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Capitolo 40

Immaginarsela oltre la porta era un conto, vederla dal vivo, davanti la bara aperta, con un vestito nero più corto del necessario e le gambe ben in vista, faceva tutto un altro effetto. Il modo in cui si asciugava le lacrime, preoccupandosi di non far sbavare il mascara, le faceva friggere i fulmini nelle vene.

La stronza salutò gli ultimi parenti arrivati, lo zio Parrucchino e la zia Mutande nel Culo. Mentre quest'ultima si sfilava gli slip dal sedere da sopra l'abito, incurante degli sguardi imbarazzati degli altri parenti, la stronza diceva qualcosa. Che cosa, Altair non lo sapeva. Magari raccontava una qualche storiella campata in aria per elogiare una Nim che non c'era più. Forse una per denigrarla. Probabilmente esibiva solo il suo dolore come il più grande trofeo che potesse vincere.

Gli zii andarono a sedersi alle ultime file, accanto a una panca con un mazzo di rose finte posate sopra. Altair appoggiò la schiena contro lo stipite. Restò sotto l'arcata, dove il banchetto le mandava zaffate di tartine.

Schioccò la lingua, disgustata, e si portò la bottiglia alle labbra. Ormai la birra era calda, ma ne mandò giù una bella sorsata tutta in un colpo. Sapeva di vomito. O forse i succhi gastrici che continuavano a risalirle sul fondo della gola sapevano di vomito.

Che cazzo di differenza faceva?

Una sola ciocca dondolava lungo lo zigomo della stronza. Il resto dei capelli l'aveva intrappolato in uno chignon. Lei spostò gli occhi in direzione dell'arcata, oltre le sedie ormai riempite. Altair si ritirò dietro il muro e sbatté con il mignolo contro la gamba del tavolino pieno di cibo. Imprecò fra sé e sé, attirandosi lo sguardo severo di un grassone dalla pelle olivastra che non ricordava. Gli alzò il medio e quello andò a prendere uno degli ultimi posti rimasti.

Chiunque fosse, non apparteneva alla famiglia di Altair.

La cerimonia iniziò pochi minuti dopo, mentre lei ancora osservava l'ingresso vuoto della sala, con la bottiglia penzolante lungo il fianco e la testa appoggiata contro il muro.

«Buonasera.» Una voce spezzata pronunciò quella singola parola, così sbagliata, così stupida. Quale cazzo di deficiente avrebbe potuto passare una buona serata lì dentro?

La stronza continuò a parlare, ma la porta d'ingresso si aprì in quel momento e Altair scattò sull'attenti. Allacciò i bottoni della giacca, in fretta e furia, e si lisciò il tailleur alla bell'e meglio. Dei tacchi ticchettarono sul pavimento, si arrestarono proprio di fronte a lei. Alzò lo sguardo, e un paio di occhi la osservava sotto un caschetto rosso.

La tipa teneva le mani ben strette attorno al manico di una borsetta nera. L'orlo del vestito le copriva i piedi e quasi strusciava a terra.

Altair sbuffò da un angolo della bocca. «Che cazzo vuoi? Hanno già cominciato, datti una mossa o ti perdi le perle di stronzate iniziali.»

Quella però non si mosse da dove si trovava. «Sei guarita,» disse soltanto.

Elettra. La stronza osava davvero presentarsi lì. Ne aveva di fegato, la figlia della merda.

Altair scrollò le spalle e le dimenò un dito davanti agli occhi. «E tu non dovevi essere cieca, senza quell'affare da spia intergalattica addosso?»

«Continui a essere un faro ambulante, con tutta l'agitazione di fulmini che hai dentro.»

Divertente. Altair non percepiva più la ferocia con cui i fulmini le attanagliavano lo stomaco i primi giorni. Credeva si fossero rotti i coglioni di scazzare senza fine e si fossero placati, ma forse ci aveva solo fatto l'abitudine. Sempre ammesso che non fosse l'alcol a renderla insensibile al loro scoppiettio continuo.

«Perché cazzo sei qua?» chiese piuttosto.

Elettra si strinse la borsetta contro il petto. «Per lo stesso motivo per cui tu sei qui.»

