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XXVIII° MEA CULPA - PARTE SECONDA


Corsivo: punto di vista di Jareth (dialoghi e riflessioni) 

Grassetto: Sarah (dialoghi)

ASTERISCO* = Nota dell'autrice


Jareth lasciò fluire, infine, stremato, ogni cosa dentro di sé, perché potesse tornare a scorrere pienamente. 

Respirò. E fece male. 

Eccome se fece male. 

Perché sapeva, sapeva che cosa significava: sapeva benissimo che, mordendo le sbarre, il sentimento dentro di lui stava flettendo la sua volontà per uscire, per liberarsi dalla gabbia che aveva forgiato attorno ad esso, per intrappolarlo. 

Similmente a come la stessa Sarah aveva fatto, rinchiudendolo nella sfera di cristallo, nella sua mente. 

E finalmente, finalmente poté sentirsi uguale a tutti i cristalli che generava, che maneggiava: poteva spezzarsi anche lui. 

Poteva piegarsi, crepa dopo crepa, poteva, poteva essere... 

Fragile. 

Col debole corpo che ora si ritrovava a possedere che cedeva alle debolezze umane: le emozioni. 

La chiamò di nuovo per nome: "Sarah...". 

"No! Lasciami finire!" insistette lei. 

Evidentemente aveva frainteso le sue intenzioni. Anzi, no. Poteva invitarla alla calma con le bugiarde labbra, sebbene, nel profondo, lui voleva che continuasse quel discorso, che non smettesse di parlargli, di rivolgersi a lui. La pregava, implicitamente, di andare avanti. 

"Nessuno aveva mai reputato i miei sogni importanti." iniziò. 

 Ed il Signore del Labirinto deglutì a fatica quando quelle parole lo raggiunsero. 

Parvero voler strappare con irruenta prepotenza le radici formatesi al centro del suo petto, quelle del freddo distacco tipico del suo carattere che lo avviluppavano, imposte con assolutezza, in ogni tipo di occasione e situazione. 

"Nessuno aveva neanche minimamente considerato le mie fantasie per uscire dalla terribile vuota esistenza che ero costretta a condurre e... E, nonostante mi venissero offerte, le ho anche ripudiate! Non era forse la pesca, il frutto incantato che mi hai, sì, con l'inganno, costretta a mangiare, un'opportunità da cogliere, da saggiare? Non mi hai obbligato lo stesso, comunque, a vivere i miei sogni, a mostrarmeli, almeno, prima di disconoscerli a prescindere?". 

"No." avrebbe voluto dirle. 

Vide sé stesso dirlo, sommesso, ma solo nella sua testa. 

Nemmeno le labbra bugiarde, questa volta, osarono negare. 

Si sentì morire. 

Avrebbe voluto negare e negare ancora ed in quel senso di vergogna ed imbarazzo cadde e cadde e cadde... 

"Tu, con le tue facoltà, esaudisci i desideri degli altri. Voglio dire... Dev'essere così... Triste, non avere nessuno che ti chieda quali sono i tuoi, di sogni. Nessuno ha chiesto quali fossero i tuoi, nemmeno io!". 

 Non appena l'ascoltò dirlo, si costrinse a mantenere l'autocontrollo. 

Sentì pungere nel retro degli occhi le più affilate lacrime della sua intera esistenza, comparate a tutte quelle che non era stato capace di piangere nei secoli ed a quelle che, spontanee, erano sgorgate via quando lei era caduta in mano ad Oblio. 

"Non ha importanza." le disse, lottando contro di esse: le spinse indietro con le ultime forze rimaste. 

"Sì, che ne ha!" gridò Sarah, rossa in volto per lo sforzo. 

Non l'aveva mai vista così. Mai. 

Con la stessa passione con cui all'epoca lo aveva odiato e fronteggiato, con la stessa passione, ora, lo puniva. 

