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LEZIONE 5:

 La Verità è che io alimento la mia sofferenza e posso smettere di farlo.


Dopo poco eravamo per strada, in mezzo alla gente, anche se non molta in effetti, perché del resto il Natale si passa in famiglia. Faceva freddo e le vetrine decorate, piene di qualsiasi tipo di articoli, attiravano l'attenzione dei pochi, che come Sakuragi avevano disperatamente bisogno di una sorpresa folgorante. Un sottile manto di neve bianca, quasi una spolverata di zucchero a velo, resisteva sugli alberi snelli, che separavano il marciapiede dalla strada, sui quali restava un'impura fanghiglia impiastricciata dal passaggio delle auto e dei pedoni. Ci fermammo di fronte ad un negozietto di oggetti antichi. La vetrina, meno imponente ed illuminata delle altre, aveva un aspetto gradevole ed invitante, perché rendeva appieno l'idea che all'epoca avevo del Natale: un momento solitario e nostalgico. Sakuragi entrò ed io lo seguii in silenzio. L'interno era caldo ed accogliente, la stessa luce soffusa e densa che traspariva dalla vetrina, dei mobiletti in legno, esponevano sulle mensole aperte oggetti di svariate forme, dimensioni e materiali. Sentii un tonfo alle mie spalle e mi voltai appena in tempo per vedere una ragazza che, nel tentativo di proteggere un oggetto di vetro che teneva fra le mani, stava cadendo a terra. Fece un profondo sospiro, seduta sul pavimento in una buffa posizione, ma subito sollevò il capo, facendo sì che i lunghi boccoli dorati si scostassero dal volto, solo allora si accorse di noi. Saltò in piedi, fece un grazioso inchino e ci sorrise con dolcezza.

- Salve, desiderate qualcosa in particolare? – chiese, con uno strano accento.

Era occidentale, gli occhi colore del mare, il viso dalla linea dolce e l'espressione cordiale e fiduciosa, le conferivano un'aria vagamente infantile. Portava un vestito blu, lungo fin sopra il ginocchio e decorato da nastrini e merletti azzurri. Notai che teneva la statuetta di vetro stretta al petto con fare protettivo. Sakuragi si grattò la nuca ed arrossì un poco. Non era certo strano pensare che fosse stato attratto da lei, anzi era un enorme salto di qualità, se paragonata a quel mostriciattolo della Akagi.

- Dovrei fare un regalo... - rispose piano.

La ragazza si guardò intorno con aria riflessiva.

- Si tratta di una persona a cui tiene molto? – domandò, sorridendo dolcemente.

Lui si limitò ad annuire, ancora imbarazzato, quindi la seguì verso il banco. Io continuai ad aggirarmi per il negozio, ma sentii la ragazza presentarsi e colsi qualche parte della spiegazione sull'oggetto che portava con sé. L'insieme dovette essere convincente, perché lui decise di comprarlo e, dopo che si furono scambiati gli auguri, mi richiamò per poter uscire. Lo seguii lentamente e mi voltai a guardare un'ultima volta la ragazza, che mi sorrise, salutandomi con la mano.

- Dove andiamo? – chiesi, quando mi trovai al suo fianco.

Sakuragi si strinse nelle spalle, ma continuò a camminare, con le mani sprofondate nelle tasche del giaccone. Il sacchetto penzolava dal braccio destro, sbatacchiando qui e là. Con tutta la cura che ci aveva messo la commessa a proteggerlo, non avrebbe dovuto venderlo ad un animale come quello. Camminammo senza meta, finché che finimmo al solito parco, quello dei miei incontri con Acchan. Lui si sedette su una panchina, che dava sulla piazzola interna, in ci per via delle festività si trovava anche un chiosco degli hot-dog. Ero rimasto indietro e senza neppure pensarci mi fermai a comprarne uno per entrambi. Glielo portai e presi posto al suo fianco. Si sorprese e mormorò un qualche ringraziamento. Restammo a lungo in silenzio, entrambi apparentemente immersi nei propri pensieri, in realtà io avevo la testa vuota e non registravo nient'altro se non i suoi movimenti. Si lasciò ricadere contro lo schienale, sbuffando.

- Stasera devo lavorare – disse contrariato.

