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1.2 And you let her go

Era una sensazione bizzarra, difficile da spiegare senza rischiare di essere fraintesa da chi non li conosceva.

Gli anni avevano sepolto il risentimento e la voglia di cancellarlo dalla sua memoria, e avevano fatto riemergere, pezzettino dopo pezzettino, i ricordi preziosi dell'adolescenza. Da quando lei e Eagle avevano cominciato a viaggiare per il mondo, Raven era diventato il loro punto di riferimento, la certezza di trovare sempre qualcuno che li avrebbe aspettati e accolti in qualsiasi momento, sotto un temporale o nel cuore della notte. Era la parte migliore di Fulham, il genio dispettoso ma in fondo benevolo di quel posto.

Eagle era tutta la sua famiglia, ma Raven, Raven era casa.

Era quella la sensazione che avvolse Swan appena si ritrovò stretta a doppia mandata tra le sue braccia. Lui chinò lievemente il capo, un po' per studiarla, un po' per nascondere il sorriso che gli aveva illuminato il viso. Un attimo dopo si staccò da lei e raggiunse Eagle, che aveva appena fatto il suo ingresso in salotto. Senza una parola, si strinsero in un lungo abbraccio cameratesco.

Il cottage si animò di colpo di chiacchiere e risate. Swan si infilò in cucina con la scusa di voler dare una mano ad Ailleann, Phoenix e Eagle portarono su per le scale i bagagli accatastati all'ingresso e Raven tornò a occuparsi di Charles, gli fece girare la testa con un paio di volteggi, poi lo fece atterrare al suo posto di fronte alla grande tavola imbandita.

La cena fu lunga e rumorosa perché, a parte Eagle e Ailleann, tutti avevano la pessima abitudine di discutere contemporaneamente. Passando senza alcuna logica dal clima dell'India in quella stagione, al nuovo lavoro di Phoenix che si era messo a produrre vino senza capirne nulla, fino all'ultima fiamma di Raven che era riuscita a terrorizzarlo per mesi con le sue visite a sorpresa, si erano ritrovati con piatti e bicchieri vuoti mentre la pendola a muro batteva dodici rintocchi.

La notte che avanzava cominciò a spegnere i rumori uno dopo l'altro, come un sospiro che estingue le fiamme di un candelabro acceso. Ailleann salì al piano di sopra per mettere Charles a letto e, con quella scusa, anche Swan e Eagle le andarono dietro. Il jet lag di parecchie ore cominciava a farsi sentire, nonostante l'entusiasmo per quella riunione li avesse tenuti in piedi fino a quell'ora. Phoenix cominciò a sistemare la cucina e, in breve, il lieve tintinnare delle stoviglie e il rumore dell'acqua nel lavello occuparono l'intera casa.

Raven si fermò di fronte alla grande vetrata che divideva il soggiorno dal giardino. Era intento a fissare il cielo d'inchiostro e le stelle che tanto somigliavano ai suoi capelli e ai suoi occhi, quando il padrone di casa si materializzò alle sue spalle sollevando due bicchieri e una bottiglia di whisky.

"Ci facciamo un goccetto in santa pace, Coso?".

Raven accennò un ghigno ironico.

"Hai bisogno di chiederlo?".

Fuori l'erba ordinata brillava di verde cupo che annegava nell'ombra, cancellando i contorni. L'acqua della piscina ondeggiava placida, catturando i fiochi lampi di luce che provenivano dalla stanza illuminata alle loro spalle. L'aria era frizzante, lievemente umida, ma ai due giovani sembrava non importare. Si sistemarono comodamente sulle poltrone di vimini che arredavano un angolo del giardino e disposero il loro tesoro liquido su un tavolino.

Raven estrasse dalla tasca della camicia un astuccio elegante e porse a Phoenix un sigaro sottile. Aveva preso l'abitudine di condividere quel rituale di tanto in tanto con il Maestro e, quando si trovava con l'irlandese in solitudine e relax, aveva iniziato a replicare in sua compagnia quel sottile piacere.

Accesero entrambi il sigaro e se lo godettero in silenzio perfetto, alternando le boccate con qualche sorso di whisky. Nessuno dei due sentiva il bisogno di interrompere quel momento, dove tutto nella loro vita sembrava bastare.

Fu solo a metà bicchiere che Phoenix, finalmente rilassato, si decise a dire qualcosa.