"Non negarti, non negarti a me. Sai essere così crudele Jareth, perfino con te stesso..." le sfuggì, addolorata. 

E nei suoi occhi, come allora, vide la stessa improvvisa epifania: la stessa rivelazione che la portò a dire: "Tu non hai alcun potere su di me". 

Ed ebbe paura di nuovo di cosa avesse improvvisamente scoperto e capito. 

"Come i miei stessi occhi sanno essere crudeli... Sì..." annuì fra sé, esaltata. 

Lei stava ricordando... Lei ricordava. 

Ricordava le parole della canzone che le aveva rivolto quando aveva fatto irruzione nel suo Castello. 

Eppure, la memoria dei mortali non poteva essere così solida: erano passati anni. 

Per lui pochi mesi, certo, ma per lei quindici lunghi anni. 

 A meno che... Un legame, forte, fosse stretto attorno a quei ricordi. 

"Ebbene, fammi essere, di nuovo, altrettanto crudele, Jareth... Adesso.".

 Avanzò verso di lui. 

Tutto si ripeté: si ritrovò ad indietreggiare mentre lei gli inveiva contro.

"Non importa cosa o chi tu sia in realtà, quali spoglie tu indossi. Mortale, immortale, umano, stregone. Non mi importa. Perché fin troppe cose anch'io sono stata e sarò ancora. Fin troppe volte in me ha stabilito il suo predominio la tenebra o la luce, come ogni essere è costretto a fare su questa terra e tutte le terre. 

Sì, lo riconosco: sei stato malvagio. Ma anch'io. 

L'unica cosa che importa è che non è forse vero che ho sempre avuto bisogno della tua crudeltà quanto tu della mia? 

E' questo quello che cercavi di dirmi prima, quando hai confessato il tuo condizionamento: - Ho deciso alcune lune fa di permettere solo ad una persona di farmi del male -.* Dunque guardami e dimmi che anch'io non ti ho, irrimediabilmente, ferito, tanto quanto tu hai ferito me.". 

Non poteva chiedergli questo... 

"Dimmelo, Jareth. Non è vero che non posso anch'io fare a meno di farti del male, sempre? Che io lo voglia, che non me ne renda conto o addirittura quando penso di farti del bene? Dimmi, ora, che non ti ho mai ferito.". 

"Non chiedermi questo, Sarah..." la implorò, rivolgendo lo sguardo al suolo. 

"Tutto, tranne questo." pensò silenzioso. 

Si sentì soffocare. 

L'emozione dentro di lui s'era liberata: stava correndo, disperata, verso il cuore, verso la mente, verso le parole della sua bocca bugiarda. 

Le radici al centro del petto sempre più penosamente e brutalmente tirate. 

"Dimmelo, non ti ho ferito?" strillò, fino al punto di assordarlo. 

Ed una, una sola lacrima di Jareth si spinse oltre l'orlo delle ciglia, scivolando, irrequieta, sul suo volto, indomita. 

Come se, solcando il suo viso, si allungasse verso Sarah. 

Le radici al centro del petto vennero estirpate, strappate. 

Fu atroce. Le sentì anche ritirarsi, i suoi prolungamenti non lo avvinghiavano più. 

"Sì..." alitò appena. 

 E Sarah ne sorrise. 

Fu il sorriso più luminoso che gli aveva rivolto, da quando si erano rincontrati. 

"Credi davvero che io sia tanto migliore di te, eh?" scosse la testa lei. "Io ti ho derubato di ogni cosa... Ciò che sei, il tuo regno ed il tuo potere: ti ho voluto vincere un'altra volta. Mi sono anche vendicata, non contenta, del Labirinto che mi hai sottoposto all'epoca, costringendoti a percorrere il mio, di Dedalo, attualmente. 

Sono il tuo più grande avversario: sono un devastatore. Io distruggo quello che ti appartiene. 

Quindi non darmi dell'eroina, perché non lo sono. 