- Anche il giorno di Natale? – chiesi placido.

- Eh, già...Razza di schiavisti! – sbuffò ancora.

- Che lavoro fai? – domandai.

- L'accompagnatore in un club gay – rispose con la massima serietà.

Dimentico della maschera, mi voltai a guardarlo sorpreso, con tanto d'occhi sgranati. In un istante recuperai la faccia di bronzo, cercando di farlo sembrare normale.

- Stai scherzando? – domandai ancora, e quasi trattenni il respiro.

- Sì – ridacchiò divertito – Credi davvero che Mr. 50 rifiuti possa fare l'accompagnatore? Faccio il barista in un locale, anche se in verità il capo ha un debole per me... – aggiunse.

La mia espressione mutò ancora vertendo sul broncio per un millesimo di secondo. Non saprei dire come, se ne accorse e rise di nuovo, così di scatto mi voltai a guardare la strada. Mi sentii davvero ridicolo.

- Idiota – commentai a denti stretti.

- Sei proprio una vecchia volpaccia scorbutica e priva di senso dell'umorismo – rispose, sfoggiando un sorriso che voleva sembrare perfido, ma sembrava solo ebete.

Mentre parlava, si alzò e mi mise una mano sulla testa, spingendola verso il basso. Mi scompigliò i capelli. A pelle era un gesto che avrei definito persino affettuoso. Per fortuna subito si allontanò per buttare i rifiuti e non dovetti preoccuparmi di che reazione avere, perché riprese a camminare e potei limitarmi a seguirlo. Quando rientrammo era pomeriggio inoltrato, dopo aver fatto un altro giro del centro e visitato qualche negozio di articoli sportivi, pur non avendo parlato molto, l'atmosfera era rilassata ed eravamo riusciti a passare una giornata che, dati i nostri standard, si poteva definire più che piacevole.

- Credo sia meglio che vada – dissi, mentre si apprestava a cambiarsi per andare a lavoro.

Il locale a quanto mi aveva detto apriva alle sette e mezzo, ma lui alle sei doveva esserci già. Mi aveva anche spiegato dove si trovava e consigliato di andarci, dato che era un posto molto carino e, nonostante lui ci lavorasse, abbastanza tranquillo. Attesi una risposta, finché uscì dalla camera.

- Potresti accompagnarmi e salvarmi dalle avances del capo... – rispose allegro – Di sicuro se ti vedesse punterebbe te – concluse, passandomi accanto e andando in cucina.

- Idiota – risposi come al solito.

Non avevo mutato il mio atteggiamento nei suoi confronti, ma lui pareva essersi accorto che era soltanto il mio modo di relazionarmi e non c'era alcuna ostilità. Era come se in tutta naturalezza avessimo preso confidenza. Arrivai a pensare che forse avremmo finito davvero col ritrovarci un giorno in un bar a chiacchierare come due vecchi amici. Ad ogni modo era strano che non si decidesse a salutarmi, mi sfiorò il dubbio o forse il desiderio che stesse cercando di trattenermi. Mi passò accanto per andare ad infilarsi le scarpe. Lo seguii fino alla porta, restando fermo alle sue spalle, ma non disse nulla. L'aprì, facendomi uscire, e la richiuse. Mentre scendevo le scale si avvicinò dietro di me.

– Se ti sta bene, posso sempre dirgli che sei il mio ragazzo – sussurrò melenso e subito scoppiò in una fragorosa risata.

Cominciò a correre giù per le scale, per scampare eventuali ripercussioni. La sua spacconeria mi era più che nota, ma mi chiesi dove avesse trovato tutta quella confidenza. Forse avrei dovuto aspettarmi simili battute da un come lui, quando fa l'amico, ma rimasi impietrito li dove mi trovavo, senza che nemmeno mi passasse per l'anticamera del cervello di scatenare la mia ira. Anche se avevo appena scoperto che per scatenare qualcos'altro, ci sarebbero stati buoni margini di trattativa. Quanto avrebbe potuto essere rischioso per me, concedergli simili spazi? Soprattutto che rischio avrei fatto correre a lui? Se fossimo finiti ubriachi come due buoni amici, forse non avrei risposto di me e avrei combinato cose che neppure avevo il coraggio di immaginare.

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