"Mi dispiace per prima, Coso", mormorò, lanciandogli una rapida occhiata. "Lo sai che quando vedo Charles giocare con il fuoco divento sempre un po' nervoso".

Raven chinò le ciglia e sorrise, come se volesse assentire e insieme minimizzare quelle parole.

"Era solo uno scherzo", ribatté. "Nulla di più".

Di fronte a quella placida replica, Phoenix non sembrò affatto tranquillizzarsi. Al contrario, un guizzo di inquietudine si diffuse nei suoi movimenti e nella sua voce, mentre si agitava sulla poltrona.

"Il fatto è che non voglio... non voglio che lui abbia mai a che fare con Fulham. Mai".

Raven reagì come faceva sempre: restò impassibile, a fissare l'acqua della piscina come se tutto fosse perfettamente sotto controllo.

"Finché tu sei vivo", scandì, "non corre alcun rischio".

"Ma io potrei non essere vivo in eterno".

Raven, quella volta, non rispose immediatamente, ma si girò a fissare Phoenix cercandogli lo sguardo nella penombra annebbiata dal fumo.

"Vorrei che almeno una volta tu ti fidassi di me".

Io mi fido.

Non lo disse ad alta voce, Phoenix, ma fu il primo pensiero che gli si materializzò in testa all'udire quelle parole e il tono grave con cui erano state pronunciate.

Non lo disse ad alta voce perché non era quello il modo in cui comunicavano lui e Raven. E non lo disse perché in fondo non c'era alcun bisogno di farlo: lo si leggeva chiaramente nei suoi occhi.

Quella scintilla di comprensione bastò a far scemare la tensione. Phoenix si lasciò affondare nello schienale morbido e aspirò un altro tiro pacifico.

"Sai, Pigeon... dovresti venire più spesso a trovarci. Charles stravede per te", riprese con il suo abituale tono brillante. "In effetti, se non stessimo parlando di Ailleann, stenterei a credere che sia davvero mio figlio".

Raven ridacchiò senza nemmeno tentare di nascondere il suo divertimento.

"Si vede che ha preso il cervello dalla madre, per sua fortuna".

Gli occhi verdi dell'irlandese indugiarono un attimo di troppo sui suoi lineamenti, come se vi avessero scorto qualcosa che aveva calamitato la loro attenzione. Qualcosa di inquietante.

"Sul serio, Coso: non rischi di sentirti troppo solo, in quel postaccio?".

L'altro socchiuse le palpebre e arricciò le labbra in un sorriso sornione.

"Ho i miei passatempi", dichiarò soddisfatto.

Phoenix continuò a fissarlo. Aveva inquadrato Raven dal primo istante in cui se l'era trovato davanti, nella grande sala di Fulham, sette anni prima. Era piuttosto difficile che lui riuscisse a celarsi al suo sguardo e ovviamente tutto il suo fascino non aveva alcun effetto sull'irlandese. Sperimentare la morte insieme, poi, aveva fatto cadere ogni possibile velo tra loro, anche se nessuno dei due lo avrebbe ammesso di fronte ad anima viva, né tantomeno all'altro. Lo sapevano e basta, e fingevano beatamente di non saperlo.

Quell'ombra fugace sul viso di Raven e quella notte che sembrava sospesa fuori dal tempo instillarono in Phoenix l'esigenza di spingersi oltre il limite di fronte al quale di norma si sarebbe arrestato.

"Non riesco a credere che in tutti questi anni e con tutte le ragazze che ti sono passate tra le mani, tu non abbia mai trovato quella giusta per te", considerò con tono tremendamente serio.

Raven rise, un po' per le sue parole, un po' per la sincera preoccupazione che aveva avvertito nella sua voce. Era una risata scura, però, e senza gioia. Recava in sé un retrogusto amaro che lasciò Phoenix interdetto.

"Oh, ma io l'ho trovata", mormorò in un soffio.

Quella frase rimase sospesa per il tempo di un sospiro, poi si dissolse nelle volute bianche che si arricciolavano attorno al sigaro acceso di Raven. Phoenix comprese il motivo per cui l'inglese si era deciso a pronunciarla: perché, per quanto ci provasse, dalla sua posizione non poteva vedergli gli occhi.

"E come mai non è qui?", azzardò infine, pentendosi un istante dopo della sua stessa impertinenza.

