Indizi
Ecco davanti a lui il pretesto perfetto. E bellissimo.
La ragazza si aggirava da sola, sfoggiando il meglio di sé. Impossibile non notarla. Era davvero Afrodite. Mercer era sicuro che quello non fosse il suo nome, ma aveva la certezza che fosse una dea della bellezza.
E poi era sola. Sperava solo che non fosse stata abbandonata momentaneamente. L'unico modo per saperlo era informarsi. Se c'era una cosa che aveva imparato era proprio quella di non perdere tempo e volgere così a proprio favore ogni situazione.
Gli ricordava qualcuno. Aveva una faccia famigliare. Il fatto che partecipasse a una simile festa le faceva rientrare nelle persone di spicco, però non si ricordava il viso o il nome. Questo voleva dire solo una cosa: era figlia di qualche magnate newyorkese, e di quello sì che avrebbe riconosciuto la faccia, associando un nome, un cognome e un conto in banca. A casa avrebbe controllato su quella specie di database che si costringeva a tenere e ad aggiornare di continuo.
La fortuna gli voleva bene, Mercer se ne rendeva conto. Se la ragazza era al piano di sopra era per usufruire della toilette, i suoi motivi invece erano ben diversi.
«Dov'è il tuo consorte, il divino Efesto?», chiese, avvicinandosi. Le baciò la mano, nonostante non fosse usanza del tempo. Lei era la dea della bellezza, doveva mostrarle di essere sotto il suo volere.
E vedeva quanto lei volesse essere conquistata e sedotta da lui.
«Nelle sue fucine, il suo vero amore», rispose lei, non troppo dispiaciuta. Dunque non c'era nessun accompagnatore, ma doveva assicurarsene.
«Ares non è con te?» Nonostante Afrodite fosse sposata con Efesto, aveva sempre amato il possente e collerico dio della guerra, senza mai farne mistero.
«Il divino Ares non è mai con me. Dovresti saperlo, Ermes.» Era sempre più divertita.
Voleva giocare? Aveva trovato pane per i suoi denti, nonostante Mercer dovesse tenere ben presente il motivo per cui si trovava lì. Ma lei stessa faceva parte di quel disegno più grande, solo che non le era dato saperlo.
«Come hai fatto a riconoscermi subito?» Doveva cercare di concentrare l'attenzione su di lei, in modo da sviare qualsiasi discorso personale.
«Ricordo sempre la faccia degli uomini con cui giaccio.» Si era fatta più cupa e maestosa, sembrava rubare luce al vestito. Era una perfetta Afrodite.
«Vorrei ricordarmene anche io.» Rispose malizioso, molto più Mercer che Ermes.
«Potrei offendermi, dato che hai appena ammesso di non ricordarti di aver concepito con la dea della bellezza».
«So quanto tu sia suscettibile a riguardo.» Conosceva tramite gli studi le intemperanze della divinità. «Ma posso garantire che nelle mie parole non c'era offesa, solo rammarico».
Poi ragionò su ciò che la ragazza gli aveva detto «Concepito? Chi?»
«Leggende narrano che il nostro frutto sia Eros, il dio dell'amore. Le ali sono l'indizio che portano a te», disse lei indicando i calzari e i piccoli lati piumati del caduceo.
In effetti era l'unico dio dotato di ali.
Notò quanto fosse strana la cosa. Erano forse stati spinti l'uno verso l'altra da una forza più grande, chiamata dai più destino? Il risultato della loro unione era stato l'Amore. Possibile che fosse solo una coincidenza?
«E lasciamo che la gente creda siano leggende?» domandò, ormai accanto a lei, affacciato alla balaustra.
Averla vicina lo fece vacillare. Stava davvero esercitando su di lei quello che era solito fare con altri? Lo stava facendo davvero?
Non solo era bella come poche ragazze potevano permettersi di essere senza diventare volgari o stupide. Afrodite aveva un che di struggente e fragile che lo turbava nel profondo, come se stesse decidendo se fingere o mentire, piuttosto che svelare la sua vera natura.
Proprio come succedeva ogni volta a lui. Come gli stava succedendo in quel momento.
Fingere di essere quelli che gli altri si aspettano o essere se stessi mentendo?
«Dipende soltanto da noi», rispose lei, maliziosa e tentatrice. Lo era sempre stata, ma solo allora Mercer se ne accorse.
E dopotutto cos'è una bugia? Solo la verità in maschera.
*
La maschera non le permetteva di confondere nemmeno in superficie il turbamento che la agitava nel profondo. Specialmente allo sguardo di Mercer, così simile a lei.
L'aveva capito fissando quegli occhi tristi che gli avevano rubato qualche battito, e non solo.
Incatenato in un ruolo che non gli spettava; forse, che non voleva soltanto.
«Balliamo?» e allungò una mano fino a toccare quella di lei, che non la scansò.
«Speriamo che Apollo sia benevolo riguardo le note.» Il dio della musica avrebbe dovuto impegnarsi per produrre un qualcosa di vagamente decoroso.
Nel dirlo fece scivolare la mano in quella di Ermes, che iniziò a condurla lentamente verso la gente.
*
Mercer era soddisfatto.
Mostrare ciò che le persone volevano gli garantiva l'alibi perfetto.
Scesero la scalinata con agognata lentezza. Gli occhi persi in quelli dell'altro, le mani intrecciate a mezz'aria. La gente aveva iniziato a guardarli, incuriosita da quel gioco amoroso tenuto sul filo del rasoio, a metà tra inganno e realtà. Perché Mercer agiva per finzione, ma un fondo di verità – ben più ampio di quanto si fosse mai aspettato – c'era, data la scelta accurata della divinità con cui mostrarsi in pubblico.
Era la sua unica via di fuga, la sola salvezza e se la stava giocando al meglio. Il vizio del baro, la faccia da poker che ormai indossava sempre e comunque.
In cima alla scalinata Jacqueline gli si rivolse, spinta da una fiamma diversa, una scintilla che aveva dato vita a un incendio nel suo cuore. «Una maschera dice di più di una faccia, diceva Wilde».
«Dove vorresti arrivare?» una domanda che pretendeva una risposta più importante di quel che volesse dare a vedere.
«Perché Ermes?» la curiosità era tipicamente umana. Niente di divino.
Rispose continuando a condurla lungo i gradini «Perché è il dio dei messaggeri, dei ladri e dei viandanti».
«Cosa mi dice la tua maschera su di te?» La poteva vedere mentre cercava di carpire dal volto di lui ogni sfumatura umorale, avida di conoscenza.
«Molto più di quanto pensi» rispose lui affascinante e seduttore, come ci si aspettava che fosse. «E tu, perché Afrodite?»
Jacqueline rise, alleggerita dal peso del suo ruolo. «Perché mia madre aveva questo vestito nell'armadio».
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro