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Capitolo 15

Bruciavano ancora, quando li cercava. Piccoli focolari intrecciati gli uni agli altri, rinchiusi dentro una scatola dalle pareti piene di crepe. Si sarebbe rotta presto, lo sapeva. Il desiderio di rattopparla la consumava ogni volta che si avvicinava, ogni volta che scrutava all'interno. E nel vedere il baratro di oscurità nascosto nella scatola, scopriva che non esisteva un fondo e la luce dei fulmini si perdeva nell'infinito.

Elettra lasciò che l'aria le riempisse i polmoni. Li gonfiò, li gonfiò fino a farsi male, e anche allora trattenne il respiro il più a lungo possibile. Dell'odore di sudore, sporcizia e corpi umani ammassati non restava nulla, l'abitudine le impediva di coglierne le sfumature ormai.

Fece uscire l'aria. I fulmini nel baratro placarono il loro bagliore. Adesso. Adesso. Era il momento.

Affacciata sul ciglio, tese la mano. Quelli si ridestarono all'istante, come tanti serpenti attirati dal canto del flauto. Le avvolsero il polso e la tirarono giù. La ferirono. La scottarono. Ritirò il braccio, o almeno ci provò, senza successo; i fulmini non l'avrebbero lasciata, la loro sofferenza le entrava dentro e le spalancava la bocca, ma nessun suono ne usciva.

«Accettali.» Yunca, con la sua voce, le ricordò dov'era. Le ricordò chi era.

Elettra smise di lottare. Deglutì e rimase a osservare le folgori risalirle lungo l'avambraccio, fino alla spalla, prendere il controllo del suo intero corpo. Il sale delle lacrime le penetrò nelle labbra. Chiuse gli occhi, ma nulla cambiò: il baratro restava lì, i fulmini continuavano ad arrampicarsi nel buio.

«Anche se fanno male, devi accettarli.»

Un nuovo calore la avvolse, più gentile. Non chiedeva distruzione, né si nutriva della sua energia. I fulmini di Yunca le discesero lungo le braccia, incontrarono i suoi, e per un attimo Elettra si morse il labbro tanto forte da sanguinare, in attesa della lotta. Quelli però non si azzuffarono, si accarezzarono.

E il bruciore della sofferenza si attenuò.

«Ecco, così,» la incitò Yunca. «Ora apri gli occhi. Guardati intorno, dimmi cosa vedi.»

Non avrebbe visto nulla, lo sapeva, eppure seguì le sue istruzioni.

Si aspettava il mondo buio a cui oramai si era rassegnata e, al massimo, solo la luce di Yunca a illuminarlo un minimo. Invece scorgeva il libro privo di copertina buttato accanto alle gambe incrociate di lui, le sue scarpe sudicie, la stoffa dei pantaloni, ma non era lui a brillare, e il suo viso non era altro che una sagoma dai tratti indistinti.

Elettra alzò le mani. Osservò le proprie dita e le folgori che le percorrevano. Un peso invisibile le premeva contro il petto.

«Allora?»

«Ancora non credo... non credo di controllarli,» disse. Non li costringeva lei a restarsene buoni anziché esplodere in ogni direzione come le poche volte in cui aveva provato a utilizzarli. Erano calmi e basta, ipnotizzati da qualche forza superiore che lei non sapeva spiegarsi.

Yunca raccattò il libro da terra. «È così che si inizia. Ricordati, hanno sempre qualcosa da dirti. Devi ascoltarli, e poi devi imparare a veicolare i loro desideri.» Le posò il volume sul grembo. «Riesci a leggere le scritte?»

Elettra sfogliò le pagine. Le lettere prendevano vita sotto il bagliore dei suoi stessi fulmini, formavano parole, frasi, paragrafi. Le scritte si dividevano in due colonne per facciata e, anche nella migliore delle sue condizioni, avrebbe faticato a leggerle senza l'aiuto di un paio di occhiali. Invece distinguere le parole le riusciva facile se seguiva le righe con l'indice e lasciava che la sua energia le illuminasse da vicino.

