Capitolo 39
Vega non emetteva un fiato. La dualità dell'energia che lo animava premeva sulla pelle di Elettra, lì dove le dita di lui la tenevano stretta. Ardeva come un fuoco, eppure il suo tocco era gentile, e le restava sempre un passo avanti a mo' di protezione. Uno scudo fatto di fulmini che la schermava dal resto del mondo.
Elettra lo seguì, imitando il silenzio in cui lui era piombato. Si massaggiò la mascella ancora indolenzita per il colpo di Altair. Le strade di Nuova Folk procedevano ondulate, oltre le gocce che bagnavano il visore. Le luci sconfinavano e si sfocavano.
I rumori giungevano in un ammasso oscuro e incomprensibile. Freni di macchine, voci, musica, passi: ogni suono cercava di scavalcare gli altri, e il risultato non era altro che un'accozzaglia senza senso.
Solo la ruota panoramica torreggiava su tutto. Oltre i suoni, oltre le luci, oltre ogni cosa, era lì, in lontananza, immobile e lucente.
Si passò la lingua fra le labbra. Giorni interi di pianto le avevano rese screpolate e piene di pellicine. «Cos'è successo?»
Vega interruppe la sua avanzata. Lei gli finì addosso; sollevò le mani per ripararsi e si ritrovò premuta contro la sua schiena. L'energia dentro di lui palpitava. Pensò di doversi allontanare, ma i muscoli non si mossero. «Ha fatto quello che io non sono mai riuscito a fare,» rispose lui.
Soltanto allora, deglutendo, Elettra scivolò indietro. Anche senza toccarlo, li sentiva ancora, i suoi fulmini. Quante cose non sapeva di Vega, si rese conto. Troppe.
«Passavo per caso,» continuò lui, «e ho visto l'ambulanza andare verso il parco divertimenti. Le ho viste tutt'e due, ma...» Spezzò la frase a metà e azzardò un sospiro. Quando si voltò, il volto appariva rilassato, troppo, e ogni singolo muscolo tendeva verso il basso. «È caduta dalla ruota,» terminò, con la glacialità di un giornale di cronaca.
Elettra batté le palpebre un paio di volte dietro il visore. Come, avrebbe voluto chiedere, solo che lo sapeva benissimo come.
«Perché mi hai salvata?» disse allora.
Delle persone li sorpassarono di fretta. Lasciarono dietro di loro una scia di profumo e freddo. Le loro voci concitate si allontanarono subito, ed Elettra si ritrovò a stringersi fra le proprie braccia.
Vega si passò una mano fra i capelli, lo sguardo rivolto oltre le macchine parcheggiate al lato della strada. «Non ti ho salvata da niente, potevi difenderti benissimo da sola.»
«Ma non l'avrei fatto,» ammise lei. «Non ne avevo il diritto.»
«Forse no, e forse non ce l'avevo nemmeno io, però non sopportavo l'idea che ti riducesse in un mucchietto di carne e sangue.»
Tante sarebbero potute essere le risposte da dargli. Elettra non riusciva a pensarne nemmeno una. Della scatola dentro di lei non restavano che i brandelli, e le saette le si attorcigliavano attorno agli organi e scoppiettavano. Facevano male, così tanto che le bloccarono il cervello. Due sole parole continuavano a ripetersi come una litania: «Mi dispiace,» disse.
Vega scosse la testa in un movimento quasi impercettibile. «Lascia perdere.» Riprese a camminare, con la differenza che questa volta non la teneva per il braccio.
Elettra lo seguì, non tanto perché volesse, quanto perché non sapeva cos'altro fare. I piedi si mossero da soli, dietro quelli veloci e pesanti di Vega. Percorsero la stessa strada, attraversarono le stesse strisce pedonali, raggiunsero la stessa via con i palazzi tutti uguali ed entrarono nello stesso appartamento.
Casa di lui la accolse con il suo profumo familiare di deodorante per ambienti, tuttavia un'aura diversa la permeava. Vega le chiuse la porta alle spalle e sparì oltre l'ingresso, mentre Elettra si torceva le dita. Il quadro di un paesaggio minimalista decorava la parete. Sulla mensola si affacciavano degli origami di varie forme: un cigno, un drago rosso e un pinguino.
Avrebbe dovuto chiedere a Vega di farne un po' anche a lei, per rimpiazzare i dipinti scelti da Miura.
La fugacità del pensiero la colse di sorpresa tanto quanto la sua superficialità. I fulmini tornarono a darle scosse nello stomaco e il sapore della bile le risalì lungo la gola. La rimandò giù a fatica.
