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Capitolo 28

«Elsa quell'uomo non sono io! Ti prego non lasciarmi, non andartene con lui», mormorò Max rigirandosi nel letto.

Quando riaprì gli occhi nel buio della sua stanza, era agitato e madido di sudore.

"Per fortuna era solamente un sogno ", pensò tra sé cercando di calmarsi.

Allungò il braccio e procedendo a tentoni, accese l'abat-jour sul comodino.

La stanza si illuminò parzialmente e nella penombra, tentò di ricordare tutto ciò che aveva sognato. Nel suo incubo vedeva Elsa inoltrarsi lungo una strada sconosciuta, inondata da una luce talmente splendente da apparire quasi innaturale. Nel cielo, un enorme sole emanava il suo soffocante calore, facendolo sentire snervato per l'afa opprimente. Con le poche forze che gli erano rimaste cercò di raggiungerla, gridando contemporaneamente il suo nome con tutto il fiato che aveva in gola. Lei non sembrava udirlo mentre procedeva sicura, con il codino dell'acconciatura che oscillava ad ogni suo passo. La vide osservare la merce tra le bancarelle di uno strano mercato, che somigliava in tutto e per tutto ad un suk di una cittadina araba. Le sembrava a suo agio in quel luogo e la scorgeva ossequiosa, salutare le persone che incontrava lungo la via di quella strana metropoli. Ad un certo punto, uno sconosciuto sbucato da un viottolo, le si affiancò. Max non lo distinse in volto ma lo vide solo di spalle. Elsa sembrava contenta di rivederlo e dopo aver scambiato con lui qualche parola, lo prese sottobraccio ed insieme ripresero la marcia. Max si sentì sconfortato davanti a tale affiatamento, poiché la confidenza e l'affetto che lei aveva riservato a quel tale, lo avevano ingelosito e turbato. D'improvviso l'uomo si voltò in sua direzione, quasi percependo la sua presenza, fissandolo con una crudele rivalità. Max osservò allibito il volto dello straniero, accorgendosi di stare contemplando se stesso. Quell'uomo era la sua esatta copia, forse un po' più vecchio e quasi certamente più elegante ma simile a lui quanto un gemello. Quasi spinto da una sfrenata curiosità, cominciò a premere sulla folla, facendosi strada tra quella moltitudine di persone, con l'intento di raggiungere la coppia. L'odore forte dei cibi cucinati nei chioschi lungo la strada e l'aroma pungente proveniente dalle bancarelle che vendevano spezie, lo stordivano e lo stomacavano. Lo sconosciuto, intuita la sua intenzione, trascinò via con sé Elsa, sparendo con lei dentro una stradina laterale gremita di persone. Max , nonostante la folla che usciva dalla stradina lo respingesse, aveva cercato di entrare nella via ed aveva urlato, tentando di farsi notare da Elsa. Voleva sapesse che lui era lì, mentre il suo accompagnatore era solo un impostore che si era intromesso tra di loro. Purtroppo però, anche questa tattica per richiamare l'attenzione della donna, era risultata vana.

Ancora demoralizzato, afferrò la sveglia sul comodino.

«Sono già le sette», mormorò sedendosi sul letto. Intontito e provato dal brusco risveglio si fece forza e si alzò. Percorse il breve tragitto dalla sua camera al bagno, pensando che Zoe, avrebbe dormito sicuramente anche quella mattina fino alle otto. Entrò nella doccia e lasciò che il getto d'acqua lo massaggiasse per qualche minuto, prima di cominciare ad insaponarsi. Era ancora scombussolato dall'incubo appena vissuto e si chiese che senso avesse quello che aveva sognato. Finita la doccia, indossò l'accappatoio e si avviò verso la cucina. Un caffè l'avrebbe rimesso al mondo, anche se quelle settimane senza la presenza di colei che amava, le erano parse vuote, inutili e senza senso. La cosa però che più di tutte era insopportabile e gli straziava il cuore, era quell'attesa snervante. Dopo la visita di sua madre all'ospedale ed il momentaneo "ritorno" di Elsa, si attendevano ora per ora delle novità sullo stato di salute della giovane. I medici avevano sentenziato che la paziente non si trovasse più in un profondo stato di coma, ma in una specie di anomalo e grave torpore. Sebbene  un'équipe di riabilitazione lavorasse per risvegliarla da tale condizione, non si riusciva a capire pienamente l'origine e la tipologia della sua preoccupante forma di catalessi. Nonostante tali difficoltà, Max sperò che l'amore della sua vita sarebbe presto ritornato da lui, in qualunque forma fosse stato possibile. Era ancora nel corridoio quando sentì la voce di sua madre proveniente dalla cucina, parlare fitto fitto al cellulare. Si bloccò, ascoltando invadente la conversazione.

«No, Martino, non gli ho ancora parlato di noi. Come posso dirgli proprio adesso, che ci amiamo?», esclamò Egle nervosa.

Max sussultò.

«Lo so! Sono qui da tre mesi», continuò la donna, «ma cosa potevo fare... Abbandonare mio figlio in questo tragico momento, forse?».

Seguirono alcuni istanti di completo silenzio. Probabilmente l'interlocutore stava esternando le sue considerazioni, riuscendo a zittire abilmente Egle. 

«Caro, devi pazientare. Mio figlio ha perso la donna o meglio il corpo astrale che ama, non mi sembra educato parlargli della nostra relazione proprio adesso», esclamò quindi la donna con gentilezza.