Perciò, cospargiamoci il capo di cenere, se lo reputi importante, fondamentale. 

E perdimi, che io stessa mi possa perdere! Perditi e perdiamoci. 

E' inutile: troveremo sempre il modo di tornare l'uno dall'altra. 

Non so dirti come, ma è così. 

Perché io te siamo uno, forse l'unico, dei tuoi sogni mal riusciti.". 

 Sì. La verità l'aveva toccata e sfiorata: l'aveva trovata. 

Ricomponendo il libro, evidentemente, era arrivata a comprendere molte più cose di quelle che poteva credere sarebbe mai riuscita a capire. 

Aveva acquistato un'altra prospettiva: così come la sua stessa era cambiata quando aveva assistito, a teatro, alla messa in scena della loro storia. 

Si era visto confermare quanto, come se già non lo sapesse, all'occhio della protagonista la sua figura potesse risultare... Maligna. 

Come le sue stesse azioni erano state, d'altronde. 

"Anche il più abile degli artigiani, il tocco più sapiente dell'artista compie un'imperfezione." riprese. 

"Io e te siamo la tua opera incompleta, non è così?". 

Lui si rivide mentre, allo scadere della tredicesima ora, lanciando la sfera in aria, cadeva a terra tra le vesti bianche per mutarsi in barbagianni, per portarla a casa vittoriosa. 

In quel preciso istante, Jareth si ruppe con la stessa intensità d'allora: e quanto avrebbe voluto farsi piccolo e leggero, chiudere le sue grandi ali da rapace, perdere gli artigli uncinati delle zampe e la durezza del becco, pur di essere raccolto, minuscolo, tra le mani di lei. 

"Quando l'ho negata, l'ho resa incompiuta." continuò, implacabile. 

"Non so quando e né come, ma io e te finiremo quel sogno, perso ed indefinito con noi stessi. E, sicuramente, o ci vivremo per sempre o ci moriremo dentro.

 E lascia che sia onesta, io e te facciamo solo ciò che ci serve per restare vivi e liberi: essere noi stessi. Ed il nostro essere noi stessi, non è dei migliori, dei più grandi. 

Caparbi, volitivi, audaci, coraggiosi, forti, potenti sì, ma anche eccessivamente orgogliosi, capricciosi, cocciuti, egocentrici, prepotenti e permalosi. 

Questo è quello che siamo. 

Non è facile averci accanto, alle volte. 

Ed io mi accorgo, ora, che in ogni cosa che hai fatto tu... Eri e... Sei... Solo, come me. 

Attorniati da genti, da folli e folle che non hanno nulla a che fare con noi, abitando dei mondi che sono il riflesso del nostro malessere: le nostre realtà, la tua, la mia... Io e te... Siamo uguali." concluse. 

Ed, invece di esserne atterrito, un incredibile senso di sollievo lo pervase tanto da farlo espirare forte, come liberato dalle bugie silenziose intessute dai loro occhi quando s'incontravano, come volendosi respingere, sebbene irrimediabilmente attratti. 

Ed uguale e nuovo fu il loro abbraccio. 

Sì... Lui e lei erano uguali. 




* Citazione tratta dal capitolo 24, "Chi parla?".






"Hey goblins, voi ve lo aspettavate?" si gira verso il pubblico alle spalle. 

Aspetta... NO.


"Che ha detto?" 


"Che tu e lei siete uguali.". 


"Praticamente due gocce d'acqua.". 


"Sìììììììììì, l'ha deeettoooooooooooooo! Su le maniiiiiiiiii" 


"Sì, sì, sì! Sapevo che un giorno o l'altro l'avrebbe realizzato. Ce l'ha fatta! Dio salvi il rock ed il glitter!" *ce stava*


Intanto stiamo a 4 k. 

Cioè 4000. 

SIIIEEETEEE PAAAAZZIIII?!?!?! 

VI HO SEMPRE AMATO.

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