
2. Galeotta fu la matita e chi la rubò
Il Professor Edwards entrò in aula, proiettando su di sé l'attenzione.
Sfoggiava labbra sottili arcuate in un sorriso smagliante e uno sguardo sicuro e sagace: aveva lunghi capelli marroni, portati fin dietro le spalle e grandi occhi vitrei che gli illuminavano la pelle chiara. Notai subito che aveva una forte ossessione per l'ordine: cincischiava costante la camicia, color azzurro fiordaliso, per lisciarne le pieghe. Adagiata sulla cattedra in rovere, c'era una fila di penne colorate con le etichette rivolte verso l'alto, tutte perfettamente allineate. Stringeva fra le dita una piccola scatola in latta dove erano custoditi dei gessetti bianchi, stondati, della stessa lunghezza e dimensione.
Ascoltai con vivo interesse la sua voce melliflua illustrare il programma del corso: Genetica Animale. Entusiasta, decisi di annotare alcune informazioni. Accennai un sorriso a fior di labbra, un luccichio di curiosità mi brillò in viso e catturai la matita fra le dita. Mentre scrivevo però, sorpresi il ragazzo al mio fianco osservarmi in silenzio. Per un attimo ebbi l'impressione che mi stesse studiando di nuovo. Poi, di punto in bianco, gettò la testa all'indietro e sollevò le braccia fin sopra il capo, solleticò con le dita l'aria sopra i lui, e rilassò i muscoli intorpiditi. Gemiti profondi grondarono fuori dalle sue labbra.
Finsi di non sentire, e socchiusi gli occhi per un attimo; quando li riaprii mi accorsi che i lembi della felpa si erano sollevati nel movimento fin sopra il suo addome, scoprendo gli addominali scolpiti. La pelle ambrata rifulgeva come uno specchio baciato dal sole, e sprigionava un vigore travolgente. La bocca mi si aprì come un bocciolo. Mi ritrovai a fissarlo, osservando la dolcezza impressa nei suoi lineamenti, morbidi e sottili. Catturai la particolarità di ogni dettaglio: riccioli ribelli scivolavano soavi sul viso pulito e fresco, adombrato da un'espressione accigliata. Guardai quelle onde muoversi ad ogni sospiro, carezzavano soffice la fronte, posandosi sul ricordo di una cicatrice sbiadita. Poi però, tornò dritto con il busto. La felpa era ricaduta verso il basso, le braccia premevano i gomiti sul tavolo. Mentre una mano picchiettava sul legno, l'altra sfiorava appena con le dita il labbro inferiore, lì, in quel punto preciso, colsi un particolare che non avevo notato prima d'ora: l'anulare era chiuso in un cerchio d'acciaio, su cui era incisa una frase minuscola, impossibile da cogliere.
«Non te l'ha mai detto nessuno che fissare le persone è inappropriato?»
La sua voce baritonale mi fece drizzare i peli di tutto il corpo.
Sussultai, ingoiando un groppo di saliva, sollevai il volto all'istante e trovai i suoi occhi affilati incastrati nei miei.
Si era accorto che mi ero imbambolata a fissarlo?
Capii subito il mio errore. La vergogna mi addentò lo stomaco e le guance mi pizzicarono. Tentai di nascondere le emozioni contrastanti che mi brulicavano nel petto come formichine impazzite, ma la tensione sulla pelle e l'imbarazzo dipinto sul viso, erano due indizi chiari ed inequivocabili del mio evidente disagio.
Avevo fatto l'ennesima figuraccia.
Mi morsi le labbra nervosa, mentre lui, imperturbabile, continuava a guardarmi fisso. In quel momento, avrei desiderato essere invisibile, nascondere la testa sotto la sabbia e sparire per sempre. Tuttavia, raccolsi una briciola di coraggio e mi feci forza, cacciai via la vergogna e mi sforzai di parlare, cercando disperatamente una scusa che giustificasse il mio comportamento.
Cosa mi invento ora?
Pensa Joy, trova una ragione plausibile.
