3. Three friends in the Moonlight
«Avanti andiamo» mi esortò Bless e iniziò a zampettare verso l'ingresso della palestra.
Un frastuono violento mi frustò le orecchie appena varcai la porta, con esitazione. Rumori, voci e suoni fragorosi esplosero all'interno, soffiarono via dalla mia mente pensieri arzigogolati che sapevano di ricordi sbiaditi e malinconica nostalgia. Mi guardai intorno, sollevai gli occhi, strizzai le palpebre di scatto accecata dallo sfavillio di colori scintillanti che decoravano le pareti, e le luci brillanti che illuminavano il centro. Lo svolazzo concitato di bandiere bicolori, cappelli stravaganti, striscioni disegnati mi investì il viso. Il fracasso riempì l'atmosfera rendendola elettrizzante e gonfia di entusiasmo.
Il campo da basket era un grande rettangolo, con un ambiente posto su di un lato circondato da file rialzate di posti a sedere. C'era gente ovunque: qualcuno sgranocchiava popcorn e salatini, altri entravano portando accessori per sostenere la propria squadra. Bless stava cercando di farsi strada, scalciando e pestando con noncuranza, mentre io tentavo di rimanere in piedi. Ad ogni passo che feci, pregai di non essere trasportata via dalla fiumana di persone che si riversava profusamente all'interno. Tirai forte la borsa, incastrando le unghie nei palmi quando una trombetta assordante starnazzò dietro di me, sobbalzai terrorizzata urtando maldestramente qualcuno.
«Mi scusi» farfugliai timida accarezzandogli il braccio.
«Sta un po' più attenta» mi rimbeccò l'energumeno membruto, lo fissai accigliata.
«Joy vieni» gridò Bless a qualche metro di distanza, inghiottita dalla folla. Mi diressi verso di lei, urlando improperi all'indirizzo del maleducato. Le afferrai la mano, stringendola forte.
Non so nemmeno come mi ci ritrovai, lì. Ma un attimo prima ero in mezzo ad un branco di sconosciuti eccitati, e un attimo dopo ero seduta sui gradini di uno degli spalti, strizzata dalle spalle possenti di un ragazzo che ridacchiava beffardo, assieme ad un compagno grosso quanto lui. Mentre tentavo di abituarmi ad un contesto sconosciuto che urlava e strepitava impazzito fracassandomi i timpani, e l'odore di ascelle sudate mi tempestava il naso costringendomi a storcerlo per il disgusto, mi ritrovai a maledire a me stessa per aver accettato l'invito di Bless.
«Ti presento un amico, Joy lui è Trevor»
Mi voltai. Allungai una mano verso il ragazzo sconosciuto e lo sentii stringermi forte il palmo.
«Chiamami pure Trev, Bless non ha fatto altro che parlarmi di te per tutta la lezione di Anatomia, è un vero piacere conoscerti»
La sua gentilezza mi colse del tutto impreparata, fu una ventata fresca ed improvvisa. Trevor aveva folti capelli neri, un sorriso aperto e luminoso che gli arrivava fino alle iridi celesti. Striature sottili di smeraldi si incastravano in quel cielo sereno, una combinazione complessa di verde e azzurro, a dir poco, meravigliosa. I suoi occhi furbi e vispi sprigionavano un carisma dirompente, scorsi nel riflesso il mio volto imbarazzato, la bocca spalancata e un'espressione da ebete da incorniciare.
Sempre la solita...una figuraccia dietro l'altra.
«Joy, il piacere è mio» lanciai un'occhiata furtiva a Bless, mi guardò dritta in faccia, arcuando le labbra in un sorriso compiaciuto.
Pochi attimi dopo, un gruppo di ragazzi entrò in campo, disperdendosi negli angoli. Un coro crescente di voci si sollevò, Bless e Trevor esultarono con i pugni verso l'alto. Li guardai incuriosita come se gli fosse appena spuntata un'antenna in testa.
Perché tanta gioia?
I giocatori saltellavano sul posto, sospirando sommessi, altri distendevano i muscoli delle braccia nerborute e le gambe atletiche. Blu e arancione erano i colori predominanti, gli stessi richiamati nelle strisce di stoffa scarabocchiate e nelle bandiere che avvolgevano il collo di qualche spettatore. Tutto d'un tratto, l'aria divenne tesa, si caricò di sguardi torvi, fischi sibilanti e prolungati, urla bellicose e improperi gracchiati a denti stretti accompagnarono l'ingresso di un'altra squadra, vestita di rosso e nero. Ipotizzai che fossero gli avversari.
«Quale è lo scopo del gioco?» chiesi sporgendomi in avanti per scrutare i volti dei miei due nuovi amici.
«Lanciare la palla nel canestro che si trova nella metà campo avversaria, impedendo che i giocatori dell'altra squadra si impossessino della palla e realizzino altri punti» replicò Trevor indicando il campo.
Un sibilo acuto diede inizio alla partita. La palla balzò in aria, sospiri di trepidante attesa e smorfie di stupore sul volto di tutti. I giocatori scattarono.
«Perché si passano la palla così velocemente?» domandai. Non avevo mai assistito ad una partita di basket prima d'ora, era la mia prima volta e non conoscevo le regole del gioco.
«Non possono palleggiare per più di cinque secondi ciascuno» esclamò puntuale Bless.
