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Alibi

Matthew indossava il proprio chitoniskos, il tipico abito greco maschile, con grande imbarazzo. L'idea di avere addosso una gonna non lo elettrizzava per niente. Davanti all'entrata dell'imponente palazzo si passò una mano tra i capelli abbastanza lunghi e mossi, a metà tra il biondo e il castano, con fare agitato. Si mise in coda sotto gli occhi di Mercer che, dall'altro lato della strada per non essere notato, doveva vedere da quale dei due uomini della sicurezza il fratello si sarebbe diretto. Matt scelse quello di destra, mostrando l'invito di Alexander Pratt. L'uomo pelato con il completo nero cercò sulla lista, controllò l'invito, spuntò il nome e lo fece entrare. Era dentro, questo era l'importante.

Mercer aspettò una manciata di minuti, facendo passare davanti alla sicurezza una buona dose di facce, maschere e travestimenti, cercando così di garantirsi una certa immunità.

Sistemò al meglio il suo chitoniskos bianco con i bordi oro, elegante nella sua semplicità, infine mise in ordine il piccolo borsello appeso alla cintura, da dove estrasse l'invito.

«Nome?», domandò l'uomo sulla sinistra, con i capelli fermati all'indietro da una massiccia dose di gel.

«Reed, Josh». Mercer gli sorrise cortese, mostrando poi l'invito per fargliene verificare l'autenticità con una luce ultravioletta.

L'uomo appose un segno accanto al nome «Prego Signor Reed, entri pure. Le auguro buon divertimento», disse, ma non ne era completamente sicuro. Lo sguardo confuso che si scambiò con il pelato fece capire a Mercer che la sua sembrava una faccia famigliare, una già vista.

Quella di Matthew.

Entrò senza indugi, ignorando gli sguardi ambigui dei due buttafuori. Loro non gli dissero niente e lui non cercò un motivo per essere fermato.

Una volta nel mezzo della festa, tra un'Atena e un Poseidone, si rilassò il giusto. Non poteva permettersi distrazioni, il lavoro era tutt'altro che in discesa.

Era giunto il momento di cercarsi un alibi.

*

Jacqueline era salita al piano di sopra passando da una scalinata laterale perché si sentiva troppi occhi addosso, ma essere Afrodite comportava questo genere di rischi, specialmente se il travestimento era ben riuscito.

Dopo aver utilizzato la toilette delle signore, uno dei molteplici servizi domestici riadattati per l'occasione, decise di appoggiarsi all'elegante balaustra per osservare dall'alto la festa. L'orchestra – composta soprattutto da archi e suoni morbidi – era un ottimo sottofondo per balli improbabili che venivano abbozzati dai partecipanti. Era un Olimpo affollato ma assai veritiero. Gli dei dell'occidente erano tutti rinchiusi lì e, nonostante molti si fossero presentati come aspiranti Zeus o Marte, in quel momento assomigliavano molto di più a Dioniso. Le maschere che indossavano non impedivano loro di dare libero sfogo al loro io più nascosto.

E dopotutto cos'è una bugia? Solo la verità in maschera.

Jackie sospirò, combattuta tra il suo travestimento e la voglia di essere se stessa, non capendo che la maschera era il mezzo tramite cui avrebbe potuto dare libertà al suo estro. Perché quell'Afrodite era la dea più Jacquilinizzata che ci fosse sulla terra e, proprio per questo, la più adatta a rappresentare la divinità personificata.

«Cos'è che ti turba?» la domanda le fu rivolta di sorpresa, tanto che si trovò a sussultare involontariamente.

L'essere imprigionata in me stessa, rispose tra sé.

Il silenzio di lei, accompagnato dallo sbigottimento, lo costrinse a continuare a parlare.

«Scusa, mia... Dea?! Non volevo spaventarti.»

Ora che aveva rivolto l'attenzione all'uomo dietro di lei, lui si prodigò in un lusinghiero inchino.

Era fiero e bello, ma non di una bellezza banale come la maggior parte degli uomini. Sembrava degno di far parte dell'Olimpo, di quello sotto di loro, come di qualsiasi altro.

I capelli abbastanza lunghi e mossi, a metà tra il biondo e il castano, gli incorniciavano il viso spigoloso e austero, rendendolo davvero immortale, almeno nella memoria di Jackie.

Stette al gioco. «Dubiti di essere al cospetto della dea della bellezza? Potresti pagare cara la tua impudenza, Ermes».

L'aveva riconosciuto subito. Le piccole ali sui calzari, il borsello del viandante, il caduceo con i due serpenti incrociati; tutto le faceva credere che colui che le stava davanti fosse proprio il dio messaggero.

Non lo conosceva, non sapeva chi fosse e, soprattutto, non le importava.

L'unica cosa che le stava a cuore in quel momento era il brivido che provava, quello che aveva cercato tutto il tempo dietro la propria maschera, trovandolo infine davanti a sé. Il fremito della libertà di essere se stessa anche nelle sembianze di qualcun altro.

Forse, solo nella maschera che pensava di indossare.

E dopotutto cos'è una bugia? Solo la verità in maschera.

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