Un motivo più che valido per guardare un ragazzo con così tanta insistenza.
Sempre che ce ne sia uno.
«Non ti stavo fissando, stavo...» deglutii «Stavo solo guardando la tua felpa» replicai.
Patetica, era il termine più appropriato per definire la mia risposta, e pensare che ci avevo persino ragionato sopra. Maledizione, avrei voluto schiaffeggiarmi da sola.
«La mia...felpa?» sussurrò piano con timbro seducente, incredulo.
«Sì, la tua felpa» risposi semplicemente, mentendo e guardandolo colpevole, potei giurare di aver avuto stampata in viso la peggior espressione tra la storia di tutte le peggiori espressioni.
«Dimmi...» fu un sussurro delicato. Si voltò piano, incrociò i bicipiti e restò ad osservarmi. I muscoli stretti in una morsa di ferro, lo sguardo penetrante e intimidente.
«Cos'ha di tanto speciale per meritare i tuoi occhi addosso?» domandò avvicinandosi, un sorriso canzonatorio gli addolciva le labbra. Mi irrigidii, turbata e confusa dal suo comportamento.
«Niente, semplicemente penso sia...carina... tutto qui» gracchiai con voce ridicola.
«Carina...» ripeté con un tono incredibilmente lento e profondo.
Non mi aveva creduta neanche per sbaglio.
Spalancai gli occhi e mi tesi, quando lo vidi avanzare ancora. Si mosse lento e suadente come un felino, sporgendo il corpo avanti verso il mio, immobile e tremante. Si era fermato ad un paio di centimetri di distanza da me. Sentivo il suo respiro caldo lambire la mia pelle, mentre continuava a guardarmi, sovrastante e sicuro. Il suo profumo virile mi invase le narici. Il cuore mi martellò in gola.
Che diavolo sta facendo?
Indietreggiai, ma alle mie spalle avevo lo schienale della sedia, perciò non andai troppo lontano. Strinsi le dita attorno alla maglietta, senza sapere a cos'altro aggrapparmi, e gonfiai il petto, sollevando il mento con aria di sfida per contrastarlo.
«È fastidioso, non è vero?» ringhiò tra i denti, facendo scoccare la lingua contro il palato come un rimprovero.
«Cosa?» domandai inquieta. Nascosi le labbra quando mi accorsi che i suoi occhi perforanti erano fissi sulla mia bocca schiusa, grondante sospiri spezzati. L'attimo dopo, un muscolo della sua mandibola guizzò repentino, probabilmente divertito dalla reazione che la sua presenza sortiva in me.
«Essere guardata in questo modo» il suo sguardo scivolò lungo il mio corpo. Lo stomaco mi si contorse in una presa stretta, mentre il sangue risalì fino al cuore, pulsando forte contro l'arteria della gola. Abbassò il viso e qualcosa sembrò destare la sua curiosità, si leccò le labbra turgide, guardando un punto preciso. Il rilievo pronunciato dei miei seni, che seppur coperti dal tessuto della felpa, erano fin troppo grandi per rimanere nascosti. Mi sembrò come se mi stesse toccando e questo fece tremare ogni mia debole sicurezza.
Deglutii un nodo amaro ma la saliva mi andò di traverso. Cercai di porre fine a quella fastidiosa analisi, schiarendomi la voce. Il rumore gracchiato che uscì fuori fu sufficiente a ridestarlo. L'istante dopo, le sue iridi lampeggiarono di nuovo nelle mie, vidi nel loro riflesso il rossore diffuso sul mio viso.
«Allora perché lo stai facendo?» pigolai con un filo di voce.
Sollevò un angolo della bocca, sorridendo suadente.
«Perché sei...carina» la voce vibrò bassa e seducente e causò un tremito improvviso tra le mie costole.
Sbattei le palpebre, attonita.
Mi stava...mi stava prendendo in giro?
Ovviamente.
Faticai ad ammettere che purtroppo, stava riuscendo ad innervosirmi alla grande. Ma non gettai la spugna tanto facilmente, mi imposi di tenergli testa. Così lo guardai, sollevai il volto fiera e inspirai a fondo prima di dire: «Te l'ha mai detto nessuno che sei davvero insopportabile?»
«Finora no, sei la prima» esordì sfidandomi ancora.
Certo, come no...la prima.
«Quindi sono un'eccezione» lo provocai, scoccandogli un'occhiata di traverso.
«Direi di sì...» cominciò «Come hai detto che ti chiami?» finì, domandando con il volto inclinato e un sopracciglio arcuato.
«Non l'ho detto...» sottolineai ancora più aspramente del dovuto.
«Allora, dimmelo» ripeté piano. Quel tono mi fece rabbrividire.
«Joy...»
«Lascia che ti dia un consiglio...Joy» esordì autoritario «La prossima volta sii più discreta quanto tenti di osservare qualcuno»
Con un gesto repentino, afferrò la mia matita, portandosela alle labbra. Mi fece l'occhiolino prima di affondare i denti nel legno morbido. Lo osservai sconcertata imprimerci sopra segni inconfondibili che non se ne sarebbero più andati. In un impeto spontaneo cercai di oppormi e mi avvicinai per strappargliela dalle mani.
«Quella è mia!» farfugliai furibonda.
«Ssh» tentò di zittirmi e il solo fatto che lui pensasse di poterci riuscire mi infastidì non poco. Una rabbia cieca mi oscurò le pupille, puntai i piedi a terra e gonfiai i polmoni.
«Come ti permetti di...» stavo per esplodere, ma non mi lasciò finire. Mi ammonì ancora, puntandomi l'indice addosso. Fissai con durezza il dito muoversi a destra e sinistra.
«Conosci le mie condizioni. Se vuoi rimanere seduta devi fare...silenzio»
Le parole mi si sciolsero in gola e rimasi di stucco. Avrei voluto urlargli contro quanto fosse irritante il suo atteggiamento dispotico. Tuttavia, repressi quell'istinto proprio nell'esatto momento in cui il Professor Edwards entrò finalmente in aula. Litigare con qualcuno non rientrava di certo tra gli obiettivi che mi ero prefissata per il mio primo giorno di Università. Così finii per fare esattamente quello che lui mi aveva imposto, mi costrinsi a rimanere in silenzio.
Le ore di lezione trascorsero in fretta. Il Professor Edwards era un uomo gentile, dall'animo mansueto, proprio come Bless me lo aveva descritto. Mi suscitava una forte simpatia, avevo trovato affascinante la sua spiegazione sulla struttura del DNA e RNA. Avrei voluto anche annotare alcune informazioni sulle pagine del mio quaderno per ricordare concetti importanti, difficili da comprendere, ma ahimè non avevo niente con cui scrivere.
Quel tipo irritante non l'aveva neanche utilizzata per prendere appunti, anzi, in verità, non aveva proprio mostrato alcun interesse verso la lezione. Mi dava sui nervi il suo atteggiamento, in un'altra occasione non avrei mai permesso a nessuno di calpestare il mio orgoglio. Ma per quanto avessi voluto schiantargli in faccia l'intero libro di Genetica, in quel momento, non riuscii a fare nulla.
Lui non faceva parte della categoria degli imbecilli a cui sapevo tenere testa. Non lo conoscevo, ma sapevo con assoluta certezza che di certo, non aveva niente in comune con quelli che si divertivano a spettegolare e commentare velenosi. Non era uno sciocco come gli altri.
Era furbo. Molto furbo.
Inoltre, era tutto fin troppo nuovo per me, e non volevo farmi già dei nemici. Anche se dentro, mi ero chiesta se ci fosse stata presto o tardi la speranza di vederlo ruzzolare giù per le scale.
Il Professore aveva appena terminato di spiegare, stavo riponendo il quaderno nella borsa quando uno spostamento d'aria improvviso mi fece volare i capelli che mi si incollarono al viso, coprendomi gli occhi. Soffiai via ciocche dalla bocca, risalii con lo sguardo fino al ragazzo che sedeva accanto a me, e rimasi perplessa quando mi accorsi che lui non c'era più. Lo cercai fra gli studenti che stavano lasciando l'aula, fra le tante teste che si alzavano, notai il suo cappuccio grigio antracite scomparire velocemente dietro la porta.
