Capitolo 20
Elettra aveva la testa leggera. Tastò le fughe del pavimento con il bastone, mentre si voltava per rivolgere un sorriso a persone che non vedeva. Non ricevette risposta, perciò non era sicura che qualcuno si fosse accorto del suo gesto di cortesia, ma poco importava.
Senza il visore si sentiva vulnerabile, una creatura indifesa che si aggirava nel buio. Sorrise al pensiero, mentre lasciava la parrucchiera e usciva sulla strada. Come se non esistessero i fulmini che rimanevano bloccati nella scatola dentro di lei. Come se davvero non fosse lei, la creatura distruttiva che si aggirava per la città.
Non conosceva bene quel lato di Nuova Folk, e i suoni differivano del tutto da quelli a cui era abituata: i freni di tante vetture fischiavano, il vociare era più intenso, come se la gente da quelle parti temesse che gli altri non sentissero e perciò urlassero. Nonostante l'orario del tardo pomeriggio, il quartiere si presentava vivace.
Elettra si tastò la chioma. Percorse l'intera superficie di una ciocca con le dita. Terminò troppo presto, poco più giù dell'attaccatura del collo. Non ci si sarebbe mai abituata.
Una mano le si infiltrò sotto il braccio e la trascinò verso di sé, e il profumo di cocco di Evelyn soppiantò quello dei prodotti per capelli.
«Così hai proprio l'aria della donna di classe,» disse Eve.
Elettra strinse la presa sul bastone. «Grazie.»
«Perfino le tue doppie punte avevano le doppie punte. Non ti si poteva davvero vedere.» Le diede un buffetto amichevole sulla spalla, mentre la accompagnava lungo la strada.
Evelyn si era presentata sulla porta di casa mentre Elettra si godeva del riposo dopo aver ricreato una parvenza di ordine. Cercava Altair, che non si vedeva da un paio di giorni. Si era offerta di propria spontanea volontà per accompagnarla e pagarle una parrucchiera, a patto però che fosse lei a decidere taglio e colore. Aveva anche insistito affinché Elettra lasciasse il visore a casa, per non rovinare la sorpresa.
Dischiuse le labbra per risponderle, quando le urla si intensificarono. Alzò la testa e cercò in quella direzione, come se davvero potesse vedere qualcosa. Ma fu così che la trovò.
La matassa di fulmini che costituivano Altair. Rosse, infuriate, le saette dentro di lei si contorcevano e si avvinghiavano le une alle altre. Portava con sé la luce, e i muri pieni di graffiti comparvero nel buio; la seguivano nella sua avanzata.
Evelyn sghignazzò. «Tu guarda chi spunta dal nulla. Non ho capito se quella era la sua camminata omicida o da rimorchio.»
Elettra picchiettò il terreno con la punta del bastone. «Non mi sembrava di buon umore. Forse dovremmo seguirla.»
L'altra non le rispose nemmeno. Le si strinse ancora di più e la trainò all'inseguimento. Ed eccola lì, Altair, oltre un bivio, un faro che rischiarava le figure di almeno una decina di persone. Persone che gridavano e incitavano, mentre qualcuno emetteva dei grugniti in sottofondo.
Una rissa?
Altair sparì dietro un bidone, con una donna stretta nella sua morsa, costretta a seguirla.
«Continuo a non capire se è in fase da rimorchio o no,» borbottò Evelyn.
La raggiunsero, proprio quando la donna urtò il muro dietro di sé ed emise un gemito.
Altair piantò entrambe le mani contro la parete, intrappolandola. «Dimmi dov'è.» Tanto vicina da sfiorarle il naso con il proprio. Tanto vicina da immergerla nella propria luce.
Le ciglia dell'altra donna frusciarono più volte. Le labbra, di un rosso intenso che spiccava sul suo pallore, si incurvarono in un sorriso. «Di che cazzo parli, Furia?» Le afferrò i polsi, per niente scomposta – come poteva non percepire la forza pungente dei suoi fulmini? – e si protese verso di lei. «Sono una donna di classe, io, se vuoi provarci con me devi prima portarmi a cena.»
