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Capitolo 30

Le lune risplendevano alte nel cielo notturno di Terram, screziato da anomali nuvoloni minacciosi. Un vento caldo proveniente da sud- est, lambiva la fiorente città, annunciando la fine di quella torrida ed interminabile stagione estiva. Presto i monsoni si sarebbero abbattuti sulla terra emersa, ingrossando i pochi fiumi ridotti ormai a rigagnoli.

 Massimo osservò il volto severo di sua madre, mentre rientrava dalla terrazza che si affacciava sul giardino interno della casa. La sua stanza da letto era molto grande ed arricchita da pesanti mobili scavati in blocchi di giada. Egle bruciò dell'incenso e guardò negli occhi il figlio. Voleva caparbiamente sapere chi fosse Elsa, la donna che Massimo aveva introdotto nella sua magione, spacciandola per una sua cara amica. 

« Sto attendendo una tua spiegazione», esclamò insofferente.

«Non credo che saresti felice di ascoltarla», rispose Massimo evasivo.

Egle pronta per andare a dormire, si sistemò la cuffia da notte e lisciò con le mani le pieghe del camicione.

 «Vedi mamma, spesso le cose non sono esattamente come le immaginiamo», tentò di spiegare il medico.

«Non preoccupartene», ribatté la donna, «sarà un problema mio, credere o meno alla tua storia».

La professoressa Pirozzi si accomodò su una seggiola ed incrociò le braccia.

«Un paio di lune fa», cominciò Massimo, «ricoverarono Elsa all'ospedale dove lavoro. Diceva di essere la moglie di un poveraccio del luogo. Quell'uomo, un certo Andrea Landi, giurava però di non conoscerla».

Egle fissò il figlio furibonda.

«Quindi tu hai condotto in casa mia una pazza?», urlò esterrefatta.

«Non sono esattamente convinto sia una semplice pazza» , rispose Pirozzi stordito.

«Sarà meglio per te!» esclamò l'altra, invitandolo con un cenno della mano a proseguire il racconto.

«Elsa mi raccontò di provenire da un luogo dove esisteva una sola luna e aggiunse addirittura, che l'uomo avesse raggiunto il suo suolo», continuò timidamente l'uomo.

«E secondo te questa non è uscita di senno?», controbatté divertita Egle.

«Lo pensavo anche io, fino a quando non mi ha parlato di un suo caro amico: Max Pirozzi», esclamò il dottore.

«No!», reagì Egle quasi in visibilio, «vuoi dirmi che c'è un altro folle tuo pari da qualche parte?».

«Il nome quasi identico, lo lascerebbe supporre», rispose Massimo alleggerito dal divertimento di sua madre.

 «Che la Dea abbia pietà di noi, allora», rispose la donna ridendo di gusto.

«Tu non ci crederai», riprese Pirozzi, «ma la cosa che mi ha fatto più pensare, non è stata la similitudine del mio nome con quello di questo signore...».

«Questo presunto signore! Non è detto che il tuo "quasi" omonimo esista nella realtà!», sottolineò Egle.

«Quello che mi ha fatto più riflettere», continuò lui senza ascoltarla, «è il fatto che Elsa parlasse di una certa Antonella, che a suo dire sarebbe stata l'ex compagna di Max».

Egle lo fissò pensierosa.

«Sicuro che qualcuno non le abbia raccontato qualcosa sul tuo passato?», chiese.

«Effettivamente ci ho pensato, ma questa non è l'incognita più strabiliante. Poco prima del suo ennesimo episodio di letargia mi salutò...», continuò lo psichiatra emozionato.

«Se non altro è educata», lo interruppe Egle sorniona.

«Mi salutò e mi disse che doveva tornare da Max e da sua figlia...Zoe».

Gli occhi della donna cominciarono a pizzicare e divennero lucidi. Quasi immediatamente calde lacrime scesero lungo le sue gote, memoria di un passato difficile da dimenticare.

 «La nostra bambina!», esclamò dolorosamente la donna. «Che altro ti ha detto?», aggiunse tentando di calmarsi.

«Prima di cadere nell'oblio mi disse che Zoe era un bellissimo nome che  significava:" Vita"», esclamò malinconicamente Massimo.

«Volevi chiamare tua figlia Zoe, proprio per il senso beneaugurante del suo nome», ricordò Egle sempre più emozionata.

«Dimmi la verità», esclamò Pirozzi speranzoso, «pensi davvero che Elsa sia solo una pazza?»

«Potrebbe esserlo», rispose Egle, «oppure il suo potrebbe essere un caso che sfugge alla nostra comprensione, come i filamenti di luce del professor Prushenko o le improbabili teorie  di Aurelie».

«Quindi credi che la pazzia per Elsa non possa essere l'unica spiegazione?», chiese Massimo.

«Lo credo», rispose lei.