Chissà perché tanta fretta...
Afferrai la borsa e mi diressi verso l'aula dove si sarebbe tenuto il corso di Biologia Animale.
La Dottoressa Smith era una donna matura e affascinante, con una profonda passione per la materia che insegnava. Aveva circa cinquanta anni, ma nonostante l'età adulta, la bellezza sprigionata dal suo corpo tonico e ben allenato catturava l'attenzione di appetiti insaziabili come quelli dei giovani ragazzi, in preda agli ormoni. Indossava un elegante tailleur color sabbia che le avvolgeva morbido le curve prorompenti. I capelli biondo cenere le incorniciavano il viso appuntito, costellato da minuscole rughe, ma luminoso come il sole. Lunghe ciglia nere carezzavano gli zigomi alti, dove sopra di essi brillavano un paio di occhi del colore di un lago ghiacciato.
Ogni individuo di sesso maschile presente in aula era del tutto impazzito dopo aver visto il suo sedere florido, tanto che le due ore di lezione furono costantemente disturbate da sguardi indiscreti e gridolini concitati.
Idioti...
Lei però non parve imbarazzata dalle esasperanti provocazioni e dagli incessanti apprezzamenti sussurrati a fior di labbra, anzi ne era lusingata. Volutamente, si aggirò per l'immensa aula ricolma di studenti, ancheggiando fra i tavoli e seguitando con le sue spiegazioni. La bocca carnosa, tinta scarlatta, era sempre arricciata verso l'alto in un sorriso malizioso. Avrei voluto un quarto della sua sicurezza.
Quando terminò il suo discorso, ci salutò dandoci appuntamento al giorno seguente.
Mi alzai dalla sedia, sistemai la tracolla su una spalla e mi diressi fuori zigzagando tra le file di posti ancora occupate dai miei colleghi. D'un tratto, il mio stomaco cominciò a brontolare, lo carezzai con la mano, sfregando il palmo più volte. Avevo una fame da lupi. Guardai l'ora sul polso: segnava le 13:00, ora di pranzo.
Ora mi era tutto più chiaro. Avevo un vero e proprio orologio biologico per quando si trattava di mangiare, infatti, raramente il mio corpo si sbagliava.
Non avevo alcuna voglia di tornare a casa e mettermi ai fornelli, così l'idea di pranzare all'Università cominciò ad insinuarsi nella mente, fino a convincermi del tutto. Stavo per incamminarmi verso la mensa quando mi guardai intorno e non potei fare a meno di notare il caos che mi stava circondando in quel momento. Vidi che gli studenti zampettavano come cavallette impazzite nel corridoio immenso, alcuni scomparivano persino dietro le porte, altri si disperdevano in varie direzioni. Il pavimento non aveva smesso di tremare sotto i miei piedi neanche per un istante. Lo scalpitio frenetico di passi, il parlottare costante e le risate gagliarde delle persone mi rimbombavano nelle orecchie, costringendomi a serrare le palpebre per il fastidio. Odiavo la confusione, ma più di tutto, odiavo il rumore che questa produceva.
Un momento...
Se nel corridoio l'atmosfera è questa, figuriamoci quanto può essere affollata e caotica la mensa...
Pensai. Mi sforzai di trovare un'altra soluzione, sufficientemente adeguata a mettere a tacere il mio borbottio. Tra lo sciame di teste che spuntavano alte nel corridoio, adocchiai una macchinetta delle merendine. Era nascosta in un angolo, accanto ad una piccola porta di servizio.
Perfetto!
Mi incamminai svelta verso di lei, mentre frugavo nelle tasche alla ricerca di qualche monetina. Quando la trovai la inserii nella fessura e digitai il numero corrispondente ad un pacchetto di salatini al gusto rosmarino.