Spiegava il funzionamento della cupola che sovrastava la città e delle sostanze aggiunte in fase di produzione che le permettevano di resistere alla forza della Tempesta. Sostanze che a poco a poco perdevano efficacia. Se non si fosse trovata una soluzione, si prevedeva una crepatura, forse addirittura una rottura della cupola nell'arco di un centinaio d'anni.

Lesse con attenzione, sebbene avesse già studiato l'argomento nei corsi dell'università. Si perse nelle nozioni e, quando rialzò gli occhi per cercare la figura immobile di Yunca, si accorse che il peso che le gravava sul petto era sparito.

Yunca le tolse il libro dalle mani. Cacciò il fiato, come per dire qualcosa, ma l'urlo di una donna lo ammutolì.

Elettra cercò con lo sguardo oltre il buio più in là, dove i suoi fulmini non arrivavano. Gli altri senzatetto parlottavano, alcuni si allontanavano di corsa. Uno o due entrarono nella sua visuale, per un istante, e sparirono oltre.

Yunca si portò un dito alle labbra, poi le rivolse un cenno con la mano. Lei capì subito l'antifona, e si riaffacciò sul baratro della propria mente. Lì, chiese ai fulmini di immergersi di nuovo nella profondità della scatola e li sigillò.

Impiegò alcuni istanti a comprendere di avere gli occhi aperti.

Gli schiamazzi aumentarono d'intensità. Elettra appoggiò una mano contro la parete accanto a sé e si sollevò in piedi. La mano di Yunca giunse a sostenerla, sebbene non ce ne fosse davvero bisogno. La gonna di lei frusciò nel seguire i suoi movimenti.

Tese le orecchie, in ascolto.

«Ma chi è, quello?»

«Non lo so, il solito drogato.»

«Però ha una pistola.»

Perciò qualcuno si era fatto strada fra i senzatetto, armato, ma per fare cosa? Spaventarli?

Elettra ricordava ciò che le aveva detto Yunca il primo giorno in cui si erano incontrati: drogati e teppisti bazzicavano spesso nei dintorni. Da quando la vita in strada era diventata la sua normalità, episodi simili non erano mai capitati. Sperare che la pace continuasse per sempre era stato da ingenui.

L'urlo della donna risuonò ancora, più vicino. Qualcosa la soffocò subito dopo, sebbene la voce continuasse a filtrare attraverso, cos'erano? Dita?

Il panico generale aumentò. Strepiti concitati rimbalzarono sulle pareti.

«Fermatevi, cazzo! Fermatevi o giuro che sparo!»

Elettra non avrebbe saputo dire che genere di persona si sarebbe aspettata, a minacciare un gruppo di senzatetto con una pistola nella mano e un ostaggio nell'altra. Un ragazzino allampanato dalla droga, magari. Un qualche teppista che voleva apparire più grosso e importante di quanto non fosse in realtà.

Invece, il tremolio nella voce dell'uomo la colpì. Suonava spezzato, nonostante sforzasse di modellare il timbro per apparire più minaccioso.

Gli altri borbottarono ancora fra loro, in un ronzio basso ma costante.

«E zitti! State zitti, per favore!» Sulle ultime due parole, la voce salì di un paio di ottave.

Il silenzio avvolse il mondo.

Elettra tastò la parete, si aggrappò alla gonna dal tessuto già tornato umido. Era viva? Esisteva ancora? E il resto dell'universo, quello esisteva?

Le mancò il fiato. Nemmeno l'aria c'era più, sparita assieme al resto della realtà. Si portò una mano al petto.

«Dov'è l'ibrida?» urlò l'uomo.

Il cuore le balzò nella gola, le si incastrò nella trachea. Attese e attese e attese, ma nessuno gli rispose.

«Allora, dov'è? Deve essere per forza qui, no? Insomma, dove cazzo può essere andata?»

Elettra cercò nei meandri dei propri ricordi una voce che assomigliasse anche vagamente a quella di lui. Una memoria confusa la dipingeva nell'atto di porgere delle scuse a un qualche professore universitario per essere arrivato in ritardo. Sempre ammesso che non fosse solo qualcuno con un timbro simile.

«L'ibrida è morta,» disse Yunca, troppo vicino a lei.

