Capitolo 17
«Altair?» Evelyn ruotò su se stessa, e la stoffa rosa della gonna si sollevò e si agitò in un ventaglio. «Ti piacciono le volpi?»
Lei alzò il capo a osservarla camminare all'indietro. «Le volpi?»
«Non pensi che siano belle? Hanno dei bei colori.»
Una macchina strombazzò e coprì il resto delle sue parole: una scatoletta a tre porte, dello stesso colore di un piatto di piselli vomitati, suonava senza sosta. Il braccio del guidatore sbucava dal finestrino in una spirale di movimenti esagitati, mentre il camion davanti a lui procedeva a passo di lumaca. Una ragazzina ridacchiò assieme alle amichette nel passare accanto ad Altair e proseguire lungo il marciapiede.
«Le ho viste solo nelle faccine delle chat,» rispose alla fine. Non trattenne la punta di acidità nella voce.
Evelyn gonfiò il petto d'aria, poi sbuffò. «Anche io. Ma sono belle, no? Arancioni, con quei musetti carini.»
«Come no. Sembrano dei cazzo di psicopatici.»
«Ma non è vero!» Restò con un piede sollevato dal pavimento, come se qualcuno l'avesse messa in pausa col telecomando. Quando Altair le sfiorò la spalla nel sorpassarla, riprese a camminare come se nulla fosse; le infilò la mano sotto il braccio – gelida, ma dove cazzo viveva, dentro un congelatore? «Solo perché sei tu la psicopatica non vuol dire che lo siano tutti.»
Altair reclinò il capo. «Eve, che cazzo vuoi?» sbottò.
Lei le si strinse di più. Stava cercando di farle girare le palle, questo era chiaro. «Niente, voglio solo parlare della bellezza delle volpi. Che male c'è?»
«Non me ne frega un cazzo delle volpi.» Altair si liberò con uno strattone.
Eve barcollò un paio di secondi, in equilibrio sulle punte. Mulinava le braccia, nel disperato tentativo di non cadere, cosa che la sbilanciò ancora di più in avanti. Chissà grazie a quale miracolo, non cadde, e anzi si affrettò per recuperare la mano di Altair, rimasta ferma a guardarla.
Questa volta si sottrasse subito alla sua presa.
«Certo che ultimamente sei intrattabile.» Evelyn arricciò le labbra.
Altair la distanziò, sollevando le dita in aria in un gesto secco. «Solo ultimamente?»
L'altra le spuntò a fianco. Spargeva profumo di cocco, quel giorno. A quanto pareva, era iniziata la sua nuova fissa: l'era del cocco.
«Hai combinato qualche casino con Nim, vero?»
La domanda arrivò improvvisa, eppure una parte di lei se l'aspettava. Perciò, nonostante i gorgoglii dello stomaco – che chiunque avrebbe scambiato per fame, invece erano solo i fulmini impegnati a friggerle gli organi interni – schioccò la lingua e volse lo sguardo sulla strada, dove le macchine si susseguivano lente, in un ingorgo frustrante.
Evelyn le picchiettò la spalla e slittò all'indietro non appena Altair si girò. «Devo prenderlo come un sì?» chiese la bionda.
Lei infilò l'unghia nell'anello che univa le chiavi di casa a quelle della moto. «Non rompere le palle, non ho niente.»
«Non è vero.» Eve sporse il busto in avanti, come se cercare il suo sguardo da un'altra angolazione potesse sortire un effetto diverso. «Sei sempre una testa di cazzo, ma almeno di solito sei una testa di cazzo simpatica.»
La punta di metallo dell'anello le si conficcò nella carne. Altair ritrasse il pollice. L'aculeo di un insetto che le viaggiava sotto l'unghia, mentre i fulmini si concentravano in quel punto a riparare il danno. Nascose la mano nella tasca, consapevole che il sangue l'avrebbe macchiata. «Fa poca differenza, comunque. Tanto non mi parla nemmeno più.»