Altair le affondò le dita nei capelli. La tirò all'indietro e la costrinse a sollevare il mento. «Stammi a sentire, strabica. Ho le palle girate grazie a te e al tuo gruppetto di stronzi daltonici, perciò dimmi dove cazzo l'avete portata, o ti faccio saltare quella bella faccia da cazzo che ti ritrovi.»
Elettra chiuse gli occhi, e il rosso dei suoi fulmini continuava a passare attraverso le palpebre. Le si conficcava nelle retini, la pizzicava con la sua rabbia. Sarebbe esplosa. Se non si fosse fermata adesso, Altair sarebbe esplosa.
I capelli di Evelyn le solleticarono la guancia. «Continuo ad avere il dubbio.»
La sconosciuta affondò i denti nel labbro con una smorfia, ma l'ombra del sorriso rimase beffarda sul suo viso. «Adesso cominci davvero a esagerare. La violenza è bella fino a un certo punto, sai?»
«Chiudi quel cazzo di becco!» Altair le spinse la nuca contro il muro. Il ginocchio scattò verso l'alto, si conficcò nello stomaco dell'altra. I fulmini aumentarono d'intensità. Elettra premette il palmo contro il petto.
«Deciditi, Furia, devo parlare o no. Certo che hai una tecnica di rimorchio davvero di merda.»
«Mi sento di concordare,» mormorò Evelyn.
Elettra grattava il pollice contro il pomello del bastone. Possibile che nessuna delle due si accorgeva che Altair stesse per esplodere? Eppure la conoscevano meglio di lei.
«Nim,» disse Altair, a denti stretti. «Siete stati voi, vero? Voi e quel vecchio di merda.»
La risata dell'altra fermò il tempo per qualche istante. «Ah, già. Quella piantagrane poteva essere solo tua sorella.» Brutta scelta di parole. Elettra avrebbe voluto dirglielo, di fare più attenzione, di smetterla di aizzare il toro incazzato, ma la gomitata di Altair la zittì prima.
Basta tergiversare. Doveva intervenire.
Elettra scivolò via dalla presa di Evelyn, sollevò il bastone di fronte a sé e ne infilò un'estremità fra i corpi delle due litiganti. Altair schioccò la lingua in un verso infastidito e le rivolse un'occhiata in tralice; l'altra donna sputò un grumo di sangue e saliva sulla guancia della rossa. Una mossa davvero stupida.
«Figlia di puttana!» Altair si mosse troppo veloce: le sue nocche si schiantarono contro la mascella dell'altra, seguendo il flusso concitato dei fulmini dentro di lei.
Per tutta risposta, quella allungò la mano a sfiorarsi l'ammaccatura e rise ancora.
«Altair, basta.» Elettra le premette il bastone sulla gola. Lei stessa non riconobbe la propria voce, il tono deciso con cui pronunciò quelle due parole. Non si aspettava che le obbedisse, perciò trattenne il fiato dalla sorpresa quando la rossa indietreggiò. Anche se la sua energia scoppiava ancora dall'interno – li vedeva, i fulmini, spingere per uscire – in qualche modo restava tutta d'un pezzo. Si controllava meglio di quanto dava a credere.
L'altra donna, ridotta a un volto che appariva e scompariva dalla visuale di Elettra, sghignazzava ancora. «Ti piace fare la dura, ma alla fine ti fai comandare a bacchetta, eh?»
Altair circondò il bastone con le dita e lo scansò. «Sono sempre in tempo a farti scoppiare quelle tette pallide che ti ritrovi.»
«Quindi è questo il problema? Sei invidiosa perché ce le ho più grandi di te?»
