.»
«Non sto messa così male.» Leean osò sorridere. Abbassò il capo subito dopo.
«Ora è diverso. Ora quest'ala potrebbe rappresentare un'infinità di cose. L'anima. Il pensiero. La felicità. La liberazione. Qualsiasi cosa.» Chiuse il pugno, e una polverina le si insinuò fra le dita, precipitando a terra. Quando riaprì le dita, il palmo era vuoto. «Aném si nutre di simboli. Ogni cosa, ogni avvenimento, qui non è altro che un simbolo di qualcosa più grande. Eppure sceglie di vedere sempre solo quelli che più gli fanno comodo.
«Mi ci sono volute non so nemmeno io quante anime, per capire la bellezza dell'arte. Non esiste un significato unico. In ogni opera, ognuno vedrà se stesso, il proprio passato, le proprie esperienze, le proprie convinzioni, la propria anima. Ed è questo che rende l'arte così unica, unisce milioni di persone, ma nessuno vedrà mai la stessa cosa.»
Leean infilò la mano nella tasca. Trovò un fazzoletto appallottolato, ma pulito, e lo strinse con forza, sentendone la superficie ruvida contro la pelle. «Cosa c'entra con la mia domanda?»
In uno scatto impetuoso, Celes le diede le spalle. Le parti di lei non ricoperte, quelle dove il metallo scintillava, rimandavano indietro il bagliore delle luci al neon. «Per tutto questo tempo, hai vissuto l'idea di tornare qui come un incubo. Questo luogo, per te,» spalancò le braccia, «rappresentava il momento in cui la direzione della tua vita ti è sfuggita di mano.» Tornò a guardarla, e Leean rilasciò il fazzoletto nella tasca, solo per poi tornare a strizzarlo con più forza. «Adesso hai una visione nuova. Adesso puoi ricordarti di quel giorno come il momento esatto in cui è iniziata la tua liberazione.»
Per un attimo, abboccò al discorso. Per un attimo, pensò davvero che potesse esserci qualcosa di positivo, nell'aver cominciato a dubitare del proprio ruolo, della propria identità. Poi però tornò lo sparo a riempirle le orecchie, con il suo rumore assordante, e le mise a tacere ogni pensiero.
Chiuse gli occhi di riflesso. Una stilettata le ferì la retina, gliela tranciò in due; si sfregò da sopra la palpebra chiusa, finché il dolore non la lasciò andare e non fu capace di aprirla di nuovo.
«Quanti nuovi inizi ho?» la provocò. «Non era il momento in cui ho ucciso il Gestore, il mio nuovo inizio? O stai solo riciclando i tuoi discorsi?»
Scatenò una reazione del tutto inaspettata. Dal petto di Celes venne fuori un suono scricchiolante, di meccanismi ormai arrugginiti che si muovevano per la prima volta dopo secoli; dalle labbra le uscì un verso, tanto stridulo quanto fastidioso. Era una risata. Non credeva che Celes fosse in grado di ridere. «Non volevo riciclare i miei discorsi. Il punto è che, gira che ti rigira, tendo a vedere sempre gli stessi significati negli eventi. È normale. È così per chiunque, come te ne ho parlato prima, di questo fenomeno.»
«Quindi tu vedi sempre tutto come un nuovo inizio?»
«Suppongo di sì. Dopotutto, è il frutto delle mie esperienze.» Celes sfiorò la superficie di un quadro, accarezzò le fattezze della donna dipinta, ne percorse le curve abbondanti, fino a fermarsi sulla pancia prominente. «Tu cosa ci vedi? Qui, dal grembo di questa donna, cosa credi che nascerà?»
Leean alzò il sopracciglio. «Un bambino?»
«E cos'è, per te, quel bambino?»
Una creatura urlante e fastidiosa, pensò come prima opzione. La tenne per sé, tanto dubitava che Celes avrebbe gradito il suo senso dell'umorismo. «Non lo so,» rispose solo.
L'altra non si scompose. «A cosa ti fanno pensare, i bambini?»
«Non ne ho idea. Ai pianti. Alle cose sconosciute. Alla paura, credo.»
«Alla paura?»
La guardò con una certa curiosità. Leean si strinse nelle spalle, a disagio. «Perché la prima cosa che prova un bambino quando viene al mondo, è la paura. La confusione. È abituato a un posto del tutto diverso, e poi si ritrova all'improvviso alla luce, in mezzo alle persone. Non sa dove si trova, e piange perché ha paura.»