«Ah, sì? Tua sorella si è buttata da una ruota panoramica per colpa di un gruppo di figli della merda?» Altair si attaccò al collo della bottiglia. Restavano poche sorsate e le mandò giù tutte in una volta.

L'altra esitò. Aprì le labbra, le richiuse, le riaprì di nuovo e le richiuse ancora. «Mi dispiace,» mormorò alla fine, a capo chino. «Mi dispiace, ho sbagliato. Avrei dovuto raccontarti la situazione, avrei dovuto capire quanto soffrivate, tutti quanti. Avrei dovuto stare più attenta. Avrei dovuto fare un miliardo di cose, invece ho solo mandato tutto a puttane.»

«Non me ne frega un cazzo che ti dispiace.» Altair si riempì i polmoni dell'aria stantia che regnava lì dentro, dell'odore delle tartine e della miriade di profumi che le persone si portavano dietro come una scia. Poi la cacciò fuori in un sospiro. «Ma sei fortunata, c'è una stronza che odio molto più di te qui.»

Scivolò sotto l'arcata e osservò la donna dai capelli rossi che continuava ad asciugarsi le lacrime davanti la bara.

«È sempre stata una ragazza sensibile,» diceva, e Altair si morse il labbro, abbassando lo sguardo. «Troppo, a volte. Litigavamo spesso, specie nell'ultimo periodo. Ha fatto scelte di vita discutibili, frequentava brutta gente, anche se posso capirla, era in un periodo difficile.»

Certo, e chissà chi era lì a fermarla, mentre prendeva quelle decisioni discutibili. Di sicuro non sua madre, eppure si sentiva legittimata a giudicarla fino alla fine. Che merda di donna. Una grandissima merda di donna, ecco cos'era.

«Mi ricordo ancora di quando era una bambina, e la sorprendevo sempre a parlare da sola. Credevo avesse un amico immaginario, ma in realtà conversava con se stessa. Si rispondeva, anche, e mimava voci diverse. Si vergognava a morte quando pensava che l'avessi beccata, diventava rossa e cacciava scuse assurde.» Un sorriso si fece largo fra le lacrime.

Altair strinse con forza il collo della bottiglia. Lei non ricordava nulla del genere. Apparteneva alla vita di Nim che si era persa, quella di cui non sapeva nulla. Quella di cui non avrebbe mai saputo nulla.

«Era così riservata, ma sempre piena di energie. Specie negli ultimi tempi, quando chiunque si sarebbe buttato giù... Non riesco a credere che non ci sia più. Proprio quando pensavo che non l'avrei più persa.» Un singhiozzo interruppe il suo discorso del cazzo. Fra le sedie, qualcuno tossì, ma gli altri restarono in silenzio. «Non era perfetta, però era la mia bambina. La mia unica bambina.»

Alcol o no, abitudine o meno, questa volta i fulmini si arrotolarono gli uni sugli altri all'interno del suo stomaco, e Altair percepì il movimento di ogni singola saetta.

Un'altra energia si unì alla sua quando Elettra le posò una mano sulla spalla. Fredda. No, calda. Era come una coperta che cercava di avvolgerla, ma Altair se la scostò di dosso. «La sua unica bambina, eh?» ripeté, incurvando appena le labbra da un lato. «Gliela faccio vedere io, a quella puttana.»

«Altair, che hai intenzione di fare?» Elettra allungò una mano e afferrò solo l'aria, lì dove c'era stato il braccio di Altair.

Lei ormai camminava già lungo le sedie, la bottiglia ben stretta in pugno e l'altra mano a scompigliarsi i capelli. Seppur barcollando, attraversò l'intera sala senza mai perdere l'equilibrio del tutto. Attorno a lei, zii e parenti e amici di famiglia e gente che non aveva mai visto tratteneva il fiato. La sua attenzione però restava incollata su una sola persona.

«Poverina, ha perso la sua unica figlia.» Altair parlò a voce più alta del necessario. Le rimbombò nella testa. Scoppiò a ridere, graffiandosi la gola, e la stronza di fronte a lei si bloccò con il dito ancora a raccogliere le lacrime sotto l'occhio. «Piangiamo tutti per lei, avanti. Adesso che non ha più nessuno da ignorare mentre si scopa qualche riccone, come farà?»

«Altair.»