«Oh, capito, come mai corrono a destra e a sinistra senza un'apparente logica? Sembrano formichine che si contendono una briciola di pane» puntualizzai ridacchiando. Sbuffarono una risata, scuotendo entrambi la testa. Si voltarono a guardarmi, nei loro occhi brillava una scintilla di ilarità.
«Sono obbligati a giocare così, ci sono dei limiti temporali da rispettare» mi spiegò Trevor, paziente.
«Del tipo?»
«Non possono rimanere nell'area della squadra avversaria per un tempo superiore ai tre secondi, inoltre, una squadra non può detenere il possesso della palla da gioco senza superare la metà campo per più di otto secondi»
«Ehi, quello è fallo!» urlò Bless puntando il campo.
«Fallo?» chiesi curiosa.
«Sì, è fallo su tiro, quando un giocatore ostacola irregolarmente il tiro dell'attaccante»
«Ah, e quale è l'attaccante?» sollevai il mento, torturandomi il labbro.
«Allora, ci sono diversi ruoli: c'è il playmaker che ha il compito di guidare l'attacco della squadra, poi c'è la guardia tiratrice, solitamente è il miglior tiratore della squadra, l'ala piccola è quella che ha il dovere di penetrare nell'azione di gioco, mentre ala grande, il difensore, deve proteggere e recuperare. Infine, il centro o pivot che si posiziona sempre sotto al canestro, deve difendere e rigettare la palla ai due lati del campo» esclamò Trevor tutto d'un fiato, come se l'avesse tenuto sulla punta della lingua da ore.
«Hai capito?»
No.
«Sì, tutto chiaro» mentii spudoratamente.
L'atmosfera generale trasudava eccitazione, sgomento e attesa. Tutti sembravano affetti da una contagiosa euforia. Tutti, tranne me. I fischi roboanti, i cori stonati e le esultanze smodate mi stavano lentamente facendo perdere la pazienza, avevo perso persino l'interesse nel voler comprendere le regole. Bless e Trevor avevano perso le speranze, dopo vani tentativi si erano rassegnati alla realtà che non sarei mai riuscita a capire la gerarchia di ruoli nel basket, soprattutto dopo l'ultima domanda che gli feci: quale fosse la differenza fra il play maker e l'uomo vestito a strisce bianche e nere che zirlava come un tordo in gabbia.
Rimasi immobile per tutto il tempo, piluccai nervosa pellicine delle dita. Mentre tutto intorno esplodeva di felicità, io aspettavo impaziente la fine della partita che, ahimè, parve non arrivare mai. Mentre affrontavo una guerra interiore che mi aveva ridotto al mutismo e all'apatia, con lo sguardo vacuo, smarrita nel silenzio della mia mente, ripensai a quanto, in quel momento, mi mancasse la solitudine. In mezzo a quel mosaico di colori brillanti, sguardi che trasudavano eccitazione, sgomento ed espressioni esaltate che sprigionavano spensieratezza, io mi sentivo una estranea. Non era solo il mio corpo a sentirsi nel posto sbagliato. Era soprattutto il mio spirito, la natura più intima e selvaggia della mia esistenza. Mi sentivo come una chiave incastrata in una serratura che non le apparteneva. Un girasole nato fra le punte taglienti delle spighe di grano. Una margherita bianca spuntata nel prato verde di trifoglio. Una nuvola grigia circondata dall'immensità eterea del cielo.
Insomma, in parole povere? Non c'entravo un cazzo.
D'altronde, della partita non me ne importava niente. Avevo accettato l'invito solamente per cortesia. Se fosse stato per mia scelta, me la sarei data a gambe levate appena uscita dall'aula di Genetica Animale. Me ne sarei tornata a casa e lì, fra le pareti della mia camera, con il naso nascosto fra le pieghe del cuscino, avrei trascorso il resto della giornata. Invece, per qualche folle ragione, mi ritrovavo incastrata in quella assurda situazione in cui mi sentivo completamente fuori luogo.
In verità, avevo deciso di accompagnare Bless, solamente perché per una volta tanto, avevo avvertito dentro di me il desiderio di andare oltre al mio insano modo di vivere il tempo, isolandomi dal resto del mondo. Poi, appena messo piede dentro la palestra, me ne ero pentita all'istante.
Sin da bambina, il mio cuore era animato da interessi molto diversi da quelli comunemente condivisi. Mi piaceva la solitudine, il silenzio della natura e la pace che sentivo quando mi immergevo nel mio mondo. Detestavo i luoghi troppo affollati, le urla e gli schiamazzi che accompagnavano la mondanità e la confusione delle feste. Nella bellezza silvestre delle foreste, nell'innocenza dipinta nei musi pelosi degli animali e nel candore e la saggezza dei libri, letti e riletti, ritrovavo sempre me stessa. Lontano dal mio rifugio sicuro, dal mio nido accogliente, mi smarrivo e perdevo ogni ragione.
Il lembo svolazzante di una sciarpa mi finì dritta in faccia, e mi ridestai. Fulminai con lo sguardo il malcapitato che aveva osato compiere un tale gesto sconsiderato, e lui sghignazzò. Sbuffai con stizza. Appena mi accorsi che la partita non era ancora giunta al termine, mi ritrovai a desiderare che da lì a qualche minuto prendesse fuoco l'intera area adibita al gioco. Spettatori compresi.
