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Capitolo 27

La strabica si era dileguata. Volata via, sulle gambe finte e pallide che si ritrovava, a nascondersi chissà dove.

I fulmini le pulsavano sulla ferita da cui colava ancora del sangue. La carne scoperta premeva contro l'elsa della spada. Il dolore le arrivava attutito, come se il suo fosse solo un ricordo di un male guarito da anni.

Altair sarebbe rimasta lì per chissà quanto ancora, a fissare la strada deserta, se un rumore non avesse ripescato la sua coscienza e non l'avesse buttata sul marciapiede come un vecchio straccio. Puntò la lama e solo dopo girò il busto a controllare la fonte dei passi nella notte.

La luce azzurrina scintillò nel buio. Altair abbassò l'arma, ma i muscoli delle braccia si contrassero e le dita si strinsero attorno all'elsa fino a risvegliare il dolore pulsante sul palmo. Soltanto un attimo, poi i fulmini richiusero la pelle.

«Che c'è, sei venuta a prendermi per il culo?»

Elettra uscì dall'oscurità ed entrò nel viola di un'insegna lampeggiante. «Te l'avevo detto che non potevi farcela da sola.» Una constatazione semplice, vera e fottutamente odiosa.

Altair allentò la presa. Il pollice prese a tamburellarle sulla coscia, veloce, nervoso. «Le avrei spaccato la faccia, se solo quella cagasotto non se la fosse data a gambe.»

«Ne sei sicura?» Lo disse con la calma e la tranquillità di una seduta al bar a prendersi un caffè spettegolando con le amiche. Come se Altair non riuscisse ad ammettere una stupida cotta, e non il fatto di non essere riuscita a trovare sua sorella.

Buttò la spada a terra. Il clangore le tuonò nella testa, le ferì le orecchie. Ignorò ogni sensazione e alzò le braccia. «Certo che ne sono sicura. Non mi faccio mica battere da una ninja di sottomarca.»

Elettra inclinò il capo. Le labbra formavano una linea breve e sottile, e il visore inghiottiva qualsiasi espressione stesse mostrando. Sempre ammesso che non avesse addosso solo quella sua fottuta maschera piatta e finta. «Puoi dire con assoluta certezza che avresti vinto, se lei non fosse fuggita?»

A che cazzo di gioco stava giocando, quella?

«Te l'ho detto,» rispose soltanto. E una scarica la aggredì dall'interno.

Avrebbe vinto, e Haruka l'aveva capito. Per questo era scappata, perché nel momento in cui la vittoria le era sfuggita di mano aveva compreso di non avere speranze. Protesi o meno, strane operazioni per migliorare i riflessi o meno, un'umana come lei non reggeva il confronto con una Figlia della Tempesta come Altair.

Elettra stirò il collo e reclinò la testa, un dito sollevato per intimarle di fare silenzio.

Altair si morse la lingua.

«Dopo la tua scenata qualcuno ha chiamato la polizia.» Elettra ripiegò un poco il dito su se stesso, ma il braccio restò in posizione. «Stanno per venire qui. Ecco perché è scappata, perché sapeva di non avere un tempo infinito a disposizione.»

Cazzate. Solo un grosso mucchio di cazzate.

«E tu che ne sai? Avevo capito che non eri dalla loro parte.» Divorò la distanza che le separava in una manciata di passi. L'altra non indietreggiò, e Altair si ritrovò così vicina che il suo odore di sapone e Tempesta le inebriò i sensi. «Dimmi perché non dovrei pensare che mi stai solo raggirando.»

L'ultima frase le uscì in un sibilo. Schioccò la lingua, infastidita.

Nemmeno da quella distanza la faccia di Elettra assumeva una forma diversa dalla maschera di ceramica giudicante di sempre. «Ho solo usato la logica. Al posto suo avrei fatto lo stesso.»

Altair abbassò la testa verso di lei. Sfiorò la freddezza del visore con la guancia e si ritirò. «Tanto non cambia un cazzo.» Mosse dei passi indietro e le diede le spalle. «L'avrei fritta se non se ne fosse andata.»