Meglio di niente...
Avevo appena terminato di mangiare, strofinai il dorso della mano sulla bocca per ripulirmi dalle briciole e ripiegai la carta nel cestino. Sollevai la bretella della borsa su una spalla e feci per andarmene, ma mi bloccai subito quando notai di fronte a me un gruppetto di ragazzi che sventolava sciarpe bicolori sui toni del blu e dell'arancione, canticchiando jingles che non avevo mai ascoltato prima d'ora: "This is Auburn, Aubie the Tiger is here!" e ancora: "Go Tigers". Lanciai un'occhiata fulminea verso un altro angolo della stanza, e vidi altri colleghi che si erano perfino radunati in cerchio per scambiarsi delle bandiere con disegnata l'immagine di una tigre che indossava un simpatico capellino.
Non ebbi il tempo di riflettere che il corridoio nel giro di pochi secondi divenne ancora più affollato. Sbucarono studenti da ogni angolo. Decisi così di tornare a casa, immediatamente. Cercai di farmi spazio fra la gente, ma fu piuttosto difficile, per due semplici motivi: l'altezza non era una delle mie virtù; ed esattamente come un salmone selvaggio, nuotavo dalla parte opposta della corrente.
«Permesso...»
«Scusami...»
«Vorrei passare...»
«Ehi!» mi chiamò una voce alle mie spalle. «Joy, ciao»
Mi voltai e trovai i lineamenti candidi e delicati di Bless a un palmo dal mio viso. Sgusciò via dalle spalle gigantesche di due energumeni membruti, si sporse appena in avanti per venirmi incontro ma inciampò sui suoi stessi piedi. Con lo sguardo di chi stava per stringere la mano alla morte, mi afferrò per il braccio, credendomi l'unico appiglio verso la salvezza. Mossa sbagliata e gesto sconsiderato. Mi sbilanciai, persi l'equilibrio e caddi all'indietro come un sacco di patate.
La vista si annebbiò.
Un peso violento mi crollò addosso.
Un dolore lancinante mi colpì il fondoschiena.
La testa pulsava, ma dopo qualche istante riuscii finalmente a riprendere coscienza. Ancora prima di capire mi accorsi dello tsunami di capelli marroni che mi copriva il volto. Un torace piatto premeva forte contro il mio petto. Sbarrai gli occhi.
Bless mi stava schiacciando.
«Oh, santo cielo...» sussurrò al mio orecchio, troppo imbarazzata persino per alzarsi e guardarmi. E infatti non lo fece. Rimase lì, comodamente sdraiata sul mio corpo inerme, come se fossi un morbido guanciale su cui schiacciare un pisolino.
Aiuto, io però non riuscivo a respirare.
Obbligai le poche forze che restavano sulle mani a toccare la sua spalla per spingerla via, ma non appena le mie dita le graffiarono il tessuto, Bless si risvegliò dal suo momentaneo stato di trance e schiuse di nuovo le labbra.
«Sono mortificata»
Sarei soffocata da lì a qualche minuto se non si fosse scostata all'istante.
«Non sai quanto mi dispiace...» sentii l'aria abbandonare i miei polmoni.
Era la fine. Non avevo nemmeno salutato i miei genitori, i miei fratelli. Insomma, meritavo più tempo. Avrei voluto quanto meno confidare a Mamma che ero stata io a rompere il vaso antico che decorava il cortile di casa, a cui teneva tanto, e non mio fratello.
«Quanta paura, credevo di rompermi un braccio»
Pensai al funerale. Avrei preferito una cerimonia all'aperto, immersa nel verde di un bosco inghirlandato da collane di fiori, fra le fronde dei pini e le foglie stellate delle querce. Cullata dal canto di cinciallegre e dal garrire dei rondoni.
«Grazie per avermi salvato, sei stata così gentile...»
Ok basta.
«Bless, puoi, puoi per favore» balbettai con voce strozzata.