I giocatori correvano da una parte all'altra del campo, alternando passaggi veloci a lanci perfetti nel canestro. Sembravano uno stormo d'uccelli disorientati che seguiva il volere del vento. Mi voltai e cercai disperatamente di incrociare lo sguardo di Bless, sperando con tutto il cuore che mi prestasse soccorso. Volevo andarmene, avevo esaurito la mia dose di pazienza giornaliera.
«Bless, quanto manca?» domandai esausta, lei osservò l'orologio che le circondava il polso minuto, un sorriso le arricciò le labbra.
«Due minuti, è quasi terminata» strizzò l'occhio, aveva capito l'antifona.
Grazie al cielo.
Contai ogni singolo millesimo di secondo al termine, e quando finalmente l'arbitro soffiò energico l'aria nel fischietto, scattai come una molla, dirigendomi celere verso l'uscita.
Appena varcai la porta, tornai a respirare aria tersa. Feci un profondo sospiro, incastrando in fondo alla gola tutte le emozioni grigie che mi avevano accompagnato per un'interminabile ora. Mi guardai attorno, scorsi i festoni appesi sugli infissi delle porte, le pareti blu e arancioni decorate da volantini colorati che ricordavano l'evento della giornata, sollevai il naso e la luce fredda ed intensa mi abbagliò il viso, stropicciai le palpebre con le nocche per abituarmi al bagliore splendente. Poi, tutto d'un tratto, lo scricchiolio di suole pesanti e il coro di schiamazzi assordanti mi fece riaprire gli occhi all'istante.
In un battito di ciglia, il corridoio scoppiò in un'esplosione di rumori e urla fragorose; il chiasso tipico della vittoria bombardò i miei timpani. Digrignai i denti per il fastidio, le unghie artigliate alla bretella della borsa. Gli studenti uscirono svelti dalla palestra, riversandosi nel corridoio, sfoggiavano sorrisi felici ed espressioni euforiche. Un barlume di spensieratezza rifulgeva nei loro volti. Il corridoio si affollò improvvisamente e l'aria divenne effervescente. Tutti esultavano sventolando bandiere e cantando motivetti stonati, irrequieti come grilli. Per un secondo, mi ritrovai bloccata e smarrita senza sapere realmente come reagire di fronte a quella mandria concitata, animata da un entusiasmo che non comprendevo. Poi, presi coraggio, e mi sistemai in un angolo ristretto, aspettando paziente di scorgere Bless e Trevor fra la moltitudine di teste. Cercai di mantenere la calma, battendo ritmicamente il piede contro il pavimento, guardando risoluta la massa di studenti che creava un mosaico brulicante.
«Spostati!»
«Levati di mezzo, cazzo»
Il mio corpo divenne un ostacolo fastidioso, frapposto fra la porta e il lungo varco che gli si apriva di fronte. Sbattei contro schiene gagliarde e braccia possenti, sentii lo sguardo della gente perforarmi le spalle mentre con la punta della lingua masticavano maledizioni ed improperi al mio indirizzo poiché intralciavo il loro passo. Stavo per esplodere ed urlare contro all'ennesimo australopiteco che mi aveva pestato la scarpa, quando una voce angelica mi accarezzò le orecchie.
«Joy, siamo qui»
La riconobbi subito, così mi voltai, feci saettare gli occhi da una zona all'altra del corridoio, cercando il volto candido di Bless e la chioma labirintica di Trevor. Scrutai in punta di piedi e con il mento sollevato ogni angolo, e appena scorsi in lontananza il suo sorriso raggiante sentii il cuore rallentare la sua frenetica corsa. Dietro le sue spalle, la testa del ragazzo spuntava curiosa come un fungo.
«Scusate, permesso...» borbottai raggiungendoli.
«Sei corsa via come una gazzella, tutto bene?» chiese Bless preoccupata.
«Sì, sto bene grazie, avevo solo bisogno di prendere una boccata d'aria» lei annuì semplicemente, chiudendo la cerniera dello zaino.
«Noi stiamo andando al Moonlight, ci farebbe piacere che venissi anche tu» domandò Trevor con un luccichio di speranza intrisa nelle iridi.
«Il Moon che?» esclamai con cipiglio.
«È un piccolo bar a pochi metri di distanza dall'Università, preparano una cioccolata calda a dir poco deliziosa» rispose raggiante, sollevò un angolo della bocca e sorrise, stuzzicando la mia curiosità.
«Per non parlare dei cornetti caldi alla Nutella...» insistette Bless con voce morbida, poi mi strizzò l'occhio compiaciuta. Mi conosceva appena eppure aveva compreso che per convincermi bastava prendermi per la gola.
Cornetti caldi al cioccolato, beh, quasi quasi...
«Oh, beh è fantastico ma...ehm, ecco io... dovrei tornare, ho un impegno e...» mormorai con una punta di timidezza.
«No vieni con noi, dai, non farti pregare ancora» li osservai interdetta, sorpresa da quelle attenzioni.
«Siete veramente gentili davvero, ma...»
«E se ti dicessi che, come ricompensa per avermi accompagnato alla partita, sono disposta ad offrirti un gustoso croissant al cioccolato con la panna e gli zuccherini colorati?»
Il mio preferito. Maledizione.
Morsi l'interno della guancia e buttai fuori: «Con tripla panna montata? ...»
