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Capitolo 34

«Non è per farti una critica,» iniziò Evelyn, ed Elettra si irrigidì, consapevole che invece sarebbe arrivata proprio una critica travestita da battuta idiota. «Però sai, con la parrucca rossa e i suoi vestiti, mi sembri una versione alternativa e stramba di Altair.»

Sosteneva Elettra sottobraccio e la guidava fra le strade dell'ospedale psichiatrico che odoravano di disinfettante.

«Insomma,» continuò, «sei il suo opposto però, quindi è come se foste una specie di stessa versione di due dimensioni diverse.»

«Non mi ci vedo granché a provarci con tutte le persone che passano,» ammise Elettra con una risatina.

Evelyn la spinse verso sinistra per convincerla a svoltare. «E io ci vedo ancora di meno lei a fare piani e a stare tutta composta, ma appunto dico che siete gli opposti.»

La discussione cominciava a premere una piega sempre più strana. Per fortuna, qualcuno le sorpassò proprio in quel momento, sfiorando Elettra con la spalla. Non si scusò né gliene fregò qualcosa, proseguì dritto come se nulla fosse, ma almeno aveva distratto Evelyn, che gli mandò maledizioni senza alcun senso. L'argomento di conversazione si spostò sulla stupidità del tipo dalla faccia da barboncino – qualsiasi cosa significasse.

«Come hai fatto a sapere che l'avremmo trovata qui?» la interruppe Elettra.

Evelyn le si appiccicò ancora di più. Il suo profumo di cocco si mescolò a quello di disinfettante. «Mio fratello conosce alcune persone che lavorano qui, mi ha fatto lui la soffiata.»

«Tuo fratello?»

«Sì, è un medico, per un po' ha lavorato in qualche clinica psichiatra, compresa questa.»

Questa Elettra non se l'aspettava. In qualche modo, il suo dubbio dovette riflettersi sulla sua faccia, perché Evelyn le diede una pacca sulla schiena e continuò: «Credo abbia preso da nostro padre. Lui è quello tutto scienze e bla, bla...»

«Tu invece sei come tua madre?»

Una pausa d'esitazione. Evelyn impuntò i piedi, ed Elettra si trovò costretta ad arrestarsi a sua volta. «Io non me ne vado mica in giro con gli abiti stretti e scomodi manco fossi una tavola incartata. Però sì, se intendi che ho una certa passione per la moda, allora sì.»

Sgusciò via dalla sua presa e bussò contro una porta davanti a sé. Non attese una qualche risposta, riprese Elettra per il polso e la condusse dentro: era già aperta..

Nessuno rispose. Un bicchiere grattò contro una superficie ruvida. Qualcuno bevve e mandò giù con un rumore troppo forte, come se deglutire gli costasse fatica. Una voce maschile proveniva da un televisore sulla destra: blaterava qualcosa a proposito della parola di un dio in cui ormai quasi nessuno credeva più. Un vecchio film, forse, o ambientato nell'era precedente alla Tempesta.

Elettra tenne le mani intrecciate sul grembo. Tese le orecchie, alla ricerca di un colpo di tosse, dei passi, coperte che frusciavano, che le indicassero la quantità di persone presenti. Invece non ottenne altro, solo il monologo del prete in televisione e il bicchiere che veniva poggiato di nuovo al suo posto.

«Una lucciola infestata.»

Per qualche motivo, Elettra comprese subito che la donna si riferiva a lei. I muscoli del collo si tesero, e provò a scioglierli con un piccolo massaggio. Facevano male al tatto.

Evelyn emise una risatina. «Salve, signora Mitake,» disse. Lasciò da parte la questione della lucciola, con sorpresa – e sollievo – di Elettra.

«Io non vi conosco,» rispose subito quella. «Non vi conosco, come sapete chi sono?»

«Siamo amiche di Miura, ci ha chiesto di venirla a trovare. Sa, ha pensato che una lucciola infestata potesse risollevarle il morale, con la sua luce.»

«Kosaki?» Il letto cigolò e dei piedi nudi si poggiarono pesanti sul pavimento. «Ma lui non mi avrebbe mai mandato una persona infestata. Lo sa che mi mettono a disagio.»