Raven rivolse lo sguardo verso un punto ancor più distante, perso nella notte. Una ciocca nera gli divise a metà la guancia chiarissima, gettando un'ombra lunga sul suo viso.

"Chi ha detto che non sia qui?", rispose con voce asciutta.

Phoenix sentì che un nodo gli stringeva la gola, levandogli il fiato e impedendogli di parlare. Desiderò cancellare quella domanda e cercò disperatamente un modo per tirarsi fuori da quell'impiccio che, come accadeva troppo di frequente, aveva causato lui stesso tirando fuori l'argomento sbagliato. Mentre si tormentava alla ricerca di qualcosa da dire, fu proprio la voce di Raven a toglierlo dall'imbarazzo.

"L'ho capito troppo tardi che quella era vera felicità, quei sei mesi in cui lei mi ha dato tutto", proseguì con sorprendente calma, come a voler comunicare a Phoenix che non c'era nessun motivo per agitarsi, che lui sapeva perfettamente come condurre quella discussione anche se gli faceva male. "E me la sono giocata davvero troppo, troppo male".

Tacque. Il verso armonioso di un pettirosso accompagnò la calma improvvisa che era scesa sul prato. Phoenix spense il sigaro e annegò quel groviglio di tristezza in un sorso di whisky, Raven lo imitò subito dopo. Nessuno dei due aveva apparentemente altro da dire. Rimasero a guardare le stelle, ognuno interrogando il proprio silenzio.

Quando il cinguettio si spense, Raven agitò il bicchiere e rimase a scrutarne il fondo ambrato.

"Credi che sia stupido", si decise a chiedere infine, "sentirmi felice perché lei è felice?".

Phoenix pensò che non sarebbe mai riuscito a provare un sentimento d'affetto tanto forte e sincero nei confronti di Raven quanto in quel momento.

"No, non è stupido", rispose. "È in assoluto il sentimento migliore che tu possa provare, Raven".

L'altro assentì con lentezza e finalmente gli ritornò in viso un sorriso sincero e scanzonato mentre tornava a guardarlo.

"Dopo tutto questo tempo ancora non ti decidi a chiamarmi sempre con il mio stramaledetto nome", sbottò.

Phoenix scoppiò in una risata di fronte alla buffa espressione che si era disegnata sul volto dell'amico, che mescolava il tedio e lo spasso insieme.

"Non è vero", ribatté prontamente. "Lo uso solo quando te lo meriti".

Raven socchiuse gli occhi e scosse il capo divertito.

"Sei il solito irlandese del cazzo", mormorò, vuotando il bicchiere.

"E tu sei il solito fighetto stronzo".

L'inglese, a quelle parole, si alzò in piedi con quel suo fare che risultava elastico e indolente allo stesso tempo. Sollevò la bottiglia, si riempì il bicchiere e colmò di un altro dito quello di Phoenix.

"Alla nostra, allora!", esclamò.

"Alla nostra!", ribatté Phoenix, facendo tintinnare il vetro contro quello dell'amico. "E alla morte puttana che non ci avrà mai".

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SOUNDTRACK:

Ormai lo sapete: mi piace accompagnare alcuni capitoli delle mie storie con delle canzoni. Talvolta si tratta solo di brani collegati all'atmosfera o alle situazioni descritte, talvolta amplificano i sentimenti che ho cercato di infondere nel testo.

Così è stato in Opera, così sarà anche in Laminae, e spero che anche questa nuova "playlist" vi piaccia 😉

Suppongo, comunque, che questo brano non abbia bisogno di commento. Solo di essere ascoltato ❤️

"Staring at the bottom of your glass
Hoping one day you'll make a dream last
But dreams come slow, and they go so fast

You see her when you close your eyes
Maybe one day, you'll understand why
Everything you touch surely dies

But you only need the light when it's burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
Only know you've been high when you're feeling low
Only hate the road when you're missing home
Only know you love her when you let her go

Staring at the ceiling in the dark
Same old empty feeling in your heart
'Cause love comes slow, and it goes so fast

Well, you see her when you fall asleep
But never to touch and never to keep
'Cause you loved her too much, and you dived too deep

Well, you only need the light when it's burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
Only know you've been high when you're feeling low
Only hate the road when you're missing home
Only know you love her when you let her go
And you let her go".

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