«Fatela finita, tutt'e due.» Elettra liberò il bastone e spinse Altair indietro con una mano. Si frappose in mezzo alle due, consapevole che si sarebbe ritrovata un pugno in pieno viso o forse un calcio sulla schiena che non avrebbe saputo fermare. Quella storia però doveva terminare adesso, prima che fosse troppo tardi.
Altair respirava piano, il petto si gonfiava fino al limite ogni volta che inspirava. «Togliti dalle palle, ghiacciolina.»
Degli spilli le si conficcarono nelle pupille. Elettra batté le palpebre, ma il dolore aumentava.
Raddrizzò la schiena. La sua, di energia, crepitava all'interno della scatola. Quella di Altair la chiamava, le prometteva la libertà, e per un attimo lei perse la capacità di formulare anche il pensiero più semplice.
Puntò il bastone contro di lei e le conficcò l'estremità nello stomaco. «No,» disse alla fine.
Una mano le si poggiò sulla schiena. Elettra si irrigidì, e i fulmini le scalpitarono nel cuore.
«Scusatemi tanto, ma non ho nessuna intenzione di partecipare al vostro rituale di accoppiamento.» E la donna la spinse in avanti.
Elettra ruzzolò addosso ad Altair, che la bloccò per le spalle. Il solo contatto con la sua pelle, perfino attraverso i vestiti, le regalò un'ondata di energia pungente. La scatola si scoperchiò, e una scarica di fulmini le risalì lungo il collo. Le due luci si scontrarono, creando un mondo pieno di colori, così grande, così dettagliato. Il viso della rossa si riempì di pori, piccole pellicine le comparirono sulle labbra, l'ombra di un paio di lentiggini le decoravano le guance.
No. No, no, no.
Elettra la scansò, lo stomaco in subbuglio. Controllò dietro di sé, e incontrò solo il muro.
«Se n'è andata.» La voce di Evelyn proveniva dal punto in cui Elettra l'aveva lasciata.
«Figlia di puttana.» Altair fece per andarle dietro. Anche le sue saette avevano trovato la libertà, e le sollevavano un paio di ciocche.
Elettra allungò la mano verso la sua. I fulmini di entrambe si mescolarono, e lei tremò sotto l'effetto dell'adrenalina. «Aspetta. Vuoi far scoprire al mondo che sei un'ibrida?»
Altair si liberò dalla sua presa. «Qual è il problema? Mi basta ammazzarli dopo, no?»
Diceva davvero? Sarebbe stata capace di una cosa del genere? Non sarebbe stata la prima volta che uccideva, dopotutto, perciò forse non mentiva. Forse per lei non sarebbe significato niente di speciale.
I Figli della Tempesta portavano solo distruzione.
E se davvero non esisteva una risposta diversa dalla distruzione, allora Elettra era pronta a cedere.
Afferrò l'estremità del bastone con entrambe le mani. Non aveva mai picchiato nessuno prima di allora, non così. Come sarebbe stato? Ci sarebbe stato un contraccolpo? Mentre il suo cervello si perdeva in mille domande, il corpo agì: colpì il fianco di Altair con tutta la forza che possedeva, una forza mai esplorata prima, una forza non umana. Eppure la rossa incassò la botta con poco più di un gemito; le rifilò un manrovescio sulla guancia.
Elettra finì con il sedere sul pavimento. Si tastò il punto in cui l'altra l'aveva colpita. Non le faceva male. Non provava dolore, solo quella sensazione pungente e fastidiosa.
«Smettila di rompermi i coglioni!» Il sibilo di Altair le sarebbe suonato spaventoso, in un'altra circostanza, così pieno di rabbia. Invece percepì qualcos'altro sotto la corazza di fulmini, sotto la sua forza dirompente. Qualcosa di caldo.
Evelyn comparve nella luce, si protese verso Altair, ma si ritirò subito dopo, le mani sollevate. Disse qualcosa che Elettra non comprese: il sangue che le pompava nelle orecchie coprì le sue parole. Della risposta colse solo la rabbia con cui venne sputata fuori.