Portò due dita alla gola, nel punto in cui l'arma di Haruka le aveva bloccato il respiro. Dei graffi non rimaneva traccia, ma il sangue le bagnò i polpastrelli. Si ripulì sui pantaloni con una smorfia: tanto quella tuta ormai era da buttare.

«Non l'hai trovato,» disse Elettra. Una constatazione, o forse una domanda implicita.

«Lo sapevi che non era qui.»

«Lo sospettavo.»

Altair annuì, come se capisse, quando in realtà non comprendeva niente di quella stronza. Il piede batteva impaziente contro il pavimento. «Allora perché cazzo mi hai mandata qui? Per farmi perdere tempo?»

«Non puoi fare niente da sola, Altair, ora lo sai. Hai bisogno di noi tanto quanto noi di te...»

«Ah,» la interruppe, acida. Girò sui tacchi e tornò a fronteggiarla. «La mia autostima a quanto pare dà fastidio a tutti, eh?»

Questa volta, Elettra si ritirò. Solo una manciata di centimetri. «Non è questo.»

Altair avanzò ancora. «Che cazzo vuol dire?»

Quando la raggiunse, le agguantò la spalla per impedirle di sottrarsi. Un'energia dirompente le crepitava sotto la pelle, e Altair strinse più forte di riflesso; sparì il secondo dopo, ritiratasi nell'ombra della maschera che proteggeva Elettra dal resto del mondo.

Il bagliore azzurro puntò sul pavimento. Un paio di respiri ed Elettra sollevò ancora il visore su di lei. «Meritavi una possibilità. Dovevi provarci.»

In un'alzata di sopracciglio, Altair ostentò tutta la propria rabbia in un sorriso tirato. «Una possibilità di che cosa? Di farmi fare una figura di merda?»

Elettra posò la mano sulla sua. Si presentava come un pezzo di ghiaccio, eppure bruciava più di un fuoco ardente. Le aprì le dita, una dopo l'altra, e la scansò con gentilezza, come se stesse rifiutando la carezza di un'amica e non l'aggressione di un'ibrida incazzata. «Anche io voglio salvare Nim. E per un attimo ho davvero sperato che ci riuscissi. Volevo crederci tanto quanto ci credi tu, perché non sopporto l'idea che passi anche solo un altro secondo in più con Miura.»

Altair tirò dentro il braccio e voltò la testa. La luce di quel cazzo di visore nel buio la accecava.

Non aveva mai capito che genere di rapporto legasse Nim ed Elettra. Forse avrebbe dovuto chiederlo per davvero alla marmocchietta, anziché scherzarci sopra e liquidare la questione. Perché che non fossero amanti ormai era chiaro, però qualcosa le univa, un sottile filo la cui natura le era estranea.

Quanto era forte quel filo?

L'allarme della polizia suonava distante. Il suo urlo diventava sempre più assordante, affrontava la voce dei tuoni oltre la cupola in una battaglia feroce e dolorosa. Le sirene vinsero, e nel giro di pochi istanti non restava altro nella strada se non il loro lamento vittorioso.

Altair si umettò le labbra, scivolando indietro. «Se volete sprecare tempo a cercare un modo da cagasotto per non affrontarlo, allora fate pure. Io non voglio avere niente a che fare con le vostre cazzate.»

Si diede dei buffetti sulla tuta, come se bastasse a rimuovere le macchie di sangue che la incrostavano.

«E come hai intenzione di riprenderti Nim da sola?» Elettra continuava a sembrare un pezzo di ghiaccio. Un caldo pezzo di ghiaccio, con le braccia penzoloni lungo i fianchi e i muscoli tesi.

«Sfasciando il culo alla strabica, tanto per cominciare.» Si scrollò nelle spalle e le rivolse un cenno di commiato con le dita. «Ora, a meno che tu non voglia aiutarmi a scaricare lo scazzo, mi tolgo dalle palle. Nel caso non te ne fossi accorta, ho la polizia alle calcagna.»