«Quindi è successo qualcosa,» esclamò Evelyn, i palmi premuti l'uno contro l'altro davanti le labbra.
«Quella marmocchietta mi fa uscire pazza. Fa un sacco di cazzate e poi rompe il cazzo perché la tiro fuori dai casini.»
«Continua a ricordarmi qualcuno.»
«Io non...» Altair cacciò la mano dalla tasca. Il guizzo dei fulmini sull'unghia emanò un bagliore che colse con la coda dell'occhio. Racchiuse il pollice fra le altre dita, mordendosi il labbro, e lasciò ricadere il braccio lungo il fianco.
Il chiarore rosso le bagnava le scarpe, i pantaloni e la carta di una caramella accartocciata accanto ai suoi piedi. L'imprecazione non fece in tempo a raggiungere le labbra che la luce lampeggiò.
Un ragazzo la oltrepassò, lo sguardo basso sul cellulare. Non degnò di una sola un'occhiata né lei né il neon che si accendeva con intermittenza alle sue spalle.
«Me li sono sempre aggiustata da sola, i miei casini,» sibilò alla fine. E sferrò un calcio contro la carta. Quella si sollevò in aria e si distese, per poi fluttuare verso il pavimento.
Evelyn non batté ciglio. «Certo. Io non ti ho mai aiutata, vero? La grande e incazzosa Altair fa sempre tutto da sola.»
Altair le diede le spalle. Mentre le saette le stridevano sottopelle, calciò l'insegna al neon. Alcune scintille le circondarono la caviglia e il calore della corrente le provocò un brivido di piacere percorrendole la gamba.
«Ma che fa?»
«Ehi, signorina, che cazzo ti salta in testa?»
«C'è un agente nelle vicinanze?»
Le voci che seguirono servirono solo a farle girare ancora di più le palle. La scritta ormai illeggibile scivolò lungo il muro e si schiantò in uno sprizzare di scintille. Altair trascinò Evelyn via con sé, ignorando le grida della gente. Qualcuno aveva alzato il telefono, e non dubitava che, nonostante si fosse voltata, una sua foto sfocata sarebbe andata in giro per le strade di Nuova Folk per qualche tempo. La teppista dalla chioma rossa fuori di testa.
Svoltarono un paio di strade in più del necessario, accompagnate dalle risatelle di Evelyn. La nuvola di fumo e olio di motore le accolse prima ancora che il garage di Keira comparisse nella visuale. Altair si arrestò ad alcuni metri.
«A proposito di casini,» le disse Eve, con un sorriso che le attraversava entrambe le guance.
Che stronza.
«Non rischio come rischia lei, è diverso,» si giustificò, e perfino lei stessa si stupì delle parole che le uscirono.
Evelyn arricciò il naso. «Davvero? Quindi se scoprono chi sei non rischi niente? Che fai, distruggi tutta la città?»
Una punta di fastidio le colpì i palmi. Unghie che scavano la carne, e il prurito dei fulmini che correvano a risanare le ferite non appena Altair allentò i pugni. «Sì, se serve.»
Il modo in cui Eve la osservò, con le labbra ridotte a due linee sottili e il collo inclinato da un lato, le scatenò un'ondata di energia elettrica sul fondo dello stomaco. La bionda prese tempo, forse a cercare la formulazione esatta di parole che l'avrebbe fatta incazzare di più ma, prima che potesse dar voce al risultato, degli sprazzi di un dialogo di Keira la distrassero.
Altair non comprese nemmeno una singola parola. Riconobbe Keira dalla voce roca. Qualcun altro le rispondeva, una donna e, sebbene fosse sicura di averla già sentita da qualche parte, non avrebbe saputo dire dove.
Accolse la distrazione con uno sbuffo sollevato e si addentrò nella nuvola di fumo che volteggiava nel garage. Evelyn le trotterellò dietro; stranamente, anziché lanciarsi addosso a Keira come un koala con problemi di affetto, tentennò di fronte a una moto senza una ruota. Degli adesivi osceni tappezzavano la carrozzeria, la maggior parte a coprire – senza troppo successo – delle ammaccature.