Dall'altra stanza le arrivò un tonfo attutito. Con le dita ancora impegnate a scavarsi la pelle l'un l'altra, Elettra entrò nella stanza da letto. Una valigia sostava sul comodino accanto al materasso, e Vega ci infilava dentro delle maglie prese dall'armadio, rimasto spalancato. Ripiegava ogni capo con cura, solo per poi buttarlo insieme agli altri, come vittima di una furia omicida momentanea.
Elettra non si era mai sentita più fuori posto di così. «Che fai?»
«Cosa ti sembra? Faccio le valigie.»
«Sì, ma perché?»
Vega si fermò per alcuni istanti, un pantalone ancora mezzo spiegazzato fra le mani. «Vado all'altro capo della città.» Riprese subito la meccanicità dei suoi movimenti, come se qualcuno gli avesse appena caricato la manopola dietro la schiena.
Elettra lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «Ti troverà. Non importa dove andrai, ti troverà comunque.»
Lei stessa non era sicura di riferirsi a Miura.
Lasciarsi tutto alle spalle. Sparire e fingere di essere qualcun altro. Vivere come se i fantasmi del passato non esistessero. Erano tutte cose che Elettra aveva già provato, nel momento esatto in cui aveva messo piede in casa di Altair per la prima volta. Il risultato catastrofico però era evidente.
Non poteva fuggire da se stessa.
Vega richiuse la valigia e la sollevò senza sforzo. Diversi vestiti pendevano ancora dalle grucce, ed Elettra si aspettava che prendesse un altro bagaglio da riempire. Invece lui scrollò le spalle, come se bastasse tanto poco per liberarsi dal peso di tutta la faccenda, e la superò per tornare in corridoio.
«Che senso ha?» gli urlò dietro lei.
La semioscurità della stanza lo inghiottiva. Lo rendeva una sagoma scura ferma al centro. «Che altro dovrei fare, secondo te?» Emanava agitazione, eppure il tono fu glaciale.
«Dobbiamo fermarlo. Ha ancora intenzione di rompere la cupola.»
«Dobbiamo?» Vega la guardava. «Ancora non ne hai abbastanza? Quante altre stronzate dobbiamo fare, quante altre vite dobbiamo prenderci, prima di capire che non possiamo fare un cazzo?» Incastrò la mano nei capelli; ancora corti, eppure iniziavano a ricrescere e a perdere la loro forma. Gli si gonfiò il petto fin quasi a esplodere, per poi afflosciarsi.
Elettra si tirò giù la manica e ci affondò le unghie. «E fuggire invece è la risposta giusta?» Il suono della sua stessa voce le congelò il palato.
«Cos'altro posso fare? Restare e coinvolgere altre persone innocenti? Avevo giurato,» colpì l'aria verso il basso con il braccio. «Avevo giurato di proteggerla. Di salvarla. Invece sono stato così stupido da affidarmi a qualcun altro, mi sono affidato a qualcuno, ancora, e il risultato è sempre lo stesso: una persona che non lo meritava è morta, mentre io sono ancora qui, a sprecare aria con ogni fottuto respiro.»
Ha fatto quello che io non sono mai riuscito a fare.
Adesso acquistava un senso. La dualità della sua energia assumeva un significato. Elettra aveva sempre creduto che le due forze che lo componevano lottassero fra loro, ma si sbagliava: erano legate, dall'una derivava l'altra. I fulmini che spingevano verso l'esterno, quelli che emanavano un'aurea distruttiva, cercavano solo di gettare fuori il dolore dell'altra metà.
«Io...»
«Aveva ragione Haruka, non mi fai un buon effetto,» la interruppe. Anche se non urlava, riempiva le pareti e le faceva tremare con la sua sola presenza.
Una scintilla fuggì dal controllo di Elettra, le guizzò fra le dita. Chiuse gli occhi e, lenta, si tolse il visore. Lo lasciò cadere a terra, incurante del fatto che avrebbe potuto rompersi. Quando il buio conquistava il mondo, respirare sembrava più difficile, perciò doveva concentrarsi sul sentire l'aria entrarle nel naso e fluirle lungo i polmoni.
«Volevo solo salvare tutti,» mormorò. Poi, con più convinzione, continuò: «Avevo un piano, ho sbagliato, va bene, ma non ho mai voluto che finisse così, non ho mai voluto che lei... Non sapevo che soffrisse così tanto, credevo...»
Nemmeno lei capiva più a chi si riferisse, se al dolore invisibile di Nim o a quello di Vega. Si era preoccupata di fare la cosa giusta, ed era stata cieca ai bisogni della gente che importava davvero.
Il sorriso innocente di Nim le comparve davanti. La luce di Vega la illuminava dalle spalle. Le labbra le vacillarono, scricchiolarono, e il sorriso si accartocciò su se stesso. La pelle assunse un colorito malsano, i capelli le si appiattirono sulla nuca e le si appiccicarono sulle guance, come se fossero bagnati. Elettra impiegò un istante di troppo a capire che il rosso che la stava ricoprendo a poco a poco era sangue.