«Mio Dio, certo, scusami» la sentii strepitare prima di vederla di nuovo davanti a me. Mi avvicinò la mano per aiutarmi, gliel'afferrai con fatica e tornai, finalmente, con la schiena dritta. Vacillai quando mi rimise in piedi, osservandomi preoccupata.
«Ti ho fatto male? Mi dispiace...» disse mortificata «Ho perso l'equilibrio, scusami davvero Joy...» esclamò drammatica, guardandomi con occhi languidi di pentimento.
«Bless, non preoccuparti, va tutto bene» cercai di rassicurarla. Lei sorrise raggiante come se l'avessi appena liberata di un peso enorme, e mi abbracciò, stritolandomi, di nuovo. In circostanze diverse non l'avrei permesso, non ero un amante del contatto fisico. Carezze, abbracci, baci erano gesti d'amore che preferivo non ricevere, né tanto meno dare, ma Bless mi aveva colta alla sprovvista.
Erano passati, quanto? Dieci secondi circa? Tuttavia, sentivo già il bisogno di rompere quel groviglio di braccia e mani. Percepii la mia pelle macchiarsi di disagio e bruciare di fastidio.
Le labbra di Bless tremarono, il fremito che uscì fuori dalla sua bocca mi solleticò il collo, costringendomi ad indietreggiare. Il suo viso mi si parò davanti. Ancora. Sollevai lo sguardo e incastrai i miei occhi nei suoi. Due specchi d'acqua trattenuti dalla forza delle ciglia. Vidi le sue guance gonfiarsi a dismisura, il volto cambiare colore da un rosa pallido a un rosso porpora. Non feci in tempo a chiederle che cosa le stava accadendo che scoppiò in una fragorosa e convulsa risata. I denti piccoli, bianchi e uniti spiccavano sul viso accaldato brillando di felicità. Ruscelli di lacrime le bagnarono le guance floride e imporporate.
Stava veramente...piangendo dal ridere.
«Che hai da ridere?» chiesi indispettita.
«Questa è già la seconda volta che cadi e io ti aiuto a rialzarti, dobbiamo smetterla di incontrarci così» ansimò asciugandosi il volto con la manica della maglietta.
Mi trovava perfettamente d'accordo.
«Già...» ripetei solamente, massaggiandomi il sedere dolente, dove l'indomani ero sicura di trovare un livido grosso quanto la mia faccia. Sai che gioia...
«Comunque, volevo chiederti se ti va di venire a vedere la...» ma di colpo Bless smise di parlare. Delle urla agghiaccianti si riversarono all'improvviso nel corridoio. Sobbalzai per lo spavento, diventai rigida come una statua di sale. Il mio corpo smise di rispondere ai miei comandi quando tutto intorno esplose in un tripudio di rumori: fischi mordenti, risate squillanti, grida entusiastiche, trombette impazzite. Quei suoni sgraziati e frenetici mi riempirono di stridore i timpani. Ma il peggio non fu quello, il peggio arrivò quando voltandomi alla ricerca di una spiegazione, mi trovai di fronte otto spalle nerborute che avanzavano a passo di carica, con sciarpe colorate e bandiere sgualcite strette saldamente tra le dita tozze.
Mi sembrò di rivivere una scena del film della Disney "The Lion King". Mi sentivo esattamente come Simba quando davanti a sé scorse la mandria impazzita di gnu che lo stava per travolgere e schiacciare da un momento all'altro. Maledette iene.
Spostati Joy, urlò il mio cervello.
Ma che diavolo sta succedendo?
«Spostati Joy!» urlò Bless.
Perché corrono?
Ancor prima di agire, Bless mi agguantò il fianco, scaraventandomi con forza all'indietro. Accadde tutto in una frazione di secondo: persi coscienza della realtà, incespicai e sbattei contro il muro. L'ambiente tremò intorno a me. Il viso di Bless fu l'ultima cosa che vidi prima di chiudermi definitivamente, come una saracinesca.
«Joy, tutto bene?»