Altair passò le dita sulla chioma di una mora in costume, o su quel che rimaneva del suo adesivo. Nim era andata a riprendersi la carretta da Logan, chissà quando era successo. Era stato prima o dopo la sfuriata dell'altro giorno?
«Oh, ce l'avete fatta!» Keira fece girare la sedia davanti alla scrivania e accolse entrambe con un paio di occhiali protettivi.
«Sai com'è, Altair ha perso un po' di tempo a prendere a calci i muri,» rispose Evelyn.
Qualcuno doveva aver lasciato un sacchetto dell'immondizia a decomporsi da qualche parte, a giudicare dalla zaffata che investì Altair non appena sollevò la testa per guardarsi intorno. O magari un qualche cadavere. Non si sarebbe stupita, se fosse sbucato uno sciame di mosche da qualche angolo.
Si portò una mano davanti al naso con una smorfia. «Se mi hai chiamata perché ti serviva una mano a toglierti un cadavere dalle palle, almeno potevi farlo prima che iniziasse a puzzare peggio della merda.»
Keira le rivolse soltanto un cenno, come a indicare qualcosa dietro di lei. Tratteneva a stento una risata, e le labbra le tremavano.
«Temo di essere io, il cadavere in questione.» Ancora quella voce.
Una donna sedeva su una sedia pieghevole, nell'angolo, proprio lì dove la lampadina che dondolava dal soffitto non riusciva ad arrivare. Eppure, i lineamenti nascosti nell'ombra e dalla sporcizia le suonarono subito un campanello d'allarme, o forse fu il modo in cui la osservava, come se vedesse dentro di lei.
Altair alzò il sopracciglio e si appoggiò alla moto. «Cazzo, Keira, l'hai ammazzata male, parla ancora. Devo rimediare?»
Le arrivò una sberla dietro la nuca. Scoccò un'occhiataccia in tralice a Evelyn, ma a lei non importò. «Smettila di fare l'idiota, Altair. Non lo vedi che è una senzatetto? Certo che puzza, ma non è il caso di farglielo notare così.»
La donna abbassò le palpebre, le dita serrate attorno alla stoffa della maglia sudicia. «Non è un problema. Sono la prima a farsi schifo da sola.»
«Ti fai schifo sì. Potresti fare da allucinogeno ambulante.» Altair montò in sella e si protese verso il manubrio.
«Sarebbe un ottimo modo per guadagnare in effetti,» annuì lei. «Vuoi essere la mia prima cliente?»
Altair sbottò in una risata, ma l'odore pestilenziale le si insinuò nella bocca e la smorzò con una smorfia. «No, mi so divertire anche senza avere visioni strane.»
«Non ne dubito.»
Forse fu la nota di divertimento nel suo tono, o forse la punta di saccenza, tipica di chi credeva di averla inquadrata, che le provocò una scarica di irritazione lungo la schiena. Altair girò il manubrio della moto spenta, in un gesto secco. Immaginò lo scoppio del motore, il rumore che copriva la risatina di Evelyn – non che quella carretta potesse fare molto di più che sbuffare qualche nuvola di fumo.
«Altair, già che ci sei, mi serve il tuo aiuto,» intervenne Keira. «E no, non per rimuovere un cadavere, e nemmeno per iniziare un'attività illecita di droga, anche se questa è un'idea interessante.»
Evelyn salì in sella dietro ad Altair. «Io non credo che sia un granché, vendere roba che ti rincoglionisce i clienti.»
«Tecnicamente, più sono rincoglioniti e più li freghi facile.»
«Sì, però potrebbero mettersi cose strane in testa. Magari provano a derubarti, perché non hanno soldi ma sono in crisi d'astinenza. Mi sembra pericoloso, io lascerei perdere.»