Lei si appiattì contro il muro. Non doveva vederla. Se frequentavano lo stesso corso, la possibilità che la riconoscesse era alta. Troppo.

La risata dell'uomo le graffiò le orecchie. «Non hai sentito, vecchio? Hanno riconosciuto il cadavere, e non era lei, ma una sua compagna di corso sparita da un po'. Era,» il mugugno della donna nella sua morsa lo interruppe un istante, «la mia ragazza.»

Elettra si premette i palmi contro le labbra per impedirsi di urlare.

«La vendetta non vale la tua morte, giovinastro. Fossi in te non mi metterei contro un'ibrida. Non contro di lei, almeno.»

«Stronzate!» Una serie di respiri strozzati intervallava le sue parole. «Perché dovrebbe nascondersi, se è come dici tu? Ditemi dov'è, o giuro che la ammazzo!»

Cosa avrebbe dovuto fare?

Salvare la donna avrebbe significato esporsi. Scappare avrebbe significato lasciare l'ostaggio nelle mani di un pazzo disperato armato di pistola. Ucciderlo sarebbe stata la soluzione più facile, la più logica.

Il muro le premeva contro la schiena, l'unica sicurezza che possedeva in quel momento di confusione totale. Gli altri non si sarebbero messi in mezzo: li sentiva chiacchierare fra loro, bisbigliarsi a vicenda di starsene fermi ad aspettare che fossero i diretti interessati a sbrigarsela. Nei bassifondi nessuno si poteva permettere di rischiare per gli altri. Ognuno viveva per sé e per la propria famiglia, se ne possedevano una.

Un dito le picchiettò sulla spalla. Il respiro caldo di Yunca le sfiorò l'orecchio. «Io non posso fare granché. Provo a distrarlo, aspetta il mio segno.»

Elettra deglutì un fiume di saliva e dischiuse le labbra per pregarlo di non andare, di non lasciarla, per dirgli che non era pronta, quando il rumore dei suoi passi si allontanò.

«Fermo!» Le sembrò quasi di vederlo, nella propria testa, l'uomo armato di pistola che si girava tremante in direzione dell'ibrido. «Non ti avvicinare, giuro che sparo. Io non ho paura di ammazzare, capito?» L'isteria si impossessava sempre più di lui.

«Te l'ho detto, lascia perdere,» gli rispose il Figlio della Tempesta. Qualche istante di pausa, poi, con una calma che gli invidiò, disse: «Ora.»

Elettra capì cosa doveva fare. Inspirò a fondo e scoperchiò la scatola. Attorno a lei, il mondo si dipinse di mille colori. Le persone vicine si allontanarono non appena notarono i fulmini avvilupparla da capo a piedi. Lei non ci badò. Le fremette il cuore, ma non badò neanche a questo.

L'assalitore le dava le spalle, mentre Yunca se ne stava con le braccia sollevate accanto a una busta piena di immondizia. Un oggetto luminoso lampeggiava non molto lontano dai due. Elettra lanciò una scarica nella sua direzione, e i fulmini sollevarono la luce in aria. Un faretto, forse. Sfarfallò, mentre lo scagliava contro la schiena dell'aggressore.

Lui lanciò un grido, e la pistola gli cadde di mano. La donna in ostaggio ne approfittò per affibbiargli una gomitata nelle costole prima di fuggire via in uno scalpiccio. L'uomo emise un lamento, piegato in due dal dolore. Nonostante tutto, si buttò a terra per raccattare l'arma prima che Yunca avesse anche solo il tempo di provarci.

Elettra distese le dita davanti a sé. L'energia confluiva sui polpastrelli, gridava e fremeva di uscire fuori, vittima di una nuova sensazione, così impellente da soffocare la sofferenza che aveva imparato a conoscere. Il cuore le accelerò. Il sangue le pompava nelle vene, impazzito.

Cos'era? Cos'era tutta quella voglia di distruzione?

Esitò.

Lo sparo squarciò il tempo e lo spazio. L'ululato ferito di qualcuno le cancellò ogni pensiero dalla testa. Un rantolo si perdeva nelle urla terrorizzate degli altri senzatetto. Passi concitati. Altre grida. Corpi che entravano e uscivano dal buio al rallentatore.