La severità con cui pronunciò il suo nome le conficcò un pezzo di ghiaccio fra le scapole.

«Altair, cosa ci fai qui?» Un uomo si alzò in piedi dai primi posti. Gli rimaneva una sottile peluria di capelli biondicci in testa, per nascondere la piazzetta che cominciava a crearsi con l'età. La pancia del bevitore di birra spingeva contro i pantaloni.

Altair lo squadrò dall'alto, il sopracciglio inarcato. Lo ricordava più in forma, suo padre, ma con la schiena altrettanto curva. «Oh, tu guarda, c'è anche il fesso senza palle.»

«Pensavo fosse morta,» disse qualcuno dalle file in fondo. Una donna, dal tono preoccupato. Una zia, forse quella che continuava a regalarle caramelle di sottomarca che sapevano di vino quando era piccola.

Altair si voltò in direzione della stronza davanti alla bara, allargando le braccia e muovendo un passo verso di lei. «È questo che vi ha detto? Che ero schiattata?»

Elettra aveva ragione, la Tempesta le gridava dentro con la furia di un animale ferito. Le scuoteva le membra. I succhi gastrici bollivano e si aggrappavano ovunque pur di risalire, pur di venire fuori. Cercavano la gola e la bocca, ma lei li rimandava indietro con un fiotto di saliva.

La stronza si spostò di lato, le braccia incrociate sul petto. Dietro di lei, la bara restava aperta. Nim era lì dentro, anche se Altair non la vedeva.

«Eri dispersa,» disse la donna. «Cos'altro avrei dovuto dire? Che eri scappata di casa? Avresti preferito che dicessi la verità?»

Dispersa. Scappata di casa. Certo. Un mucchio di stronzate, tuttavia non si scompose affatto mentre le pronunciava. Come se credesse davvero di aver ragione.

Qualcun altro comparve nella sua visuale. Altair gli lanciò un'occhiata in tralice: un altro uomo, più basso di suo padre ma dal fisico più asciutto e con ancora tutti i capelli in testa. Il naso avrebbe potuto fungere da ombrello per una scolaresca. «Non mi avevi mai detto di avere un'altra figlia.»

«Perché non ce l'ha,» ringhiò Altair. O forse fu la Tempesta a parlare.

Il tipo non osò risponderle. Si paralizzò dove si trovava, poi scivolò via.

La stronza lo ignorò. «Cosa sei venuta a fare qui? Vuoi rovinare anche l'ultimo momento di tua sorella?»

Altair avanzò ancora, ed eccola lì, addormentata nella sua bara. La sua pelle appariva perfetta ma pallida, senza il rossore sulle guance. Gli occhi restavano chiusi e non brillavano come avrebbero dovuto.

Il vetro della bottiglia si incrinò nella sua stretta. «Io non ho rovinato proprio un cazzo. Sei tu che la stai sfottendo davanti a tutti.»

L'altra si incastrò la ciocca di capelli dietro l'orecchio. «E tu invece non stai catalizzando tutta l'attenzione?»

«Mi prendi per il culo?» Batté un colpo contro il fianco della bara. «Scusami tanto se ti sto rubando la tua giornata sacra della mamma depressa!»

«Non sei cambiata per niente. Sei sempre stata così. Totalmente fuori controllo. Dovevo saperlo che c'eri tu dietro lo strano comportamento di Nim. Cosa ti aspettavi che succedesse a frequentarla? Sei pericolosa, lo sei sempre stata, e infatti guarda com'è andata a finire.» La stronza allungò la mano a indicare Nim.

Nim. Che non si sarebbe svegliata.

«Scommetto che non si è buttata, scommetto che è stata una delle tue solite...» Si interruppe.

«Fuori controllo, eh?» Altair si afferrò i capelli sul retro della nuca e li tirò fin quasi a strapparseli. Rise, cacciando tutto l'odio che la corrodeva da anni.

Si rigirò la bottiglia vuota fra le dita. La soppesò. E poi la scagliò con tutta la propria forza contro il muro.

Il sospiro spaventato dei presenti si sollevò in un unico suono.

«Io sono quella pericolosa?» Altair si premeva un indice contro il petto. «Indovina un po' quale figlia ha quasi ammazzato l'altra! Eppure io almeno ci ho provato a salvarle il culo, tu invece che cazzo hai fatto?»