Altair reclinò il capo. «Si può sapere che cazzo vuoi?» chiese a Keira, interrompendo il loro discorso imbecille.
Keira afferrò un aggeggio sulla scrivania e lo sollevò per mostrarglielo: un contenitore quadrato e sottile, che si perdeva fra le sue dita, ma che raccoglieva la luce della lampadina e la racchiudeva dentro di sé in uno scoppio di colori. «Mi serve che mi trasferisci i tuoi fulmini qui. Pensi di poterlo fare?»
Glielo lanciò e lei lo intercettò al volo. La consistenza ricordava un semplice pezzo di vetro.
«Senza farlo esplodere, magari,» aggiunse Keira.
La donna seduta nell'angolo restava composta. Per fortuna aveva la capacità di trasformarsi in una statua, perciò il suo tanfo non si sparse oltre. E, proprio come una statua, il suo sguardo si perdeva nel vuoto. Poi spostava l'attenzione su Altair, ed ecco che compariva una consapevolezza, nei suoi occhi, che le dava i brividi.
Altair la accennò con il capo, rivolgendosi a Keira.
Quella alzò il pollice, per intimarle che era tutto apposto. «Tranquilla, è come te.»
«Ah, sì?»
Non emanava nulla di particolare, quella senzatetto, a parte l'odore stordente. Nessuna energia, nessun sentore della Tempesta. Era solo un cazzo di punto interrogativo vagante.
«E non può farlo lei, allora?» disse, acida. «Che cazzo mi hai fatto venire a fare fin qui?»
L'ibrida senzatetto si lisciò la gonna. «Non sono capace di trasferire i miei fulmini su altre superfici. Lo farei esplodere, credo.»
Altair sollevò il contenitore sulla testa. «E che cazzo ci vuole? Che sai fare, allora? Lanci saette come un supereroe dei fumetti?»
Lei mostrò un mezzo sorriso. Finto, eppure caldo. «Più o meno.»
«Altair, per favore, non farlo scoppiare,» intervenne Keira, china sulla scrivania a trafficare con qualcosa. «Basta la stessa quantità che useresti per caricare le pile di un telecomando. Pensi di saperlo fare?»
«Per chi cazzo mi hai preso?»
Ci azzeccava solo una volta su tre; le altre due le pile esplodevano o restavano morte. Ma dall'ultimo tentativo era sicura di aver imparato il meccanismo, ormai.
Evocò soltanto un fulmine, piccolo e pigro, che si arrampicò sul contenitore e ne rimase intrappolato. Lo osservò contorcersi all'interno di quello che sembrava vetro con un ghigno stampato sul volto. Non aveva mai provato a imbottigliare la sua stessa energia, prima.
Lo scagliò sulla scrivania di Keira; le atterrò accanto al gomito, e lei lo prese con tutta calma per poi chinarsi ancora sul suo lavoro.
«Ma cos'era quella roba?» chiese Altair.
«Ah, serve a contenere i fulmini. Figo, vero? È fatto dello stesso materiale della cupola.» Seguì una serie di click, poi Keira girò la sedia verso di loro. Fra le mani, teneva un visore. «Ora dovrebbe andare,» commentò, alzandosi per raggiungere la senzatetto. Come facesse a non svenire così vicina a lei, Altair davvero non ne aveva idea.
La donna cercò l'oggetto a tentoni. «Grazie.» Lo indossò, e la luce azzurrina che lampeggiava sul visore le copriva la parte superiore del volto. Lasciò due dita appoggiate contro il vetro dello schermo, le labbra increspate.
«Ci vedi adesso?» le chiese Keira.
Altair smontò dalla moto per pararsi davanti a lei. Con una mano si coprì il naso, con l'altra sollevò il dito medio. «Funziona? Quante sono queste?»
Lei sbuffò l'aria dal naso, ma distese i muscoli in un sorriso. «Ti vedevo anche prima. E comunque, vaffanculo anche a te.»
«Se mi vedevi a che serve quella roba?» Indicò il visore.