Il dottore piangendo, abbracciò sua madre come non faceva ormai da molto tempo. Aveva ancora bisogno del suo affetto e della sua presenza, nonostante fosse diventato un uomo importante ed indipendente. Anche Egle si sentiva indissolubilmente legata a Massimo. L'affetto che provava per suo figlio era immenso e si biasimò per quegli anni di assoluta accettazione della sua lontananza. Avrebbe dovuto correre da lui, appena dopo la sua separazione da Antonella, ma si era sempre trattenuta dal farlo. Non gli aveva mai chiesto se fosse felice o se soffrisse, aveva preferito accettare le sue frasi di circostanza e le sue rassicurazioni poco convincenti. Quei "Tutto bene", piuttosto che "Non devi preoccuparti per me, sono un uomo adulto", erano stati solo dei campanelli d'allarme che non avrebbe dovuto ignorare. Si era convinta di aver accettato tutto ciò, solamente per rispetto della dignità di suo figlio, senza accorgersi che fosse lei per prima a non voler essere coinvolta in quel dolore. La verità ora, era lì tra le sue braccia, scossa dai singhiozzi. Massimo non aveva mai superato il dispiacere per la perdita della figlioletta e tanto meno quello per l'abbandono di sua moglie. Aveva sofferto per due anni da solo, nel silenzio della sua casa, senza che nessuno si preoccupasse per lui o gli tenesse la mano. Aveva dovuto entrare nelle loro vite, quella piccola strana donna dai i capelli "gialli", per farle capire quanto avesse sbagliato come madre.  

«Figlio mio», mormorò la professoressa Pirozzi, «ti prego di scusarmi per la mia poca empatia».

Massimo la scostò da lui stupito.

«Che dici mamma?», esclamò sgranando gli occhi.

«Da quando è morto tuo padre, ho deciso che non avrei mai più sofferto», spiegò la donna asciugandosi le lacrime con il dorso della mano. 

«Mi pare un po' ardua questa pretesa per un abitante di Terram!», osservò con finta allegria Massimo.

«Perlomeno volevo stare alla larga dal dolore», continuò Egle, «sforzandomi di non pensare alla crudeltà della vita».

«Ci sei riuscita?» chiese Pirozzi.

«Forse», rispose Egle, «ma ho perso molto di più».

«Cosa?», chiese l'altro.

«Essere tua madre...».

Massimo la fissò esitando. Non condivideva completamente ciò che lei diceva. Era stata un'ottima madre, nonostante la tristezza e la depressione che l'aveva colpita dopo la perdita del marito. Quello tra i suoi genitori, era stato un amore immenso e quasi perfetto, tanto che dopo tutti quegli anni non si arrendeva ancora alla spietatezza della morte. Quanti potevano dichiarare di aver amato così nella loro vita? Aveva forse amato Antonella con la stessa devota passione? Probabilmente l'aveva amata, ma non così. Quello tra sua madre e suo padre era stato un amore davvero unico, puro ed eterno. Un amore destinato a pochi. 

L'ingresso improvviso nella stanza di una trafelata e irriguardosa cameriera di mezza età, gli fece abbandonare i suoi complessi e dolorosi pensieri.

Egle osservò irritata la dipendente, augurandosi dovesse avere un buon motivo per entrare nella sua camera privata con tale maleducata foga.

«Non si usa bussare?», esclamò la padrona di casa asciugandosi velocemente le lacrime.

«La prego di scusarmi signora», rispose amareggiata la donna.

«Cosa succede Monique?», chiese preoccupato Pirozzi.

«Dottore, stavo vegliando la signora Elsa come mi ha ordinato...», cercò di spiegare con affanno la poveretta.

«Ebbene?», l'incitò Massimo balzando davanti a lei.

«L'ho sentita emettere un forte sospiro e poi non l'ho più sentita respirare», rispose la donna quasi urlando.

Massimo a quelle parole, uscì come un fulmine dalla stanza di sua madre. Corse lungo il corridoio, percorrendo velocemente il tragitto che lo separava dalla stanza dove avevano ricoverato Elsa a seguito dell'ennesimo "malore". Aveva lasciato Monique a vegliarla, dopo aver constatato che il suo respiro fosse regolare ed il battito cardiaco lento ma ritmico. Nel complesso le condizioni di Elsa erano identiche a quelle che accompagnavano abitualmente i suoi episodici "torpori", e solo per questo era riuscito ad allontanarsi per qualche minuto dal suo capezzale. 

Entrò affannato nella camera degli ospiti dove Elsa riposava. Sul comodino la tremula fiamma di una candela, illuminava il volto della paziente stesa supina sul letto. Il medico posò le dita sul polso della donna, premendone la superficie per qualche istante. Non c'era battito. Immediatamente praticò il massaggio cardiaco mentre Egle e Monique, sopraggiunte in quel preciso istante, non poterono far altro che assistere quasi pietrificate dall'apprensione a quello che appariva come un crudele e drammatico epilogo.

«Forza! Respira... », urlava Massimo disperato. Continuò a premere sul petto di lei, alternando la respirazione bocca a bocca alle compressioni.

«Elsa ti prego, non abbandonarmi anche tu!», urlò quindi trafelato.

Per quanto facesse, oramai appariva certo, che la vita di quella giovane donna stesse sfuggendo inesorabilmente dalle sue mani. Mani, che tentavano disperatamente di trattenerla su Terram.

«Lasciala andare, Massimo!» urlò Egle, mentre lui si accingeva a premere ancora sul petto della povera moribonda.

 «Non può finire così», gridò il medico disperato.

Non puoi salvarla figlio mio! Elsa è morta», asserì la Pirozzi.

Massimo guardò per un istante il volto cereo della giovane e i suoi occhi chiusi. Prostrato  ne accarezzò la fronte, quindi con un gesto di estremo e languido congedo, sfiorò con le labbra una sua guancia. Con la morte nel cuore, si apprestò ad uscire dalla stanza. Elsa non c'era più, se n'era andata e lui l'aveva persa per sempre.

















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