Elettra si tenne al muro per rialzarsi. Le voci oltre la strada si allontanarono, forse la donna portava tutti via con sé. «Altair, ragiona. Come pensi di aiutare Nim se ti fai condannare a morte?»
«Come cazzo faccio ad aiutarla se non so nemmeno dov'è?» sbottò lei.
«Sono passati due giorni, sono sicura che sarà tornata a casa ormai.»
Altair si tirò i capelli indietro. «Ci sono stata, a casa! Ho aspettato lì fuori che quella cazzo di rincoglionita tornasse, ma niente.»
A casa, aveva detto. Non "a casa sua", semplicemente a casa.
Elettra recuperò il bastone da terra. Le era rotolato sui piedi. «Ti aiuterò a trovarla. Ti prometto che ti aiuterò, ma questo,» allargò un braccio, come per mostrarle la strada, «questo non è il modo giusto.»
«A meno che il tuo piano fosse diventare la cattiva della storia,» intervenne Evelyn.
«Fanculo.» Altair si premeva il palmo contro la fronte. Tastò il terreno con il tallone. «E che dovremmo fare? L'unica pista che avevo l'avete fatta andare via.»
Avrebbe dovuto risponderle con la serietà necessaria. Elettra riconosceva l'importanza del momento, eppure la tensione uscì sotto la forma di una risatina che non trattenne. Si coprì con il pugno, ma Altair la fissava con i suoi fulmini pulsanti lungo le braccia.
«Che cazzo c'è di divertente?»
«Altair, mi sa che l'hai rotta,» disse Evelyn.
Elettra si schiarì la gola per ricomporsi. «Non avevi detto che i problemi di Nim non ti riguardavano?» Eppure eccola lì, a preoccuparsi tanto per la sorellina da andarsene in giro per l'intera città senza nemmeno fermarsi a riposare per due giorni interi alla ricerca di un indizio.
La mano di Altair rimase aggrappata ai suoi stessi capelli. «Secondo lei non mi riguardano.» Tutta la luce che la circondava si affievolì di colpo. Le saette sparirono e, per la prima volta, Altair si perse nel buio del mondo, illuminata appena solo dal riverbero dell'energia di Elettra stessa.
Lei abbassò il bastone. Senza il richiamo pungente dell'altra, anche i suoi poteri tornarono a nascondersi all'interno della scatola. «Siete due sceme uguali. È convinta di proteggerti così.»
«Proteggere me? Da cosa? Dalla sua stupidità?» La voce di Altair divenne più forte, più aggressiva.
Elettra non si scompose. «Te l'ho detto che siete più uguali di quanto pensi.»
Non ottenne una risposta, né se ne aspettava una. Le si avvicinò, cercandola. Toccò il muscolo del bicipite, duro e contratto, e risalì lungo la spalla, dove si fermò. «Andiamo a casa. Quanto tempo è che non dormi?»
Ottenne uno sbuffo che le accarezzò il viso. «Nemmeno me lo ricordo più.» Si sottrasse da lei. «Si può sapere che cazzo hai fatto ai capelli? Ci hai buttato la candeggina?»
Elettra sollevò una ciocca e se la portò davanti, come se davvero potesse vederla. «La candeggina?»
Il braccio di Evelyn tornò a lambire il suo. «Ti piace il nuovo look? L'ho scelto io.»
«Strano allora che non gliel'hai fatti tingere di rosa.»
«Ci avevo pensato, però non credo che il rosa le doni un granché.»
Elettra non comandò al sorriso di mostrarsi, le labbra si distesero da sole. «Si può sapere che mi hai combinato?»
Ricevette una pacca sulla schiena. Troppo forte, per essere Evelyn. «Mossa di merda, dare carta bianca a Eve.» Altair non aggiunse altro, e i suoi passi si allontanarono, più pacati, nel buio assoluto.
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