Uno solo si muoveva a una velocità aumentata, o così le parve. Se lo ritrovò addosso. Un odore pestilenziale la colpì, poi arrivò una pioggia di cose umide e leggere. E infine una busta a coprirle la testa. Il ferro della pistola le premeva contro lo stomaco, le congelava il respiro.

Un liquido le imbrattò i capelli e le colò lungo il collo, macchiandole i vestiti.

«Vaffanculo.» La voce dell'uomo le arrivò in un sibilo attutito oltre la busta.

Le saette esplosero in una scarica di terrore.

Un rantolo.

Elettra afferrò la pistola e la allontanò da sé. Quando le dita scivolarono via dalla canna, i lamenti terminarono.

Si tolse la busta di dosso e lui era lì, davanti a lei, una sagoma accartocciata su se stessa. Si reggeva a malapena in piedi.

Cosa aveva fatto? Ancora, ancora lo stesso errore. Se non si fosse fermata, gli avrebbe fatto fare la stessa fine della sua fidanzata.

Lui barcollò all'indietro. Qualcuno gli urlò qualcosa. Lui sollevò a fatica l'arma verso l'alto, in un segno di avvertimento, mentre si allontanava traballante.

Elettra sentì il potere defluirle dai muscoli di sua spontanea volontà. Tornò a dormire all'interno della scatola e, quando il coperchio si richiuse, se ne rimase fermo, placido. Soltanto ondate di energia randomiche la invadevano di tanto in tanto, mentre il mondo intorno a lei si muoveva, in subbuglio.

Qualcuno la scosse per le spalle. L'odore, la forza gentile sopita dentro di lui la aiutarono a riconoscere Yunca. Le sue parole arrivarono soltanto dopo, a poco a poco, ma sembravano provenire da un'altra realtà.

«... devi andartene da qui! L'hai sentito? Adesso sa dove sei!» Fece schioccare la lingua e continuò, piano, quasi come se ce l'avesse con se stesso: «Avresti dovuto ammazzarlo.»

Elettra si circondò il busto fra le proprie braccia. «Dov'è adesso?» chiese in un sussurro. «Che è successo?»

«Non è niente. Si riprenderà. Ma adesso devi...»

«Chi è?» lo interruppe.

Yunca fece schioccare la lingua, seccato. «Una ragazza. Non mi ricordo come si chiama. Contenta, adesso? Cosa cambia?»

Una ragazza. Se non si fosse fatta prendere dalla paura, forse lei non sarebbe stata in pericolo di vita, adesso.

«Ascoltami.» Yunca le affondò i pollici nelle spalle. «Quel bastardo adesso è scappato a gambe levate, ma sa che sei qui, manderà sicuramente qualcuno a cercarti.»

Elettra annuì, sebbene le sue parole le vorticassero senza un senso nella testa. Impiegarono alcuni secondi a trovare un ordine, un significato, e allora serrò i pugni. «Devo andarmene da qui,» sussurrò.

«Elettra?» Una voce diversa, estranea a quella realtà. «Che è successo? Ho visto un tipo con una pistola venendo qui...»

Nim. Proveniente da un mondo diverso, l'ultimo spiraglio che teneva Elettra legata alla parte civile di Nuova Folk.

Yunca allentò la presa su di lei. Arretrò. «Va tutto bene. Giovinastra, capiti nel momento giusto. Devo chiederti un favore.»

La mano di Nim sfiorò quella di Elettra. Fu solo un attimo, ma le ondate di energia la colpirono dall'interno con più intensità. «Dimmi.»

«Portala via di qui. Aiutala a trovare un posto dove stare. Puoi farlo?»

«Sì, credo di sì. Ma ci sono dei feriti qui, non dovreste prima...»

«Andrà tutto bene, ci pensiamo noi.»

Nim circondò le dita di Elettra con le proprie. «Va bene,» gli rispose. «Vieni, per ora andiamo da Keira,» disse rivolta a lei.

Elettra si lasciò condurre via, lontana dalle urla disperate di qualcuno che aveva appena perso una persona cara a causa sua.

Quante volte ancora doveva succedere?

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