Capitolo 24
L'appuntamento era stato fissato nel piccolo parco davanti l'ospedale. Egle Pirozzi si era presentata all'incontro trafelata e confusa. Indossava un semplice completo color crema a cui aveva abbinato un cappotto nero di cashmere ed una sciarpa in tinta. Voleva apparire distinta e seria, ma sicuramente l'abbigliamento era l'ultima cosa che le interessasse quel giorno.
Aveva chiamato Monica, usando il numero memorizzato nel suo cellulare. La telefonata della vigilia fatta da Elsa a sua madre, era risultata quindi risolutiva per poter ricevere notizie certe sul suo stato.
Chissà cosa doveva aver pensato la donna di quell'estranea che apparsa dal nulla, le chiedeva notizie della sua sfortunata figlia! Egle si era presentata semplicemente come una vicina di Elsa, che superando ogni reticenza ed indugio, si era permessa di chiamarla per ottenere ragguagli sulle condizioni dell'inferma. Monica da principio aveva indugiato a quella richiesta, ma poi aveva ceduto alle sue insistenze, chiedendole anche ripetutamente come avesse avuto il suo numero di casa. Proprio in quell'occasione e con singolare maestria, Egle per evitare il peggio, aveva sfoggiato tutta la sua abilità recitativa.
Senza badare alle domande della donna, aveva iniziato a parlare a raffica, impedendole quasi di controbattere alle sue argomentazioni. Si era dilungata a ricordare la gentilezza e la bontà d'animo di Elsa, ribadendo quanto mancasse a tutti nel quartiere. La signora Monica, già terribilmente provata, si era commossa alle parole della Pirozzi, dimenticando all'istante quanto le premesse sapere. Egle sollevata per non dover dare spiegazioni parziali o poco realistiche a quella povera donna, aveva infine dirottato il discorso sullo stato di salute di Elsa. Monica aveva spiegato con una certa afflizione, che le condizioni della giovane fossero stabili ma ancora invariate dal giorno dell'incidente. Stavano quasi per salutarsi quando la madre, forse per gratitudine, chiese alla Pirozzi se avrebbe gradito far visita a sua figlia. Visto lo stato della paziente, non sarebbe stata di certo una visita comune, ma era convinta che far sentire l'inferma in "compagnia", potesse essere terapeutico. Egle accettò subito. Monica aveva esaudito il suo più grande desiderio. Avrebbe potuto sincerarsi di persona sullo stato della sua carissima ed amata amica e tentare di captare segnali della sua presenza in quel corpo esanime.
Voleva molto bene a quella ragazza e in cuor suo sperava si potesse riprendere. Doveva rimettersi al più presto anche per suo figlio Max, che da quando se n'era andata appariva sempre più depresso e sfiduciato.
Proprio per questo motivo quel pomeriggio, aveva accettato d'incontrare Monica nel parchetto comunale davanti l'ospedale cittadino. La signora si era fatta subito riconoscere, presentandosi all'appuntamento vestita completamente di blu. Era una donna molto affascinante e di classe, dalla bellezza sofisticata e per certi versi fredda che non ricordava assolutamente l'aspetto più dimesso della sua povera e graziosa figliola.
«La signora Pirozzi, presumo?», esclamò la madre di Elsa mentre Egle le andava incontro.
«Piacere!», rispose l'altra stringendo la mano guantata che Monica le porgeva.
Le due si osservarono per qualche istante, ferme al centro di quel piccolo giardino spoglio.
Effettivamente non potevano essere più diverse. Tanto ricercata e lievemente snob la prima, quanto vagamente hippy ed informale la seconda. Uno scontro di mondi insomma, che neppure il tentativo di Egle di apparire elegante, aveva potuto mitigare.
«Bene, ora che ci siamo finalmente presentate», esclamò Monica con aria distaccata, «possiamo andare a visitare Elsa».
La Pirozzi annuì e la seguì in silenzio, fin dentro l'ospedale.
Il reparto appariva quasi evanescente, ovattato dalle luci pallide dei neon. Anche il personale medico e paramedico sembrava procedere quasi levitando, rendendo surreale l'atmosfera. Non si sentiva alcun rumore, tranne i suoni metallici delle macchine che all'interno delle stanze tenevano in vita i degenti. Se non fosse stata sicura di essere desta, Egle avrebbe pensato di ritrovarsi protagonista principale di un sogno. Sospirò lentamente, sentendosi completamente scollegata dalla realtà esterna.
La sua accompagnatrice si fermò innanzi ad una porta alla destra del corridoio e lei fece altrettanto, imitando con attenzione i suoi gesti.
«Ci siamo», esclamò la donna, «questa è la stanza di mia figlia».
Oppressa da un affanno incommensurabile, poggiò una mano sulla maniglia, attendendo qualche istante prima di abbassarla.
Alla Pirozzi parve quasi che Monica, concentrata come un soldato prima di una battaglia, cercasse in sé la forza per riuscire a guardare la sua creatura senza impazzire di dolore. Si preparò al peggio e quando l'altra schiuse l'uscio ed entrò, la seguì obbediente all'interno della stanza.
Nella penombra solo un letto bianco, inghiottiva quello che appariva come un manichino. Il corpo scheletrico di Elsa era intubato ed infilzato da flebo e cannule varie. Il capo quasi completamente fasciato era totalmente rasato, mentre solo le macchine che emettevano ticchettii ripetitivi, rappresentavano l'unica testimonianza che in quel corpo immobile fosse ancora presente la vita.