Elettra sbuffò un sorriso alle sue spalle. Non replicò, e Altair si allontanò dal suono fastidioso delle sirene.



Inserì le chiavi nella toppa. Prima ancora di girarle, abbassò la maniglia in uno spasmo che non controllò. La porta si aprì, e lei spinse la lingua contro il palato. Il cuore le si riempì di fulmini e le mandò una fitta.

Nim?

Spalancò l'entrata. Vega dondolava sulla sedia, in bilico sulle sole gambe posteriori, e si teneva aggrappato al tavolino. Altair produsse un verso sdegnato. Le saette le abbandonarono il petto e le emigrarono sulle braccia, dove sprizzarono in superficie.

«Tu guarda, mi ci mancava il superuomo depresso,» disse a denti stretti. «Esci fuori, o ti faccio provare l'ebbrezza di volare fuori dalla finestra.»

Lui si sollevò in piedi, una mano restava poggiata sul tavolo. «Pensavo saresti stata più sorpresa di vedermi qui.»

E perché avrebbe dovuto?

Altair roteò gli occhi al soffitto. L'energia le pulsava contro la pelle, lì dove i muscoli cominciavano a tendersi e a formare i soliti bozzi. «Fammi indovinare, la statua di ghiaccio ti ha dato le chiavi. Ormai questa sembra la casa di una puttana, tutti entrano ed escono come cazzo gli pare.»

Vega aggrottò la fronte. Rifletté davvero sulle sue parole, come se cercasse di trovarci un senso. «Sono abbastanza sicuro che le case delle puttane non funzionino così.»

Altair estrasse le chiavi. Le fece roteare sull'indice. «E lo sai per esperienza personale?»

La mano di lui restava ancorata al tavolo, ma le dita si serrarono e adesso le nocche premevano contro la sua superficie. Se avesse spinto anche con un solo briciolo di forza in più l'avrebbe spezzato in due, e allora sì che Altair gli avrebbe spaccato la faccia. «Non sono venuto qui per parlare di prostitute.» Fece scivolare via la mano e incrociò le braccia sul petto. «E comunque non pagherei mai per una come te.»

Altair gli rivolse un sorriso da squalo. «Non ho nessuna intenzione di unirmi al vostro gruppo di stronzi,» cambiò argomento, secca. Sbatté la porta alle proprie spalle. «Però l'altra volta ti sei divertito a farti pestare, possiamo ripetere l'esperienza quando vuoi.»

«Ti girano perché Miura te le ha suonate?»

I fulmini retrocedettero, come se volessero nascondersi alla vista dell'altro ibrido, e si spensero del tutto; scoppiarono subito dopo, furiosi. «Il vecchio di merda non c'era,» sibilò lei. Degli spasmi le scuotevano il bicipite. «E la strabica se l'è data a gambe.»

Si ostinavano tutti a ricordarle quanto inutile fosse stata la sua sparata. Qualsiasi fosse il loro scopo, non ci avrebbero guadagnato niente, oltre alle ossa rotte.

Dubitava che l'altro non lo percepisse, il desiderio di distruzione delle sue saette. Perché Altair non esisteva nemmeno più, la sua essenza si sgretolò sotto il loro tocco feroce. I pensieri volavano alla velocità della luce, al punto che non coglieva altro che il vuoto, come se al posto di un mare in piena di ricordi – Nim e Miura, Haruka, Elettra che la guardava con quell'aria superiore – non ci fosse nulla.

Eppure Vega non si mosse né si scompose. Fiero come il più snervante dei soldatini, la osservò con un cipiglio. «Cos'hai intenzione di fare? Se ti esplode la casa non muoio mica, sei solo tu che ti ritrovi senza questa...» volse il collo a controllare il letto dietro di sé, «questa bettola

Altair avanzò verso di lui. Gli picchiettò il dito contro l'avambraccio che gli copriva il petto. «Forse non muori, ma almeno ti togli dalle palle.»