Elettra si afferrò il labbro fra gli incisivi. «Lui viene spesso a trovarti?» chiese piuttosto. Perché all'improvviso fare visita alla ex moglie pazza dell'uomo che avrebbe potuto distruggere le vite di tutti non le sembrava più un'idea tanto geniale. Lui l'avrebbe saputo, che erano state lì. Lei gliel'avrebbe detto. Gli avrebbe parlato di una lucciola infestata, e lui avrebbe capito.

Avrebbe dovuto lasciar perdere la sua curiosità, chiamare Vega e andare subito alla fase del rapimento.

«No. Ultimamente ha sempre da fare. Dice che mi sta preparando una sorpresa e...»

Elettra la avvertì avvicinarsi, ma non fece nulla per impedirle di prender il suo viso fra le mani. Spalancò gli occhi. Anche se non la vedeva, sapeva che l'altra glieli stava fissando. Cercava qualcosa nelle sue iridi vuote.

«Quante anime innocenti ti tormentano?» disse Mitake.

Elettra allora sfuggì al suo tocco. Abbassò il capo, si girò in direzione della televisione, dove qualche creatura emetteva un verso stridulo. «Non so di cosa parla,» borbottò, tormentandosi la zip della giacchetta.

«Perché le nascondi? Devi lasciarle andare...» Il calore di Mitake si avvicinò ancora; Elettra scivolò indietro di riflesso.

«Signora?» La voce di Evelyn suonava vicina. Affiancava la donna, adesso, e forse la stava convincendo ad allontanarsi. «Mi scusi, ma non siamo qui per un esorcismo, vorremmo solo farle alcune domande. Le va di risponderci?»

Non ci fu una vera e propria risposta, soltanto i passi pesanti della signora che tornava a letto.

Elettra contò fino a dieci, in attesa di una qualche altra stranezza da parte sua, cercando di calmarsi. Non funzionò, e i muscoli continuarono a restarle contratti. «Come si trova qui? Si sente a suo agio?» provò.

«Mi guardano tutti come se fossi pazza, qui. Non mi piace.»

«Quando gli altri pazzi ti vedono pazza, sai di essere un caso davvero grave,» disse Evelyn.

Elettra ignorò la sua mancanza di tatto. Ecco perché andava così d'accordo con Altair. «È da tanto che non viene nessuno a trovarla?»

«Ogni tanto mi portano mio figlio. Sta crescendo bene, ma ogni volta anche lui mi osserva con compassione. Se solo sapesse...»

«Sapesse cosa?»

«Quello che sono. Della Tempesta. Di Kosaki. Di me. Capirebbe quello che devo sopportare.»

Il giudizio di Vega acquisiva sempre di più un senso. "Non ha mai avuto tutte le rotelle a posto" era un modo davvero gentile di descrivere la sua situazione. Elettra però non si aspettava di trovarsi a parlare con una Figlia della Tempesta.

Una ventata di cocco la investì. «Quando vuoi che qualcuno sappia una cosa, basta dirgliela, in genere.» Evelyn di certo non possedeva la stessa gentilezza.

Elettra si schiarì la voce. Non poteva giudicare Mitake per la mancanza di coraggio di dire la verità al figlio, però cambiò argomento. «Ha qualche idea su che genere di sorpresa abbia in mente Miura?»

Mitake si mosse sul letto, che scricchiolò. «Vi siete mai chieste come sarebbero i tetti di Nuova Folk, se la pioggia li raggiungesse? Come sarebbe sentire l'acqua scorrerci sul viso? Come sarebbe il grido della Tempesta, se potessimo sentirlo in tutto il suo splendore? Credo che dovremmo provare ad ascoltarla, la Tempesta, non chiuderla fuori. Sta soffrendo. Soffre ogni giorno, come te.»

Elettra si strinse fra le braccia. Capì anche senza il bisogno della gomitata di Evelyn che Mitake ce l'aveva con lei.

«Ha bisogno di aiuto, sapete. Lo penso sempre. Se qualcuno soffre o è arrabbiato, noi rispondiamo sempre così, lo chiudiamo fuori. Ma ha bisogno di noi.»

«Cioè, per fermare la Tempesta ci serve uno psicologo?» commentò Evelyn.

La mente di Elettra registrò la battuta sotto la voce simpatica, eppure non rise. «Cosa?» borbottò soltanto. Poi il telefono le vibrò nella tasca e lei saltò in aria, ma sospirò di sollievo subito dopo. La melodia allegra con la chitarra elettrica era associata al numero di Altair, e le fu grata per la distrazione.