«Eccola, la mia bambina», sussurrò Monica con gli occhi lucidi.
Egle tacque, bloccandosi davanti alla porta della stanza.
Si chiese se quell'anima che aveva imparato ad amare, si trovasse all'interno di quel guscio rigido o fosse già volata in cielo. A questo quesito però, non riusciva trovare risposta.
«Signora Pirozzi», disse l'altra distogliendola dai suoi pensieri, «se vuole può avvicinarsi al letto».
Egle respirò a pieni polmoni quasi per farsi coraggio, quindi raggiunse la sfortunata madre accanto al giaciglio della povera inferma. Un forte odore di etere e disinfettante alleggiava nell'aria, mettendo a dura prova la sua permanenza nella stanza.
«E' stata una figlia meravigliosa», esclamò Monica accarezzando la mano gelida di Elsa. «Non mi ha mai dato problemi di nessun tipo, ma ora...», continuò tentando di frenare le lacrime.
«Deve rasserenarsi signora», la confortò Egle, «a volte i miracoli accadono».
Esclamò quella frase senza troppa convinzione. In tutta coscienza, cosa avrebbe potuto dire ad una madre che assisteva una figlia ridotta in quel modo? Che parole avrebbe potuto usare per consolarla? Non c'era nulla da dire che potesse sollevarla da quella disperazione. Solo la completa guarigione della giovane, avrebbe potuto consolare la signora Monica.
Un'infermiera magra ed anonima, entrò in quel momento nella stanza.
Si avvicinò alla madre della paziente e le sussurrò alcune parole all'orecchio. In seguito uscì senza salutare, lasciando le due donne silenti al capezzale della comatosa.
«Il primario vuole parlarmi», esclamò Monica qualche istante dopo.
«Vada pure. Rimango io con Elsa», rispose Egle tentando di rendersi utile.
L'altra sorrise timidamente. «Grazie», esclamò con gratitudine.
Quando si licenziò da loro, Egle fissò disorientata la malata. Nonostante quella porzione di volto visibile fosse pallida ed emaciata, non le fu difficile riconoscere i suoi lineamenti.
Facendosi forza le afferrò una gelida mano.
«Bambina mia», esordì commossa , mentre i rumori delle macchine che tenevano in vita Elsa le facevano da sottofondo. «Sono qui per te. Non devi preoccuparti di nulla!», aggiunse addolorata.
Si sentiva una perfetta idiota mentre parlava ad un corpo immobile e freddo, ma nonostante ciò sperava che l'anima della giovane si trovasse al suo interno e stesse lottando per la vita.
«Ci manchi molto, soprattutto a Max. Mio figlio parla solo di te, sogna di te e la cosa che desidera di più è rivederti», continuò piangendo.
Le macchine seguitavano ad emettere i loro ripetitivi e sgradevoli suoni che innervosivano oltremodo la già addolorata Egle.
«Vorrei sapere se ti trovi in questo corpo e stai tentando con tutte le tue forze di tornare da noi!», chiese più a se stessa che alla comatosa. Senza poterlo impedire, scoppiò a piangere disperatamente come non faceva più da molto tempo.
Improvvisamente un suono fastidioso e continuo, la scosse dal suo dolore. Spaventata si ritrasse e si guardò attorno nella penombra, appena in tempo per vedere un medico e tre infermieri che allertati da quell'allarme, entravano spediti nella stanza. Le luci furono accese a giorno e lei si ritrovò, senza sapere come ci fosse arrivata, all'ingresso della stanza. Il capannello di sanitari che era tempestivamente intervenuto, cominciò a controllare i parametri vitali della paziente e a somministrare attraverso la flebo dei medicinali. Il dottore spiegò con una certa soddisfazione, che il cuore della giovane avesse ripreso a pulsare autonomamente e che le pupille reagissero con evidenza alla luce. Quando Monica trafelata rientrò nella stanza, stentò a credere all'improvviso miglioramento di sua figlia.
«Il primario mi ha chiesto se volevamo staccare la spina alle macchine che l'aiutano a sopravvivere», disse eccitata ad Egle, «ma alla luce di queste novità, non considererò neppure l'evenienza».
Dentro quel corpo freddo, rigido, inospitale ed immobile, Elsa lottava per la vita. Aveva udito la voce di Egle e ancor di più, aveva saputo della sofferenza di Max.
Doveva tornare per lui. Sapeva di amarlo e sognava di stargli vicina per sempre. Udiva le voci concitate dei medici combattere accanto a lei , ma per quanto si impegnassero a trattenerla in questa vita, avvertì che le sue forze stessero lentamente abbandonandola. Si sentì trasportata via da una vertigine, percependo poi tutto il suo essere dondolare avanti ed indietro, senza fermarsi.
«Era tornata tra noi», esclamò il medico quando tutto fu finito. «Era tra noi, ma ora è ritornata nel suo limbo. Attenderemo ancora, sperando si risvegli quanto prima», spiegò dolcemente all'affranta madre.
«E se così non fosse?», chiese Monica distrutta.
«Non preoccupiamoci del poi. Per ora limitiamoci ad attendere il risveglio di sua figlia», rispose il sanitario congedandosi da lei con un flebile sorriso.
Monica ed Egle rimasero sole nella stanza di Elsa, chiedendosi cosa avrebbe riservato il destino a quella povera ragazza. Poi, quasi unite nello stesso dolore, si abbracciarono e piansero insieme.
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