Lei annuì, un sorriso dolce le scavò le guance scarlatte. Guardai Trevor ridere sotto i baffi. Dentro di me prese vita una battaglia all'ultimo sangue fra il mio stomaco perennemente affamato e la mia mente. Alla fine, il mio appetito insaziabile ebbe la meglio.
«Aggiudicato!» urlai spaventando entrambi, realizzai di essermi sporta verso di loro con troppa enfasi.
«Scusate, ho...ho fame» mi osservarono curiosi, sbuffando risate.
«Si era capito, forza, andiamo» esclamò Bless, poi si avviò a passo svelto verso l'uscita, seguita da Trevor. Diedi una rapida occhiata al telefono, prendendomi dei miseri secondi in più per interrogarmi se avessi fatto bene o meno ad accettare il loro invito.
«Joy, vieni!» ripeterono non lasciandomi neppure il tempo di riflettere.
Sollevai lo sguardo dal telefono, mi guardai attorno smarrita, poi gli occhi di Bless e Trevor mi si incastrarono in viso. Erano a qualche metro di distanza da me, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo sgranato. Merda, ero rimasta indietro.
Li raggiunsi, con il cuore che mi scalpitava nel petto, animato da una ventata di leggerezza e che non ricordavo da tempo di provare.
Avevo fatto bene, in cuor mio lo sapevo dovevo solo convincermi.
«Oh, scusatemi, stavo...stavo rispondendo a mia madre..» mormorai imbarazzata, mentendo. In poche falcate me li trovai di fronte e sorrisi ad entrambi. L'attimo dopo, Bless tornò a parlare a macchinetta mentre Trevor tentava di stare al passo con la sua parlantina. Nascosi il telefono e continui a camminare dietro di loro, volsi lo sguardo lontano, dall'altra parte della strada. Incrociai un ragazzo che faceva le consegne, una signora che portava a passeggio un simpatico barboncino, e un uomo ben allenato intento a fare jogging che mi lanciò un'occhiata sfuggente. Con un orecchio ascoltai le elucubrazioni mentali di Bless, le risposte concise di Trevor, mentre con l'altro mi lasciai sorprendere dai suoni che si riversavano caotici nell'aria.
Clacson strombazzanti.
Motori ruggenti.
Parlottio frenetico delle persone.
Ascoltare quei suoni molesti mi consentì di cogliere il ritmo sfrenato della vita urbana e delle tipiche giornate lavorative. Per un istante, rimpiansi la splendida musica creata dalla natura, il silenzio etereo, puro e profondo. Poi, mi ricordai delle leccornie di cui mi sarei cibata appena arrivata al bar, perciò decisi di sopportare quel fastidioso frastuono, dimenticandomi di tutto il resto.
«Eccolo lì, vedo l'insegna» enunciò Trevor indicando il punto preciso.
Finalmente.
Seguii la direzione del suo dito. In una collana grigia di edifici scuri e tristi, rifulgeva brillante come una candida perla la facciata in legno chiaro del piccolo bar. Le ghirlande di fiori gli donavano un aspetto pittoresco e vivace; l'insegna fluorescente "Moonlight" illuminava l'ingresso affollato. Si apriva in un semicerchio lastricato su cui poggiavano quattro tavoli rotondi e bianchi, abbelliti da un centrotavola a forma di luna e circondati da due sedie ciascuno.
«È bellissimo» sussurrai meravigliata.
«E non hai visto niente, dentro è ancora più bello» Trevor mi sorrise, togliendosi gli occhiali da sole, mi circondò la spalla con il braccio, stringendola appena. Quel gesto era del tutto inaspettato. Lo guardai da sotto le ciglia, illuminato dalla luce. Fu in quel momento che mi accorsi dei suoi capelli scompigliati, lo sguardo conturbante e la bellezza incarnata dal suo volto. Il suo fascino avvenente mi colpì lo stomaco, facendomi seccare la gola. Avevo ragione, Trevor era un bellissimo ragazzo. Quella consapevolezza stuzzicò il mio cervello, gli ingranaggi andarono in cortocircuito e il cuore cominciò a martellarmi nel petto a causa della sua estrema vicinanza. Una nuvola di imbarazzo aleggiò sulle mie guance, imporporandole.
Odiavo arrossire così facilmente, abbassai il mento, nascondendomi ai suoi occhi.
«Ha aperto da circa una settimana, lo abbiamo scoperto per caso e da quel giorno ogni pomeriggio lo trascorriamo qui» Bless mi guardò, avvolgendomi l'altra spalla. Li osservai scambiarsi un'occhiata intensa, poi rotearono il braccio in sincronia da sopra la mia testa e lo fecero cadere lungo i rispettivi fianchi. Si schiarirono la voce imbarazzati. Mi chiesi se il loro rapporto fosse solo di amicizia.
«Per colpa sua ho preso due kg» borbottò lui accigliandosi. Mi scappò una risata che tentai di soffocare subito coprendo la bocca con i palmi.
«Ma stai zitto...Joy vieni, entriamo!» replicò indispettita, sussultai appena mi afferrò la mano.
«Tre croissant al cioccolato con tripla panna montata e gli zuccherini colorati, grazie» chiese Bless poggiando comodamente la schiena sullo sgabellino in legno.