«Rispondi alla chiamata,» disse, e si portò il cellulare all'orecchio. «Pronto?»

«Emergenza rossa.» Non Altair, un uomo.

Elettra premette il ricevitore contro l'orecchio. «Yunca?»

«Bingo. E se la rossa con più culo che cervello è amica tua, ti consiglio di venirla a raccattare.»

«Cosa?» chiese, ma Yunca chiuse la chiamata.

In un fruscio esagitato di ciglia, Elettra strinse la plastica del cellulare e attese così, come se si aspettasse che l'altro aggiungesse qualcosa. In qualunque guaio si fosse cacciata Altair, il fatto che fosse proprio Yunca a usare il suo numero rendeva il tutto troppo assurdo da immaginare.

Prima che potesse riferire l'accaduto a Evelyn, il fiato della bionda le scaldò la guancia. «Che è successo?» le sussurrò.

Elettra le trovò l'avambraccio al primo tentativo; lo afferrò stretto. «Dobbiamo andarcene, ho una faccenda urgente da sbrigare.»

«Adesso? Ma non abbiamo scoperto niente di utile.»

Sapevano i punti deboli di Miura, dovevano farselo bastare. Ma anziché farglielo notare, scosse la testa. «Cambio di programma.»





Evelyn protestò al comando di tornare a casa dopo averla accompagnata nei bassifondi, ma obbedì. Elettra l'aveva tenuta all'oscuro del motivo per cui erano lì. Era rimasta sul vago, perché non aveva senso farla preoccupare finché non scopriva cosa fosse accaduto ad Altair. Perciò Evelyn le scansò la tenda, la aiutò a entrare e se ne andò.

Non appena fu dentro, il brutto odore la confortava con la sua presenza costante. Elettra permise ad alcuni fulmini di uscire dalla scatola. Piano, quelli si diramarono verso l'esterno, e restarono in bilico, come aveva imparato con Vega: abbastanza perché un minimo di luce le illuminasse i dintorni, non troppo cosicché non si mostrassero sulla sua pelle.

Si deterse alcune gocce dalla fronte e si incamminò fra i senzatetto. Lentamente, un passo dopo l'altro. Un corpo magro e bitorzoluto le venne addosso. Lo sentì sussultare, poi delle mani le afferrarono le spalle e il naso schiacciato comparve nella sua visuale, illuminato di una luce propria. Yunca.

«Hai imparato bene.» La sua presenza bastò a farle tirare un sospiro di sollievo. Qualsiasi cosa fosse accaduta, lui era tranquillo. Poteva esserlo anche lei.

«Dov'è?» gli chiese.

La risposta però non le servì. Bastò sollevare un poco lo sguardo e la sua luce rossa e pungente la abbagliò. Sdraiata su un paio di coperte, il respiro pesante e delle macchie di sangue a imbrattarle i vestiti, reggeva una pistola a doppia canna sul grembo. Le palpebre sobbalzavano di tanto in tanto, preda di un qualche sogno febbrile.

Elettra le si inginocchiò accanto e lasciò che i propri fulmini si rintanassero nella loro scatola. Quelli di Altair bastavano e avanzavano per permetterle di vedere.

Si concentravano sul fianco della rossa, in una danza folle ed esagitata. Elettra sfiorò quel punto con il dito, e una scossa la costrinse a ritrarsi subito. Qualcosa di bagnato le macchiava il polpastrello.

«Che cos'è successo?»

Soltanto Yunca si azzardava a stare nei dintorni, tutti gli altri senzatetto se ne stavano a distanza, parlottando fra loro. «Non lo so, l'ho trovata così. C'era la piccola Nim con lei prima, ma poi ho trovato solo lei.»

Elettra si prese le dita con l'altra mano per impedir loro di tremare. E proprio in quel momento, come attirata dallo schiaffo che risuonò dopo il suo gesto, Altair spalancò gli occhi. Ed eccola lì, che si tirava su nonostante i grugniti e i gemiti. Eppure si puntellò sui gomiti e incontrò lo sguardo di Elettra. Una patina di confusione le velava le iridi.