«Vedo solo i fulmini. E tu sei una torcia che cammina.» La senzatetto si alzò in piedi, dandosi qualche buffetto sui vestiti. Sollevò una nuova ondata di puzza. «Comunque, Altair, io sono Elettra, e ho una proposta da farti.»
Lei la squadrò da capo a piedi. Alzò i palmi e indietreggiò. «Ah, no, non riuscirei neanche a toccarti conciata così. Fatti una doccia e ne riparliamo.» Fece una pausa e tirò su col naso. «Anche due o tre.»
«Qualcuno mi spiega cosa sta succedendo?» chiese Evelyn, ancora seduta sulla moto.
Keira le carezzò una spalla. «Nim l'ha portata qui e mi ha chiesto di farle quel visore.»
Nim.
Certo. Avrebbe dovuto pensarci.
Altair incrociò le braccia. «Quindi tu sei la fidanzata cieca che si è fatta cornificare dopo due minuti?»
Elettra inclinò la testa. «Cosa?»
«Scusala,» le urlò Eve, «non sa pensare a niente a parte il sesso e menare le mani.»
Il punto interrogativo vagante si arricciò una ciocca di capelli – tanto unta da essere diventata una forcata di spaghetti – attorno all'indice. «Altair, ho una proposta da farti. O un favore da chiederti, e no, non ho nessuna intenzione di provarci con te. Senza offesa, ma non sei il mio tipo.»
Per tutta risposta, lei alzò le spalle. «No, certo. Dopotutto non mi piace rotolarmi nella spazzatura.» Agitò la mano in aria, con aria annoiata. «Ma non mi frega un cazzo della tua offerta, puzzola, perciò me ne vado prima che cominciano a venirmi le visioni.» Si incamminò fuori, lungo il marciapiede vuoto, sotto lo scroscio della pioggia che si infrangeva contro la cupola.
Non avrebbe saputo dire cosa fosse arrivato prima, se il rumore dei passi o la puzza, forse la raggiunsero insieme. Roteò gli occhi, ma non si arrestò.
Elettra comparve al suo fianco. «Ho bisogno di un posto dove stare,» cominciò.
La risata di Altair la indusse ad acciaccarsi la lingua. «E da me cosa vuoi? Prova con uno di quei vecchi bavosi dal portafogli gonfio. Scommetto che non baderebbero nemmeno all'odore.»
«No, io non...» Le sue dita la sfiorarono.
L'energia che divorava Altair dall'interno si arrestò un attimo, a contatto con quella di Elettra. Si accartocciò su se stessa e poi, come una fisarmonica, si espanse verso l'alto, a cercare una via d'uscita. Le si drizzarono alcuni capelli sulla nuca, e inchiodò sul posto, i pugni serrati.
Avrebbe potuto sfogarsi. Non sapeva di preciso in che modo Elettra usasse i suoi fulmini, ma di sicuro una cosa la sapeva: con la forza immensa che possedeva, le avrebbe tenuto testa. Non alla Furia Rossa, quella che si tratteneva come poteva, ma ad Altair e alla sua rabbia dirompente.
Elettra ritirò il braccio. «Ascoltami soltanto un attimo.»
«Senti, non me ne frega un cazzo se puzzi e non sai dove andare, non sono problemi miei. E poi perché vieni a rompere le palle proprio a me?»
«Nim.» Ancora quel nome. Suonava così strano dalle sue labbra. Più dolce. «Mi ha detto lei di chiedere aiuto a te. Non posso più stare con gli altri senzatetto, e non può portarmi a casa sua.»
«E perché no?»
«Perché a quanto pare c'è una taglia sulla mia testa e non è il caso che la madre mi veda.»
«Senti, te lo dico per l'ultima volta,» Altair estrasse le chiavi dalle tasche e le fece roteare davanti al naso dell'altra, «già una persona di troppo può entrare e uscire da casa mia come cazzo le pare. Il mio appartamento farà pure schifo, ma non è una di quelle bettole dei bassifondi dove ci stanno settecento stronzi inscatolati come sardine.»