Una ragazza, con i lunghi capelli rossi a solleticargli il collo affusolato, si voltò e annuì, sorridendogli ampiamente. Mi sedetti anche io, poggiando i gomiti sul bancone. L'odore invitante di cioccolata calda che aleggiava nell'aria mi carezzò le narici. Osservai meravigliata le prelibatezze che erano in bella vista: muffins, donuts, cheesecakes, brownies, apple pie e red velvet, infine, croissants super farciti, insomma, di tutto e di più. C'era l'imbarazzo della scelta.
Il bar era piuttosto affollato, sedie che stridevano, voci accalcate di chi ordinava qualcosa da mettere sotto i denti, una melodia tranquilla e ritmata in sottofondo.
«Sono felice che tu abbia accettato il nostro invito» mormorò Bless, arricciò il naso piccolo e perfettamente dritto all'insù, gli angoli della bocca arcuati verso l'alto.
«Anche io...» replicai. Mi guardai attorno, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi magnetici, grandi come bottoni neri. Catturai ogni minuscolo particolare dell'ambiente: le luci, i colori, le decorazioni studiate nei minimi dettagli, i volti delle persone sedute ai tavoli, su cui trasparivano emozioni contrastanti.
«Allora, che mi dici di te?»
Cosa?
Sentii gli occhi di entrambi addosso.
Oh, mio Dio, non sono brava in questo genere di cose.
«Bless, non metterla in imbarazzo...» sibilò a denti stretti Trevor, pungolandola con il braccio.
«Non era mia intenzione, desideravo solamente conoscerla meglio...scusami Joy» Bless mi guardò con pentimento. Ero pessima nelle descrizioni, tuttavia, non volevo che si dispiacesse, così le sfiorai la mano, scuotendo la testa di lato. Era gentile, una ragazza dolce e premurosa. Curiosa, energica e piena di vita, come poche. Il suo interesse nel voler sapere qualcosa in più su di me non mi diede fastidio, così decisi di accontentarla.
«Tranquilla, è tutto ok...» le si illuminò il viso, felice.
«In verità, non saprei da dove cominciare...» incastrai una ciocca dietro l'orecchio, il piede batteva frenetico sul pavimento bianco, le mani cominciarono a muoversi, seguendo il ritmo cadenzato delle mie parole.
«...Vivo a pochi isolati dall'Università, insieme ai miei genitori e ai miei due fratelli, David e Francesca...»
Ero cresciuta in una famiglia umile e l'adoravo.
Mio padre era un grande lavoratore. Un uomo giusto, buono e gentile. Possedeva una dolcezza d'altri tempi, impacciata e di poche parole. Sapeva trasmettere il suo affetto attraverso piccoli gesti ed era capace di farti sorridere il cuore solamente guardandoti.
Mia madre era una donna sveglia, molto attenta e premurosa, tanto che si preoccupava sempre che stessi bene, ma soprattutto che mettessi qualcosa sotto i denti. Le sue doti più grandi erano la comprensione e il rispetto, era una vera mamma, per cui provavo un amore incondizionato che mi riempieva gli occhi di orgoglio.
I miei fratelli erano il senso della mia vita. David aveva sedici anni più di me, mentre Francesca solamente sei. Quando ero piccola, i nostri genitori si allontanavano spesso da casa; perciò, erano loro a prendersi cura di me. Mi hanno cresciuto con affetto e attenzione, trasmettendomi calore e protezione. Non mi hanno mai fatto mancare niente e gliene sarà infinitamente grata per questo.
Dopo innumerevoli delusioni, l'amore per la mia famiglia era l'unica forma di sentimento in cui avevo imparato a credere. Non avrei permesso a nessuno di separarci, nemmeno il tempo ne sarebbe stato capace.
«Io sono figlio unico, anche se mi piacerebbe tanto avere un fratello» esclamò Trevor.
«Per me è lo stesso, ho sempre desiderato una sorellina più piccola» dichiarò Bless.
«Ecco a voi ragazzi, i vostri croissants!» la voce della cameriera mi colpì le spalle, mi voltai e ci servì gentilmente le ordinazioni, l'aiutai afferrandole il piatto che rischiava di cadere. Mimò un "Grazie" con le labbra ed io le sorrisi con gli occhi.
Lo sistemai davanti a me, il profumo dolce ed intenso mi stuzzicò l'appetito e lo stomaco cominciò a brontolare appena vidi quel croissants gigantesco: ai lati fuoriusciva una quantità generosa di cioccolata, mentre la panna colava sulla superficie dorata e croccante. Delizioso.
Mangiammo, gustando quel buonissimo piatto. Mentre io me ne stavo in silenzio ad assaporare il mio dolce, Bless tornò a parlare, catturando la nostra attenzione.
«Domani sera ci venite alla "Notte dei baci"?» chiese entusiasta ad entrambi.
«Sì, ci sarò, tu Joy?» borbottò Trevor strappando un pezzetto di cibo, un rivolo di cioccolata scivolò fuori dalla sua bocca.
«La "Notte dei baci"? Non ho idea di cosa sia» commentai sbrigativa, mi permisi di allungargli un fazzoletto e lui sembrò apprezzare.
«È una festa organizzata dagli studenti più grandi per inaugurare l'inizio del semestre e accogliere le nuove matricole» rispose Bless.
«Sarà divertente! Musica a tutto volume, fiumi di alcol, belle ragazze» Trevor strizzò un occhio, beffardo ed io aggrottai la fronte.
«Non ne dubito...»
«Devi esserci!» incalzò.