Celes superò il dipinto, aggirò una statua di due amanti – lui giaceva senza vita ai piedi di lei – e trovò la sua nuova posizione in mezzo a un uomo intento a pensare e a una donna troppo alta, armata di lancia e scudo, che scrutava l'orizzonte, pronta a combattere. La pelle azzurra di Celes era l'unico tocco di colore, per quanto flebile, e la faceva risaltare fra le altre opere d'arte. «Interessante,» disse soltanto.
Leean le si avvicinò, passando accanto al quadro della donna incinta. «Ora posso sapere perché volevi vedermi?»
«Il tempo della liberazione è arrivato,» le rispose. «Ho un piano, ma mi serve il tuo aiuto.»
«Potrei avere qualche spiegazione in più?»
«Ho intenzione di togliere dalle persone la concezione di Oro, Argento e Ferro. Voglio che la smettiate di catalogarvi come se non foste altro che delle figurine collezionabili.»
Un esempio parecchio specifico. Leean accennò un sorriso, a pensarsi come figurina. Sotto il suo nome, ci sarebbe stata la scritta "regina delle sfigate".
«Per riuscirci, devo liberare il vostro corpo dal peso dell'anima,» continuò Celes.
«Quindi vuoi divorare le anime di tutti?»
«Portarvi tutti all'ultimo respiro. Così che capiate che non è il resto dell'eternità che dovete vivere, ma questa vita terrena. Uccidere l'eternità affinché ci si concentri sul presente.»
L'Uomo Infinito aveva un'aura diversa, con una sola ala. La sua anima si estendeva solo per metà, adesso, eppure proprio l'ala mancante gli donava un aspetto meno ordinario, più intrigante.
Leean incrociò le braccia al petto. «E come speri di fare?»
«Con lo Psych.» Ci fu un attimo di attesa, durante la quale Celes reclinò il capo a fissare il soffitto. Quando riprese a parlare, lo fece con lentezza, come se lei stessa dovesse convincersi delle sue parole. «Ho bisogno di qualcosa che mi unisca alle anime di tutti quanti gli abitanti di Aném nello stesso momento. Lo Psych vi connette tutti alla stessa rete.»
D'istinto, Leean si toccò l'orecchio; anziché il pezzo di plastica lampeggiante, trovò soltanto la sua stessa pelle. «Non tutti lo indossano tutto il giorno, però. Qualsiasi momento scegli, faresti un lavoro a metà.»
«È qui che entri in gioco tu.» Celes la raggiunse con un paio di ampi passi. Le mise entrambe le mani sulle spalle. Il gelo che la circondava le penetrò nelle ossa. «Ho bisogno di qualcuno che convinca la città intera a connettersi nello stesso momento.»
«Dubito che mi darebbero ascolto.»
«A te no, ma a tua zia sì.»
La consapevolezza la colpì in pieno. Il pavimento le crollò sotto i piedi, e Leean indietreggiò barcollando. Si aggrappò alla parete, e il quadro della donna incinta si storse al suo tocco. «Mi stai chiedendo di convincerla a fare quello che vuoi? Non lo farà, non importa che sia a chiederglielo.»
«Ti sto chiedendo di ingannarla, Lee. Si fida di te. Se penserà che glielo dici per salvare le persone, lo farà.»
Leean prese a scuotere la testa. Accompagnò il gesto con l'indice, mentre con la schiena cercava la solidità del muro. «No. No. Non posso farlo. Non posso...»
Celes inclinò il capo, come un gufo curioso. «Pensavo volessi cambiare il mondo.»
«Ma non così!» Non tradendo la sua stessa zia. Le era bastata, l'occhiata ferita che le aveva rivolto l'ultima volta. Non ce la faceva a sopportare l'idea di ingannarla, perché avrebbe significato perdere la sua fiducia per sempre.
E cos'avrebbero pensato gli altri? Benjamin? Duke? Perfino Brie?
Celes allargò un poco la linea delle labbra. «È per il bene di Aném, Lee. Una rivoluzione richiede drastici sacrifici.»
«Vuoi divorare le anime di tutta Aném! Come faccio a essere sicura che sia un giusto sacrificio e non semplicemente tu che hai troppa fame?» le urlò. La sua stessa voce le bruciò la gola. Sì sentì come la prima volta in cui perse una parte della sua anima, con un fuoco fatuo che le infestava la trachea.
«Ti ho già spiegato il perché. Se non ti basta, allora ti darò un altro motivo: vuoi liberare tua zia? Allora aiutami. Quando sarà finita, non avrò più bisogno di tenerla in ostaggio.»
«Io non...»
«Pensaci. Hai ancora tempo.»
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