L'energia di lui le rispondeva. Non condivideva la stessa placidità di quella di Elettra, somigliava alla sua: pungeva e spingeva e ringhiava. Anche se Vega la teneva rinchiusa, rifletteva la stessa rabbia di Altair.

«Senti, non sono qui per litigare. Anche se mi piacerebbe staccarti la testa dal collo e giocarci a calcio.» Serrò le palpebre per un secondo, la mascella contratta. Quando le riaprì, il suo tono si sforzava di apparire più tranquillo. «Io non ti conosco, va bene? Di te so solo che sei una testa di cazzo e che non vorrei averti nella nostra squadra, ma...»

«Non ho intenzione di lavorare per quello stronzo.» Altair lo spinse. Lui si scostò appena.

«Non ti sto chiedendo di lavorare per lui. Ti sto chiedendo di lavorare con noi.»

«Non mi cambia un cazzo. Non lavoro con nessuno.» Gli rivolse le spalle, ancora un fascio di fulmini. Non avrebbe saputo come farli calmare nemmeno se avesse voluto provare.

«Vuoi veramente che Nim perda la vita per seguire il tuo orgoglio di merda? Ne vale davvero la pena?»

«Oh, no.» Lei schioccò la lingua e tornò a guardarlo. Dischiuse le labbra, azzardò un sorriso amaro. «Non azzardarti a darmi la colpa di quello che succede a Nim. Siete stati tu e quella ghiacciolina a fare il casino. Il mio orgoglio di merda l'aveva tolta dallo schifo.»

Il sospiro di Vega fu pesante. L'aria stessa che respirava trasportava con sé il fardello del mondo intero. «Non capisci. Non aveva scelta.»

«Quindi tu lo sai il perché.»

Una lama le si era conficcata nel palmo, quella sera. Le aveva aperto delle ferite sul collo, le aveva tolto la capacità di inspirare. Eppure era stata capace di provocarle meno della metà del dolore che le si diffondeva adesso nel petto.

I fulmini continuarono a crepitare. Non lo sopportavano.

Perché uno come Vega sapeva e lei no?

«Non è questo il punto,» disse lui.

Altair schiantò il palmo contro il tavolo. Lo scotch che attaccava la gamba scricchiolò. «Vai fuori di qui.»

Lui tentò un passo in avanti, ma l'occhiataccia che gli rivolse bastò a farlo desistere. Ritirò il piede, piano. «Almeno pensaci. Se vuoi davvero salvarla, almeno pensaci.»

«Vai. Fuori. Di. Qui.» Scandì ogni parola, la sua voce un tutt'uno con la Tempesta che crepitava dentro e fuori di lei.

Vega alzò le braccia in segno di resa. «Sai dove venire se cambi idea.» Uscendo, si richiuse la porta alle spalle con delicatezza.

Altair si prese alcuni secondi. L'energia la inebriava della sua forza, ma non c'era nulla di piacevole in quella sensazione. Non capiva nemmeno cosa ci trovasse di solito di bello in un ammasso di fulmini che la folgoravano dall'interno. Ma non l'avrebbero lasciata in pace, e quando ne divenne consapevole si arrese all'evidenza.

Cercò un bicchiere. Lo riempì d'acqua fino all'orlo e lo bevve in un sorso solo. Un fiume intero le scivolò lungo il mento e cercò di lavare il sangue secco sulla sua tuta. Riuscì solo ad allargare le macchie. Solo poche gocce le raggiunsero la gola.

Cadde di peso sulla sedia. Il vetro le scricchiolava sotto le dita. Esplose di colpo. Alcune schegge le si conficcarono nella carne, piccoli pezzetti di fuoco che bruciavano, mentre la maggior parte pioveva a terra.

Osservò i cocci. Ecco cosa sembrava, lei: un ammasso di pezzi di vetro incapaci di rendersi utili. Debole e impotente.

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