Provò a riaprire le palpebre e a richiuderle di continuo. Nim, o ciò che ne rimaneva, non voleva sparire.
«Volevo salvare tutti,» mormorò ancora, ma a se stessa questa volta. Se avesse continuato a ripeterlo, forse sarebbe diventato vero.
Nim inclinò la testa di lato. Le offrì una mano e tentò un nuovo sorriso. I muscoli delle guance si lacerarono per lo sforzo e la carne attorno alle labbra si aprì in una grottesca imitazione sanguinolenta di un'espressione felice.
Elettra scosse il capo così forte che l'immagine evaporò per un istante. «Non volevo, mi dispiace, giuro che non volevo.»
Una mano arrivò ad asciugarle le lacrime. Dissipò la finta Nim, trasformandola in un ricordo sbiadito oltre la luce immensa dei fulmini. Vega restava rigido come al solito, eppure la gentilezza con cui le afferrò una spalla, accarezzandola con il pollice, la lasciò senza parole.
«Lo so.» Avvicinò il viso a quello di lei, il suo respiro le sfiorava la pelle. «Scusami, è colpa mia, non avrei dovuto chiederti di accollarti tutto da sola. Avrei dovuto occuparmene io.» Le affondò le dita nella carne, e mentre i fulmini gli pulsavano sui polpastrelli e la inebriavano di energia, il dolore la fece gemere. Vega allentò subito la presa.
Elettra avrebbe voluto rispondergli che non era vero, che lei portava distruzione ovunque da molto prima di incontrarlo. Le persone attorno a lei si spegnevano una dopo l'altra, e l'errore che ne causava la morte era sempre il suo.
Non le uscì niente di tutto ciò, solo qualche singhiozzo.
Vega accorciò ancora la distanza che li separava. Profumava di sandalo e Tempesta. «Dovresti andartene anche tu,» aggiunse. «O sarai la prossima vittima di Miura.»
Avrebbe dovuto ribattere. Avrebbe dovuto fargli capire che scappare non sarebbe servito a niente. Avrebbe dovuto pregarlo di non lasciarla sola. Invece una sola domanda continuava a vorticarle nella testa, e la sputò fuori senza pensarci due volte. «Perché ti preoccupi ancora per me?»
Non se lo meritava.
Avrebbe dovuto volerla morta, proprio come Altair.
«Perché non sopporterei l'idea di perdere anche te.» Vega lasciò scivolare via la mano. Portò con sé la propria energia, la propria luce, e si allontanò nel nulla.
Elettra toccò lo stesso punto in cui lui l'aveva tenuta fino ad allora. Ancora la percepiva, la sua presenza, la sua vicinanza. «Allora resta con me,» azzardò. «Aiutami a fermarlo.»
Capì di aver sbagliato, ma ormai era troppo tardi.
Vega mosse ancora qualche altro passo verso la porta. Sempre più distante. «Vedi? È per questo che non posso. Mi fai credere di poter cambiare qualcosa, ma il punto è che non è vero.»
«L'unica cosa che non serve a niente è scappare. Lo sai che ti cercherà. Tornerà tutto esattamente come prima.»
Un altro sbaglio.
Vega condusse la sua luce ancora un po' più in là. «Se succederà, significa che quella è la mia strada.»
E poi tutto tornò buio.
Il telefono continuava a trillare, da qualche parte sul tavolo. Elettra si lasciava cullare dal suo suono, persa in un mare di nulla. Negli ultimi giorni non vedere era diventato confortevole. Forse gli occhi non ne potevano più degli spilli che sembravano conficcarsi nelle pupille quando portava il visore; forse la mancanza di stimoli visivi l'aiutava a fingere che non esistesse nulla, oltre le pareti di casa sua.
L'immagine sanguinolenta di una Nim dalla testa spaccata in due la fissava, acquattata proprio nella coda del suo occhio. Elettra si girò di scatto, solo per affrontare a viso aperto il buio, ancora, e nient'altro.
Tornò composta sulla sedia. Tirò un paio di respiri profondi. Si accorse di aver allungato una mano ed essersi portata una manciata di patatine alla bocca solo quando le udì crocchiarle sotto i denti. Un rumore fastidioso che le provocava un altrettanto fastidioso mal di testa.
Doveva darsi una regolata. Era il quarto pacchetto che ingurgitava quel giorno.
Invece se ne ritrovò delle altre contro il palato. Le masticò ancora, e nel silenzio le sembrava di essere un bufalo.
Nel silenzio.