«Cosa ne sai tu, che per dieci anni non ci sei nemmeno stata? L'ho cresciuta. Le ho dato tutto.»

Che grosso mucchio di balle. Come se non esserci fosse stata una decisione di Altair. Come se la stronza invece fosse stata in grado di capirlo, il dolore che Nim si portava dietro da chissà quanto; l'unica cosa aveva fatto era stato scopare, mangiare come un porco per nove mesi e farsi cacciare una creatura piagnucolante dalla pancia. E lasciarla in un angolo, come se fosse un giocattolo da accendere e spegnere a piacimento. Per la seconda volta.

Un fulmine sfuggì al suo controllo, le avvolse l'indice, pronto a espandersi, a distruggere, a ferire. Altair lo nascose fra le altre dita, serrando le nocche in un pugno.

Poi arrivò. La mano di Elettra, la sua energia che tentava di convincerla a calmarsi. La costrinse a voltarsi. «Altair, adesso basta.»

«Lasciami,» disse lei, liberandosi. «Smettila di metterti sempre in mezzo.»

«E tu smettila di fare stronzate. Vuoi davvero continuare a rovinare il funerale di tua sorella così?»

Altair si chinò su di lei. Avrebbe indetto una carneficina, se fosse servito a placare le grida della Tempesta dentro di lei. «Senti chi è che parla, quella che ha finito a rovinarle la vita.» Le uscì come un sussurro sprezzante, sibilato proprio accanto al suo orecchio.

Non si aspettava uno schiaffo, per questo non lo evitò. Non lo vide nemmeno arrivare, sentì solo la frustata contro la guancia; un istante davanti a lei c'era Elettra, quello dopo osservava le fughe del pavimento intrecciarsi in un disegno geometrico.

«Esci fuori e prenditela con me, se è quello che vuoi. Ma lascia che la cerimonia vada avanti.»

Altair raddrizzò la testa. Non ebbe bisogno di dire niente, Elettra esibì un inchino e bofonchiò delle scuse a tutti i presenti, voltata in una direzione casuale. Nessuno osò parlare. Perfino la stronza se ne stette in silenzio a osservarle camminare verso l'uscita. Andarono fuori, dove zolle d'erba spuntavano dalla terra in ciuffi radi e mosci. Fuori, dove le tombe dei deceduti decoravano il paesaggio con la loro atmosfera deprimente.

Il rumore della pioggia che si schiantava sulla cupola era assordante. I suoni della città lì non ci arrivavano e non la attutivano, e ogni singola goccia emetteva una nota rabbiosa e lugubre.

«Mi dispiace,» disse Elettra, alle sue spalle.

«Non la voglio la tua compassione.»

Ancora si atteggiava come la salvatrice empatica di sto cazzo, la ghiacciolina. Non lo capiva proprio che doveva solo farsi i fatti propri, lasciarla in pace, smetterla di mettere delle toppe sui casini che Altair combinava. Lei non lo voleva, il suo aiuto.

Elettra batteva un piede sul terriccio. «Scusami. Non ti volevo compatire, volevo solo...»

«Cosa cazzo ne sai tu?» Non la ascoltò nemmeno. Voltandosi, Altair spalancò le braccia, solo per farle ricadere subito dopo contro le gambe con un sonoro schiaffo. «Vieni qui a giudicarmi e rompermi i coglioni, dopo tutta la merda che hai fatto, anche se non sai un cazzo di come ci si sente. Perciò non azzardarti a compatirmi, a dirmi che mi capisci o le tue solite stronzate per fingere che te ne freghi qualcosa.»

«Non ti sto giudicando,» sbottò Elettra. Non urlò, ma il timbro si alzò di un'ottava di troppo. «Ti sembrerà assurdo, Altair, ma mi dispiace davvero per quello che devi passare! Odio il pensiero che esistano famiglie simili, va bene? Mi fa incazzare, perché non è giusto! E se vuoi ammazzarli tutti, fallo, non sarò certo io a fermarti. Tutto quello che ti chiedo è di non rovinare il funerale di Nim.»