«Non credo, non sono una grande amante delle feste»
«Oh, andiamo, magari te ne vai via presto, ma devi venire» spalancai gli occhi sconcertata e scossi la testa, lui sbuffò rassegnato.
Non avevo alcuna voglia di unirmi a loro, non mi andava di trascorrere del tempo schiacciata da corpi sudati ed eccitati che si strusciavano frenetici fra loro a ritmo di musica. Cercai di nascondere il viso dietro l'enorme croissants, sperando che non insistessero. Ma fu tutto inutile. Bless mi afferrò la mano, stringendola, sbatté le sue lunghe ciglia e mi supplicò, di nuovo, con il viso angelico. Alzai gli occhi al cielo ed evitai di rispondere. Poi però...
«Toglietemi una curiosità, perché si chiama in questo modo? La Notte dei...sì insomma avete capito»
«Se te lo diciamo verrai lo stesso?» mi chiesero, notando il mio sguardo torvo e pensieroso.
«Dipende...» ammisi.
«Durante la notte ha luogo una specie di rito di iniziazione...» inclinai la testa di lato e lo osservai confusa.
«Un cosa?!» sbottai facendoli sobbalzare.
«Aspetta, aspetta non saltare a conclusioni affrettare, so che può sembrare strano ma è divertente credimi...» sorrise Trevor.
Un rito di iniziazione come può essere divertente?
«...secondo le regole: all'ingresso della festa viene assegnato un numero alle matricole, quel numero corrisponde all'anno di studi di riferimento di una ragazza o un ragazzo più grande... le matricole devono baciare una persona a loro scelta che frequenta quell'anno, anche più di uno se vogliono, ed è solo così che diventano ufficialmente studenti dell'AU»
Sperai di aver sentito male.
«Stai scherzando?» dissi soltanto, rifilando ad entrambi un'occhiata minacciosa.
«No...» rispose. Scossi la testa e spalancai gli occhi dallo stupore. Era un'assurdità.
«Mi sembra una grande cazzata» replicai addentando un pezzo di cibo.
«Perché?» chiese Trevor con nonchalance.
«Perché non ho bisogno di baciare uno sconosciuto per sentirmi parte dell'Università, ho superato il test d'ammissione e pago le tasse, sono già una studentessa...» borbottai masticando.
«Andiamo Joy, è solo un modo per divertirsi e conoscersi meglio...»
Bel modo di conoscersi.
«Con il rischio di contrarre malattie come la mononucleosi, la sifilide o l'herpes labiale? Grazie ma no!» puntualizzai poco cordiale, il mio rifiuto fu deciso. Trevor si irrigidì subito, sopracciglia corrucciate e sguardo inquieto, sembrava sul punto di una crisi di panico.
«Perché si trasmettono con...con un bacio?» balbettò dubbioso.
«Sì!»
«Oh, cazzo...» replicò inorridito, grattandosi la nuca.
«Joy vieni lo stesso, non devi farlo per forza! È solo una stupida regola ma basterà fingere di essere del secondo anno e nessuno ci darà fastidio, neanche io voglio baciare uno sconosciuto...»
«Non sono sicura di venire, ci penso e vi faccio sapere ok? ...» Bless annuì e tornò a mangiare il suo croissants, invece, non potei fare a meno di notare che Trevor aveva lo sguardo perso e la mente ancora occupata dal pensiero delle possibili malattie che aveva rischiato di contrarre negli anni tramite un semplice bacio. Mi sforzai di non ridere, tuttavia, un risolino acuto e breve scivolò fuori dalle mie labbra, lui se ne accorse, mi guardò con un cipiglio truce.
«Eddai, non preoccuparti più del dovuto, quando è stata l'ultima volta che hai baciato una ragazza?» domandai curiosa.
«Due giorni fa...» spiegò preoccupato e tamburellò le dita sul tavolo in legno, mostrando nervosismo. Gli carezzai la fronte per sentire se avesse la febbre, socchiusi le palpebre per osservare i suoi occhi, e infine, diedi una rapida occhiata al viso per scorgere se ci fosse qualche strano dettaglio che mi facesse dubitare della sua salute.
«Oh, beh, non mostri alcun sintomo, quindi...stai bene!» replicai, lui sembrò sollevato, rilassò subito i muscoli del viso e un fischio sommesso grondò fuori dalla sua bocca carnosa.
«...Per ora» lo presi in giro, mi morsi il labbro per non ridergli in faccia. Lui inarcò un sopracciglio e mi rifilò un occhiataccia, sbuffando. Sentii accanto a me Bless ridere a crepapelle, così mi voltai e la sorpresi piegata sulla sedia che sghignazzava con una mano poggiata sul cuore. Trevor farfugliò qualcosa sottovoce, mentre io scuotevo la testa divertita.
«Dovresti vederti Trev, sembra che hai appena visto un fantasma» scherzò Bless e gli tirò una gomitata leggera.
Asciugai lacrime di gioia e notai quanto ridere e scherzare con loro fosse bello e spontaneo, come se ci conoscessimo da anni.
Erano una piacevole scoperta.