Nonostante fosse furente con sua madre per aver raccontato fatti strettamente personali ad un estraneo, Max si vergognò di se stesso. Un uomo adulto e maturo non avrebbe assistito alle conversazioni altrui, nascosto come un ladro nel corridoio. Stava quasi per tornare in camera sua e lasciare che la genitrice dialogasse in pace con il suo ammiratore, quando una frase di Egle lo irritò.

«Ora devo proprio lasciarti, mio figlio è nella doccia e fra poco arriverà in cucina per la colazione.»

Doveva proprio riferire ogni sua mossa a quel Martino? Si chiese con un moto di rabbia.

La risata di Egle lo distolse dai suoi pensieri.

«A presto stupidone, lo sai che ti amo tanto», esclamò rivolta al suo colloquiante prima di riattaccare.

Max non riuscì a contenere la rabbia, lo stupore, la frustrazione, e come un fulmine si palesò in cucina.

Nonostante sua madre fosse un'impicciona, una pettegola, una furba intrigante, lui la adorava e non voleva che un "Martino" qualunque, potesse farla soffrire.

«Chi è?», esclamò quasi urlando.

Egle sussultò, sperando non si riferisse a ciò che temeva.

«Chi è, chi?», rispose bleffando.

Max l'osservò torvo. Osava imbrogliarlo ma non ce l'avrebbe fatta. Aveva messo nel sacco l'astuta Egle Pirozzi, finalmente!

«Chi è Martino?», chiese risoluto.

La madre arrossì. «Hai ascoltato la mia telefonata? Vergognati!», proruppe visibilmente incollerita.

«Non cambiare le carte in tavola e rispondi», continuò ostinato il figlio, «voglio sapere chi è questo signore...».

Egle tacque, inviperita.

«Smettila di fare la sostenuta!», esclamò l'uomo, «ti sei sempre impicciata dei casi altrui ed ora perché io, tuo figlio, pretendo delle spiegazioni fai l'indiana...»

«Non sono tenuta a darti alcuna spiegazione», rispose Egle cercando di uscire dalla stanza.

«E invece devi», sbottò Max trattenendola per un braccio, «soprattutto se ami anche tu quello "stupidone" di Martino».

La Pirozzi si bloccò e fissò il figlio.

«Vuoi sapere la verità?», sbraitò rassegnata, «benissimo, ti racconterò tutto!»

Il giovane uomo la liberò dalla sua stretta ed incrociò le braccia, attendendo che iniziasse a parlare.

«Come sicuramente ti ricorderai, dopo l'abbandono di Antonella...», disse lei in tono serio.

«Dopo la partenza di Antonella, vorrai dire», la redarguì lui seccato.

 «Come preferisci testone!», continuò la donna  insofferente, «insomma, dopo che Antonella ha piantato in asso te e la bambina...».

Max l'osservò con biasimo, rinunciando a contestare la sua convinzione. Purtroppo neppure un suo accorato ed energico dissenso, avrebbe persuaso sua madre a cambiare idea.

«Dopo la partenza di Antonella, ti trasferisti qui per aiutarmi con Zoe», continuò l'uomo. «Cortesia per cui ti sono ancora riconoscente!», esclamò concludendo il discorso.

Egle lo fissò grata.

«Quando ritornai a casa mia però, la vita mi parve fin da subito monotona e triste. Avevo il mio lavoro di cartomante che mi occupava gran parte del pomeriggio ma alla sera mi sentivo sola e quasi indifesa», spiegò la Pirozzi. 

A Max scappò un mezzo sorriso. Poteva immaginare sua madre annoiata e triste nella sua grande casa, ma non indifesa. "Indifesi" potevano definirsi a maggior ragione, coloro che si approcciavano a lei, entrando a far parte della sua vita. Tralasciò le sue riflessioni, ascoltando il proseguo del racconto.

«Una sera una mia cara amica mi invitò ad un convegno», continuò Egle, «e in questa occasione conobbi Martino Prushenko». 

«E' straniero?, chiese Max

« E' italiano di origine polacca», rispose la madre rallegrandosi per l'interesse del figlio.

 Sebbene apprendere di questa relazione l'avesse totalmente spiazzato, Max capì d'essere stato ingiusto ed indelicato nei confronti di sua madre. In fondo le scelte sentimentali in questione, non lo riguardavano e non dovevano essere assolutamente un suo problema.

 «Mamma non sentirti imbarazzata. Scusami per la mia reazione e per le cattiverie che ti ho detto», dichiarò pentito, «sono felice tu abbia incontrato finalmente qualcuno che ti ami».

La donna lo fissò con gli occhi lucidi.

«Dici sul serio?», esclamò incredula.

«Perché non dovrei essere felice per te?», affermò l'altro. «Sei una rompiscatole ma ti voglio tanto bene», proseguì abbracciandola.

«Tesoro mio...», esclamò Egle commossa.

«Una cosa però devo dirtela», disse Max slacciandosi dall'abbraccio e guardandola negli occhi, «non sono affatto felice che tu abbia raccontato a Martino di Elsa, parlando addirittura di lei come di un corpo astrale».

Il silenzio calò nella stanza. La donna considerò il volto imbarazzato del figlio , non apparendo per nulla pentita delle confidenze fatte a quell'uomo.

«Almeno potresti scusarti», la riprese Max deluso dal suo silenzio.

«Non credo proprio!», rispose Egle sicura.

«Non cambi mai!», sbottò il figlio amareggiato.

«Non credo d'aver sbagliato a confidarmi con Martino, perché può aiutarci...», spiegò convinta.

«Ci può aiutare?», domandò Pirozzi sorpreso.

«Siediti», esclamò la donna prendendolo per mano e conducendolo davanti al tavolo, «devo metterti al corrente di molte cose...».


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