Soltanto l'ombra di lacrime che non scesero le bagnava gli occhi. Li rendeva acquosi, li faceva apparire più grandi di quanto non fossero mai stati.

Altair sbuffò un sorriso amaro. Scosse la testa, si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e cercò le chiavi di casa per stringerle fra le dita. Il ferro gelido cercò di penetrarle nel palmo. Allentò la presa solo per un secondo. «Perché dovrebbe fregarmene della marmocchietta? Non è diversa da quegli stronzi lì dentro.»

Si rese conto tardi di aver sbagliato a parlare al presente. Nim non era diversa dai loro genitori. Ormai non esisteva più.

Elettra inspirò a fondo prima di rispondere, con calma questa volta. «È stato Miura a costringerla, non avrebbe voluto farti del male.»

«Non è solo per quello,» scattò Altair, sferzando l'aria davanti a sé con il braccio. Schioccò la lingua subito dopo e si addentò la lingua.

Per una buona manciata di secondi, Elettra rimase senza parole. Ascoltarono il rumore della pioggia, il rombo dei tuoni fuori dalla cupola e il crepitare dei fulmini che avvolgevano Altair; non le chiedevano nemmeno più di attaccare, solo di esistere. Cercavano la libertà e nient'altro.

Quando Altair sferrò un calcio al terreno, sollevando una manciata di polvere e qualche ciuffo d'erba, Elettra si scongelò. Tornò a muoversi, a tirarsi il lobo dell'orecchio. «Non ti ha abbandonata,» disse. «Soffriva più di quanto possiamo immaginare.»

«Si era salvata, perché ha dovuto mandare tutto a puttane?»

«Non lo so. Forse era sola. Forse si sentiva in colpa.» Elettra rivolgeva lo sguardo vacuo in un punto imprecisato alla sua destra. «Forse è stata troppo tempo affacciata sul baratro della morte. Con un peso del genere addosso, tu riusciresti a vivere davvero?»

Un mucchio di cazzate. La ghiacciolina non sapeva dire altro che un mucchio di cazzate. Nim desiderava diventare proprio come lei, eppure lo era già. Ecco da dove nasceva il filo che legava quelle due, dalle stesse puttanate filosofiche in cui si perdevano.

Un dolore acuto le si diffuse lungo il palmo. Partiva dal centro, dove le chiavi scavavano nella carne, e si espandeva fino alla punta delle dita.

«Perché cazzo dovete sempre farvi domande inutili?» urlò. Strinse ancora di più le chiavi. «Perché dovete sempre fare ragionamenti di merda? Certo che poi vi deprimete, che cazzo di vita è? Sì che ci riesco. Sì che voglio vivere.»

Non c'era nulla da capire. Che senso aveva chiedersi come si vivesse? Altair respirava, e questo le bastava. Anche se aveva ritardato un secondo di troppo per passare a cambiarsi, anche se si svegliava ogni giorno con l'urgenza di correre alla ruota panoramica che le scalpitava nel petto, il cuore le batteva, e non necessitava di altro.

«E tu?» aggiunse, prima che Elettra potesse dire qualcosa. Prima che i suoi stessi pensieri la inglobassero e le impedissero di reagire. «Tu vuoi ancora vivere?»

Ciocche della parrucca rossa le caddero sul volto. Qualsiasi espressione nascondesse però venne tradita dai singhiozzi. Mentre stringeva la borsetta al petto, Elettra piangeva. Si asciugò gli occhi con la manica. «Sì,» mormorò.

Altair lasciò andare la presa sulle chiavi. «Che cosa?»

Elettra raddrizzò il collo. «Voglio vivere.»

Rabbia. Questo si aspettava Altair, una rabbia che la consumasse dall'interno, i fulmini che si sollevavano e protestavano perché Elettra non se lo meritava davvero, di vivere. Invece si quietarono. Si ritirarono e si assopirono dentro di lei, lontani dalla sua portata, svuotati.

Alzò il sopracciglio e scrollò le spalle. «Allora smettila di starmi sempre in mezzo alle palle.»

Si allontanò con il canto deprimente della pioggia e l'ululato dei tuoni sulla testa.

Per quante colpe avesse Elettra, non era davvero lei che Altair voleva vedere stramazzare a terra a supplicare che le venisse risparmiata la vita.

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