«Che giorno è?» domandò, con lo stesso tono di qualcuno che si sveglia dopo una brutta sbronza.

Elettra la spinse per convincerla a sdraiarsi di nuovo, ma lei le sferrò un manrovescio sul polso per allontanarla. «Non ti dovresti sforzare, sei ferita.»

«Sto bene.» Il tentativo di alzarsi in piedi però fallì, e ricadde con il sedere a terra. «Merda! Che cazzo di giorno è?»

«Sono passate più di ventiquattro ore da quando ti ho trovata,» rispose Yunca, calmo. «Ci ho messo un po' a far funzionare il tuo telefono. Non ne usavo uno da secoli.»

Elettra inspirò a fondo. Avrebbe voluto mantenere i nervi saldi come lui. «Altair, cos'è successo? Come hai fatto a ridurti così?»

Il nome di Nim sfuggì dalle sue labbra, seguito da una litania confusa mentre Altair si adagiava sui gomiti con un nuovo lamento. A pugni serrati e denti stretti, provò ancora a parlare. «Nim mi ha sparato.»

«Cosa?»

Così se ne uscì Elettra, eppure tutto acquisiva un senso nella sua mente. «Miura, deve averla costretta lui,» spiegò. Il resto – che era stata lei a dargli l'idea di usare Nim per ferire Altair; che stesse cercando un modo per fermare i piani di Miura nonostante le minacce – non lo specificò. Lo rimandò giù assieme alla bile.

Altair colpì la coperta sotto di sé con il pugno. «Ma perché? Perché cazzo adesso? Non ha detto che gli servivo?»

Non lo capiva. Elettra cercò un indizio nei suoi occhi confusi, ma Altair brancolava davvero nel buio. Che fosse a causa dello stato febbricitante o che fosse semplicemente troppo ottusa per collegare i puntini, non importava. Per ora, non importava.

«Non lo so,» le rispose. «Ma se ha deciso di attaccare dobbiamo prepararci. Devi imparare a non farti controllare da lui. Yunca!» Schioccò le dita in direzione dell'uomo. «Devi aiutarla.»

«Non ho nessuna intenzione di perdere tempo con una vecchia puzzola.» Altair tentò ancora di alzarsi, e questa volta non riuscì nemmeno a raddrizzare il busto.

«Se non vuoi farti controllare come una marionetta, è l'unico modo.» Non che fosse sicura funzionasse. Era una possibilità, e al momento non avevano altro.

«Stronzate. Posso fargli saltare le palle come...» Il suo stesso rantolo la interruppe. A questo almeno ci arrivò da sola, perché anziché continuare si portò le dita alla ferita sul fianco e sospirò. «Poi però lo ammazziamo. Sopporto questa merda e poi gli faccio il culo.»

Elettra si diede un colpetto sulle cosce rialzandosi in piedi. «Te lo prometto.» Sarebbe stato più facile mantenere un tono fermo, se solo non le fosse salita la nausea a ogni parola che pronunciava. «Yunca, la lascio a te. Credo abbia una guarigione più rapida del normale anche per un ibrido, ma tenetela d'occhio.»

«Agli ordini.»

«Lei come sta?» La domanda di Altair giunse improvvisa. Una fragilità inaspettata le scuoteva la voce al punto che, per un attimo, Elettra provò l'istinto di abbracciarla.

«Chi? Nim?»

«L'operazione... Se l'è tolto quel cazzo di tumore? Perché voglio ammazzarla di persona.»

Un tumore. Il motivo per cui stavano rischiando tutto, ecco qual era. Elettra avrebbe dovuto esserne sorpresa, forse, eppure dentro di lei sentì solo il click dei pezzi che andavano al loro posto. Deglutì una scarica di elettricità che le risalì lungo la gola. «Non ne sapevo niente,» ammise.

I fulmini di Altair fremettero per un attimo. «Quindi non ero l'unica stronza a non sapere un cazzo.»

Elettra non avrebbe saputo cosa ribattere, ma il suono del telefono la sollevò dal doverci pensare: note sintetiche, sgradevoli, che le ricordavano la sensazione della vicinanza di Miura. La sua suoneria. Rispose con un tremulo «pronto?», e la risposta, così inaspettata, così strana, così schifosamente cordiale, le gelò il sangue.

«Elettra? Ho una sorpresa per te, vediamoci tra poco.»

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