Tornai faticosamente a riaprire le palpebre, ma girava tutto. Uno sfondo nero decorato da una costellazione di stelle mi offuscò la vista. Un dolore lancinante mi invase il retro della testa mentre un bruciore intenso si espandeva lungo la spina dorsale. Lamentando qualche borbottio poco chiaro, massaggiai l'enorme bernoccolo che era comparso proprio nel punto in cui il mio cranio si era schiantato contro la parete.
«Hai battuto la testa? Ehi! Mi senti? Che cos'hai?»
Il colpo alla testa non sembrava bruciare neanche più di tanto, in confronto alla rabbia che mi ardeva incontrollata dentro, dilaniando ogni minuscolo barlume di lucidità. Per un attimo, pensai a come infliggere una morte lenta e dolorosa a quei quattro australopitechi che per poco non mi avevano travolto, poi, riflettei, e mi ricordai che l'omicidio era un reato severamente punito, perciò decisi di soprassedere. Per ora...
Con lo sguardo ancora incatenato alla massa di persone che entrava in palestra, Bless mi si piazzò davanti, coprendomi la visuale. Ingoiai tutti gli insulti che avrei desiderato riversarle e le rivolsi un'occhiataccia. Stavo per risponderle quando mi afferrò le spalle, scuotendomi come uno shaker da cocktail.
Per quale assurdo motivo lo stava facendo? Che cosa pensava che fossi? Un Mojito?
«S-t-a-i b-e-n-e?» scandì perfettamente ogni lettera. Continuò a urlarmi e strattonarmi fino a quando, inerme, trovai il fiato per parlarle.
«Sì, sto bene ma se continui a strattonarmi in questo modo mi spezzerai l'osso del collo» espirai sfiancata. Lei mi lasciò subito. Grazie al cielo...
«Oh, sì, scusami»
Sospirai rassegnata. Afferrai la borsa da terra spazzando la polvere dal tessuto.
«Dove te ne vai ora?» domandò con voce argentina. Chiusi gli occhi, imponendomi di rimanere calma.
«A casa»
L'unico posto in cui mi sentivo veramente al sicuro. Un rifugio nascosto, un nido accogliente, un luogo in cui le probabilità che venissi schiacciata da una ragazza che avevo appena conosciuto erano pari a zero. Così come la percentuale di morire travolta da un branco inferocito di atleti in balia di un raptus improvviso. Semplicemente...casa.
«Oh, io invece vado in palestra perché un mio amico vuole assistere alla prima partita di basket del campionato...» sorrise raggiante. In quell'istante, capii per quale motivo la gente sembrasse sotto effetto di droghe psichedeliche.
«Forza Tigers!» batté le mani eccitata saltellando sul posto.
«Yeee...» ripetei sorridendo così tanto da strapparmi la pelle. Finsi un entusiasmo che non mi sarebbe appartenuto neanche in un'altra vita. Odiavo qualsiasi tipo di sport, figuriamoci se mi sarei mai sottoposta alla tortura di guardare una partita di basket.
«Unisciti anche tu, mi farebbe molto piacere...»
Che cosa?!
Stava scherzando?
Mi osservò splendente con la bocca spalancata e le sopracciglia arcuate in un'espressione di euforia incontenibile. No, non stava scherzando. Così, cercai le parole giuste per declinare il suo invito.
«No, io...il basket non fa per me...» vidi che il suo entusiasmo stava lentamente perdendo vitalità e mi sforzai di trovare una scusa più convincente.
«Non capisco le regole del gioco e....» scattò come una molla e mi guardò elettrizzata.
«Neanche io, ma che ti importa?»
«Preferisco andare a casa, ma grazie...»
«Dai, Joy» pigolò Bless pregandomi con occhi da cucciolo di Labrador. Oh, no, non avrei ceduto. Sporse in avanti il labbro inferiore per intenerirmi ancora. Non mi sarei sciolta neanche sotto il sole cocente del deserto del Kalahari. Inclinò il viso di lato assumendo un'espressione a dir poco irresistibile. Un altro buco nell'acqua.
«Per favore...» supplicò con una vocina da bambina.
«Va bene...vengo»
Dannazione.
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