Erano le sette di sera, il sole era ormai calato e la luce si era persa nell'oscurità della notte. Decidemmo così di tornare a casa. Durante il tragitto, camminammo insieme lungo il marciapiede, sotto il fioco calore di un lampione che illuminava la strada sulla quale non sfrecciava alcuna macchina. Non c'era nessuno nei dintorni, nemmeno un passante, probabilmente erano già tutti a casa, impazienti di mangiare. Quella sera l'aria era fredda e pungente, il vento cantava dolci melodie al sapore di pioggia, e i suoni delicati e tranquilli della notte si intrecciavano alle sinfonie dei grilli che frinivano nascosti tra i rami degli alberi. Sollevai lo sguardo verso il cielo, era scuro, le stelle luminose erano coperte da nubi cenerine che da lì a poco avrebbero dato vita ad un forte temporale.
Varcammo l'angolo e ci trovammo finalmente di fronte l'Università. Mi fermai di colpo quando notai qualcosa di diverso nella grande piazza. Era deserta, le luci erano spente e il parcheggio era ormai semivuoto, se non fosse stato per le tre auto posteggiate, le nostre. Ma non furono quei dettagli a impressionarmi, ma...
«Che diavolo è successo?» domandò Trevor sconcertato.
I rami degli alberi erano tappezzati da molteplici strisce bianche penzolanti. Come artigli bianchi graffiavano il cielo nero.
Che cos'erano?
Fogli...fogli di carta igienica?
«Allora è vero...» sussurrò Bless, il labbro premuto fra i denti, un ghigno compiaciuto aleggiava sulle sue guance, in antitesi con la mia inquietudine e il timore mostrato prima da Trevor.
«Chi ha potuto compiere un gesto simile? ...» chiesi, il tono della voce più alto di quello che mi aspettassi.
«Quando i miei genitori me ne avevano parlato non gli avevo creduto...ora devo ricredermi»
«Bless di cosa stai parlando?»
«Non...non c'è nulla di cui preoccuparsi, gli studenti decorano gli alberi in questo modo ogni volta che la squadra di basket vince una partita o quando, più semplicemente, accade qualcosa di bello ad Auburn, è per festeggiare...» Bless spazzò via dalla mia mente ogni dubbio. Non si trattava di uno scherzo di pessimo gusto o di un atto vandalico ai danni dell'Università, né tanto meno di una spaventosa scenografia ideata da un fantomatico serial killer per terrorizzare le sue prossime vittime. Era solo una tradizione portata avanti chissà da quanti anni, un gesto tramandato di memoria in memoria per gioire di qualcosa.
Se in un primo momento la paura mi stava per schiacciare il petto, ora mi sentivo sollevata, erano stati ridotti così per un motivo, e per quanto non apprezzassi quel genere di cose, dovetti ammettere che erano meravigliosi. Dietro la semplicità delle fronde degli alberi che danzavano leggiadre mosse dal vento, si nascondeva una bellezza terrificante che innescava inquietudine e, al tempo stesso, curiosità. Le strisce bianche rifulgevano nell'immensità tenebrosa del cielo creando uno spettacolo affascinante che sarei rimasta per ore ad osservare.
«Ok, tutto molto bello, però questo posto mi dà i brividi, quindi possiamo andarcene?» domandò Trevor, per niente d'accordo con il mio pensiero. Mi voltai verso di lui, lo sguardo perso e un'espressione sconvolta in viso, sopracciglia corrucciate dalla paura. Bless ridacchiava, consapevole che le sue parole non erano state in grado di rasserenare lo stato d'animo del suo amico. Era ancora molto spaventato, forse più di prima, ma non c'era più ragione.
«Sei un fifone, io ti parlo di tradizioni importanti e tu vuoi dartela a gambe levate» disse, con un colpetto di spalla oltrepassò la sua figura.
«Decisamente, manca solo un pazzo mascherato con un coltello in mano e poi è a tutti gli effetti una scena da film horror»
«Oh, Gesù quanto sei stupido, sei in un luogo pubblico nessuno ti farà del male...»
«Ehi! Non sono stupido, sono lungimirante»
«Sì, certo come no...»
Continuarono a punzecchiarsi, mentre camminavano svelti verso le rispettive auto.
Scossi la testa, un fievole sorriso mi increpò le labbra. Erano esilaranti quei due, non facevano altro che beccarsi e pizzicarsi come due pulli costretti a vivere in un nido troppo stretto. Li seguii poiché andavamo verso la stessa direzione. Prima però, decisi di voltarmi a fotografare con gli occhi ancora una volta quegli alberi bellissimi che mi aveva letteralmente stregato. Stavo per andarmene, quando all'improvviso, qualcos'altro catturò la mia attenzione.
Vidi un'ombra scura avanzare lenta verso la mia direzione. Raggelai, e il mio cuore mancò un battito. Raddrizzai la bretella della borsa che era scivolata dalla mia spalla, e tentai di nuovo di aguzzare la vista, così socchiusi le palpebre e mi sforzai di mettere a fuoco.
Gli occhi come due lame di coltello.
Riuscii a scorgere una figura imponente che si muoveva fra gli alberi. Si trattava di un uomo, alto. Molto alto. La flebile luce dei lampioni ne illuminava il profilo, una felpa grigia aderiva perfettamente al torace definito, le spalle larghe e robuste era aperte, cariche di una forza tipicamente maschile. Dei pantaloni neri e attillati avvolgevano le gambe lunghe e definite, il cappuccio sollevato mi impedì di riconoscere il volto dello sconosciuto.