La mano di Elettra scattò in avanti, improvvisa; Altair ritirò il braccio appena in tempo, ma la sentì sfiorarla. Era veloce, la stronza. «Sarebbe solo per un po',» disse, come se nulla fosse. «E anche tu ci guadagneresti.»
Nascose le chiavi nel palmo. «E cosa?» sbuffò.
«Devo dirti una cosa che riguarda Nim.»
Ancora Nim. Sempre e solo Nim. Ultimamente la sua vita sembrava non esistere nemmeno più: tutto girava attorno alle cazzate della sua sorellina pestifera. La stessa che la temeva, la stessa che non trovava nemmeno il coraggio di parlarle e la lasciava a marcire nel silenzio di insulti non detti.
Delle risate giunsero dall'interno del cinema lì vicino. Un'anta della doppia porta si aprì per lasciar uscire un gruppo di amici, gente sulla trentina. Una di loro piantò il suo sguardo ambrato sulle figure di Altair ed Elettra, soltanto per un secondo, mentre il tizio a cui si teneva aggrappata chiacchierava con gli altri.
Altair non attese che si allontanassero. «Se è qualcosa di così importante, me lo dirà lei.» Come se credesse davvero a una possibilità del genere.
«Ma a quanto ne so, è da un po' che non ti parla più,» disse Elettra, in un tono diverso, non più risoluto, bensì caldo. Comprensivo.
Una gomitata nelle viscere, ecco cosa le sembrò. Le fece più male del dovuto, e non vedere l'espressione dei suoi occhi oltre il visore non la aiutò: se la immaginava, a mostrarsi miserevole, forse addirittura a credere di esserlo. Come se Altair altro non fosse che una creatura da compatire.
«Si vede che i suoi problemi non mi riguardano, allora,» sputò fuori alla fine. E lei stessa fece una smorfia per la pateticità celata in quell'affermazione.
Elettra le cercò la spalla, ma lei si scansò. «Posso aiutarti a convincerla a parlarti di nuovo.»
Altair mostrò i palmi, in un finto segno di resa. «Lo sai cosa? Dovresti imparare a farti una buona dose di cazzi tuoi, puzzola. Non mi interessa la tua offerta, perciò vai a pure a giocare alla strizzacervelli con qualcun altro.» Girò sui tacchi, intenzionata a lasciare la rompicoglioni fuori dalla propria vita, in una realtà diversa. Proprio come Nim.
Quella però fece un sospiro e provò ancora. «Allora dimmi tu cosa vuoi.»
Altair tornò a guardarla. «In che senso? Te l'ho detto, non mi interessi.»
«Posso pulirti casa o fare le cose che ti annoiano. Quello che vuoi. Decidi tu i termini,» fece una pausa, «non ti sarò d'intralcio.»
«Mi prendi per il culo,» rispose lei, ma rilassò i muscoli e sbuffò per l'ennesima volta. «Vuoi diventare la mia cameriera personale? Cazzo, fa tanto sogno erotico di un ragazzino sfigato.»
«Ho un disperato bisogno di un posto dove stare. E mi fido del giudizio di Nim.»
«Fidarsi del giudizio di Nim è la cazzata più grande che puoi fare,» disse Altair. Poi sospirò, esasperata, mentre si agitava i capelli con una mano. La marmocchietta la metteva sempre nella merda. «Va bene, ma è solo finché non trovi una soluzione migliore. E dovrai badare a tutte le questioni pallose.»
Non aggiunse altro e scorse solo di sfuggita il sorriso composto di Elettra, perché si avviò di nuovo verso casa. E quando le si affiancò per seguirla in silenzio, non la allontanò.
Mi scuso per la lunghezza esagerata del capitolo, certe volte non so cosa sia la sintesi.
Nel prossimo vedremo come se la cavano insieme queste due.
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