Il telefono se ne stava zitto da un po', si rese conto. Quando aveva smesso di suonare? Non che le importasse davvero. Ormai l'unico che tentasse di contattarla era Miura, e al momento non sapeva come affrontarlo. Non voleva affrontarlo.
Spostò la posizione sulla sedia, accavallò le gambe per un attimo, poi afferrò il tavolo e si tirò in avanti. Un odore sgradevole le rovinò il gusto delle patatine – solo la sua mancanza le fece capire di averlo sentito, un gusto, fino ad allora – e arricciò il naso. Annusò la manica della vestaglia che portava addosso: il sudore e la salsa dei noodles che le era caduta addosso due giorni prima le causarono un conato.
Avrebbe dovuto fare un bagno caldo. L'avrebbe rimessa al mondo. O magari sarebbe stata solo una miserabile profumata.
Raspò il fondo del sacchetto alla ricerca delle ultime briciole di patatine. A metà strada verso le labbra, il telefono squillò di nuovo, a tutto volume. Elettra sobbalzò e le patatine le finirono addosso.
«Merda,» borbottò.
La voce registrata e calda dell'assistente vocale sul telefono interruppe le note e, per la prima volta, la ascoltò davvero. «Chiamata in arrivo da Evelyn.»
Elettra attese, con i denti affondati nella guancia. Cosa voleva da lei? Forse avvertirla che Altair sarebbe arrivata presto a ucciderla.
Le dita le si mossero da sole, prima appena, una contrazione improvvisa, poi schizzarono veloci verso il telefono. Lo portò davanti alla bocca e dischiuse le labbra. Quando la gola le si era seccata così tanto?
«Rispondi alla chiamata,» disse.
Ci fu un bip, e la suoneria smise di trillare. Al suo posto parlò Evelyn, con il suo tono squillante. «Alla buon'ora! Sono cinquanta volte che ti chiamo, ma dov'eri, ad ascoltare canzoni depresse?»
Le venne quasi da ridere. Come se le servisse della musica, per deprimersi.
Nim comparve di nuovo, una spruzzata di capelli rossi all'angolo dell'occhio. Questa volta Elettra non si girò e strinse con forza il cellulare. «Sta arrivando?» chiese piuttosto. Prima o poi Nim sarebbe scomparsa. Doveva solo resistere.
«Sta arrivando chi? Il bambino formaggino?»
Elettra avvicinò il viso al microfono. Si coprì il volto con il braccio, come se questo potesse servirle a proteggerla dal fantasma che la tormentava. Perché non la lasciava in pace? «Altair.»
«No, è insieme a Keira a cercare dei vestiti decenti da mettere al funerale di domani. La aspettavi? Non voleva ammazzarti?»
«Sì,» rispose, titubante. «Per questo credevo che... Aspetta, il funerale?»
«Sì. È per quello che sto provando a chiamarti da due ore. Tu ci andrai?»
Dubitava di essere la benvenuta. Nessuno della famiglia di Nim la conosceva, a parte la sorella, e lei di sicuro non avrebbe accettato la presenza della persona che aveva causato la morte di Nim.
Deglutì a fatica e scosse la testa. «No,» rispose.
«Senti, lo so che ti senti in colpa e che pensi non sia una buona idea e tutto quello che vuoi, ma Altair ha intenzione di andarci e so per certo che farà una cazzata. Ho bisogno che qualcuno le impedisca di finire in prigione.»
«Puoi impedirglielo tu. A te dà ascolto, no?»
Evelyn scoppiò a ridere. Elettra non aveva mai sentito un suono più stridente. «È più probabile che mi usi come proiettile da lanciare contro sua madre.»
Un movimento dei capelli di Nim colse la sua attenzione. Elettra si voltò questa volta, ma trovò solo il nero. «Non posso,» sussurrò, il telefono che le sfiorava le labbra.
«Che cazzo vuol dire? Perché non puoi?»
«Non ne ho il diritto.»
Elettra non c'entrava nulla con la famiglia di Altair. Mettere il naso nei loro affari era servito solo a causare una tragedia.
Il sospiro di Evelyn sull'altra linea la fece vacillare. «Ma chi se ne frega del diritto? Non ti sto chiedendo di andare a fare un discorso commemorativo, solo di salvare quel cazzo di funerale e quella rimbambita di Altair. Pensalo come modo per riscattarti, se ti fa sentire meglio.»
L'idea continuava a suonare sbagliata. Mescolarsi a persone che non conosceva, presentarsi davanti ad Altair come se nulla fosse, assistere all'ultimo saluto alla persona che era morta a causa sua...
Eppure voleva esserci. E forse, a prescindere da tutto, questa era l'unica cosa che contava davvero. Forse questo le dava il diritto di dirle addio, di scusarsi.
Poggiò il telefono sul tavolo e accartocciò il pacchetto di patatine vuoto. «Va bene.»
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