Di colpo, quell'uomo smise di camminare e si fermò proprio davanti a me. Un leggero singulto fuoriuscì dalla mia bocca. Inaspettatamente, fece un passo avanti, ed io indietreggiai d'istinto. Mi morsi nervosamente l'interno della guancia e continuai ad allontanarmi da lui. Stavo per voltarmi quando lo vidi muoversi ancora, i suoi passi lenti e misurati inghiottivano i pochi metri di distanza che ci dividevano.
Continuai a guardarlo senza riuscire a dire nulla. Sentivo lo stomaco stretto in un nodo e il cuore battermi forte nel petto. L'aria era divenuta tutto d'un tratto soffocante e il respiro spezzato dalla paura, graffiava la gola secca. Sapevo che me ne sarei dovuta andare all'istante, ma le mie gambe non volevano saperne di reagire.
L'uomo avanzò sempre di più verso il mio corpo pietrificato. Seguii la sua camminata decisa, che, volutamente sicura, acuiva il terrore che avevo impresso sul volto. La sua figura solenne sembrava ancora più imponente di quello che mi aspettassi. Si fermò di fronte a me e inclinò la testa di lato, probabilmente divertito dalla strana circostanza in cui ci trovavamo. Nonostante fosse buio, e non riuscissi a vedere il suo volto, percepii il suo sguardo addosso. Gli occhi scuri, nascosti dall'oscurità della notte, mi attraversarono, facendomi gelare il sangue nelle vene. Indietreggiai di nuovo, spaventata, ma questo non bastò a farlo desistere perché continuò la sua avanzata.
Perché quell'uomo vuole spaventarmi?
Se si tratta di uno scherzo, è davvero di pessimo gusto!
All'improvviso, il suo petto vibrò, scosso da una risata profonda che rimbombò nell'aria, terrorizzandomi. Un brivido freddo mi accarezzò la pelle e una sensazione di orrore mi pervase. Mi tremarono le ginocchia, e i piedi si intrecciarono, tanto che rischiai persino di cadere a terra.
Dovevo uscire subito da quella assurda situazione.
Poi, un barlume di ragione illuminò la mia mente confusa. Mi ricordai di non essere sola, per fortuna. A qualche metro da me, Bless e Trevor stavano ancora discutendo, riuscivo a sentire le loro voci intrecciarsi con il battito convulso del mio cuore, mi martellava le orecchie come un forsennato.
Bastò quella consapevolezza per rendermi più forte.
«Ragazzi? ...» urlai sicura senza voltarmi.
Niente.
Non risposero.
Evidentemente erano troppo lontani per riuscire a sentirmi.
Cazzo!
Mi sentivo in trappola.
Trattenni il respiro e guardai a occhi spalancati l'uomo di fronte a me. I nervi tesi, come due corde di violino; la schiena madida di piccole gocce di sudore che scivolavano in picchiata lungo tutta la colonna vertebrale.
Se non me ne fossi andata all'istante avrei rischiato di morire d'infarto. Tuttavia, ero un po' curiosa.
Chi diavolo era quel tizio?
Oh, Dio e se Trevor avesse ragione?
E se fosse un serial killer?
Bastò quello stupido pensiero per innescare in me l'istinto di sopravvivenza di una preda, ma fu quando la sua bocca sibilò qualcosa di minaccioso che me la diedi veramente a gambe levate.
Mi voltai, e senza pensarci due volte, corsi dalla parte opposta come un topolino impazzito, e raggiunsi i miei amici in pochi secondi.
«Joy che succede?!» urlò Bless appena mi vide arrivare.
«C'è...c'è qualcuno lì» balbettai terrorizzata, riuscii con le poche forze rimaste ad indicare il punto preciso in cui avevo visto quell'uomo spaventoso. Trevor mi guardò sconvolto, cominciò a voltarsi a destra e sinistra, cercando una via di fuga. La bocca allargata e gli occhi allucinati. Rivoli di paura gli imperlarono la fronte.
«Dove?» domandò sprezzante Bless, non risposi subito perché a corto di fiato.
«Io ve l'avevo detto cazzo, andiamo via subito!»
«Smettila Trev, io non vedo niente»
Ero paralizzata, non riuscivo a respirare e avevo la gola secca. Cercai di deglutire e ingoiare quel groppo amaro che mi si era formato, ma niente, non ce la facevo. Strinsi forte i denti e feci un respiro profondo dopo l'altro, con i muscoli tesi e lo stomaco sottosopra.
«Come...come fai a non vederlo...» ansante, mi voltai, ma di fronte non scorsi alcuna figura.
Ma che...?
Mi ammutolii e rabbrividii.
Non è vero, non è possibile, c'era una persona lì. Non posso essermelo immaginata.
«...vi giuro che c'era un uomo nascosto tra gli alberi, io l'ho visto» inspirai tremante, cacciai i capelli dietro le spalle e mi avvicinai appena per vedere meglio. Una mano premuta sul petto, l'altra chiusa a pugno lungo il fianco.
Dove si è cacciato? Un attimo fa era proprio lì in mezzo!
«Joy, non c'è nessuno...» sussurrò al mio orecchio Bless, tentò di tranquillizzarmi ma fu tutto inutile.
Una sola parola, sussurrata con un timbro virile e prepotente.
Una sola parola, e la sua voce spaventosa aveva fatto vibrare ogni centimetro della mia pelle.
Una sola parola, che racchiudeva un verdetto, una minaccia, un consiglio.
Aveva detto: "Corri"
***
Spazio Autrice
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Grazie per il vostro sostegno, al prossimo aggiornamento.
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