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LEZIONE 1:

La Verità è che questa è una storia come qualsiasi altra.


Ormai la depressione era diventata una minaccia tanto forte, che nemmeno la mia maschera riusciva a mantenersi salda. Di giorno in giorno vacillava sempre più, e la vedevo costantemente sull'orlo di sgretolarsi. A volte avevo persino l'impressione che gli angoli della mia bocca fossero piegati verso il basso, in una sorta di paralisi, come se gli stessi muscoli della faccia fossero collassati, allora mi concentravo per riuscire a trattenerli, per recuperare l'irrefrenabile caduta, ma la sensazione si amplificava e si espandeva all'intero volto, finché non mi convincevo che si fosse trasformato in una maschera triste e distorta e mi prendeva il terrore che fosse visibile a tutti. Era una sensazione terribile. Dovevo trattenermi dallo scappare per evitare gli sguardi altrui, che all'improvviso mi sembravano inquisitori. Appena potevo, cercando di non dare nell'occhio, mi rifugiavo in un bagno e mi guardavo. Ogni volta scoprivo che niente era fuori posto: la bocca era una linea perfettamente orizzontale, le sopracciglia fiere, gli zigomi sporgenti e gli occhi leggermente affilati verso l'alto. Non trasmettevo alcun segno di debolezza, ero la solita statua. Rincuorato, tiravo un sospiro di sollievo e tornavo sui miei passi. Mi sentivo di nuovo al sicuro, persino mi stimavo per la resistenza dimostrata. Poco dopo quel disagio tornava. Il campo da basket era l'unico luogo in cui potevo stare davvero tranquillo. La concentrazione assoluta, la fusione con l'obiettivo svuotavano la mia mente e in qualche strano modo riempivano il mio cuore. Amavo il gioco e la passione mi ardeva nel petto. Mi faceva sentire vivo e capace di migliorarmi, di progredire verso una meta sempre più ambita.

Il giorno in cui iniziò davvero il cambiamento, sedevo su una panchina appartata, circondata da alcuni alberi nodosi e spogli, ma sufficienti a celare la mia presenza, almeno a chi percorreva il vialetto di ghiaia, senza curarsi troppo di ciò che lo circondava. Non sapevo bene come, ma partendo dall'analisi mentale di uno schema, avevo finito col pensare a lui. D'improvviso – e capita con tutte le rivelazioni di coscienza - mi ero reso conto di quanto fosse lo spazio, che lui aveva effettivamente assunto in quella grigia astrazione della realtà, che potevo definire come "la mia vita". Lui era quel tizio che si era dichiarato il mio rivale sul campo, quel tizio che diceva di odiarmi sin dal nostro primo incontro. Era una continua distrazione, un ciclone che aveva investito il mio campo sacro e continuava a roteare e roteare attorno a me. Non si fermava mai. Le sue parole, gli strepiti, le pallonate deviavano di continuo la mia attenzione, arrivando a tratti persino a deconcentrarmi. Le sue spesso involontarie azioni di disturbo avevano reso la mia quiete e il mio lavoro molto più difficili. Per questo e perché lo consideravo un cialtrone che non si interessava davvero al basket, soprattutto i primi tempi, mi faceva innervosire e avrei voluto dargliele, finché non fosse rimasto a terra immobile e in silenzio. Eppure col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi...Nello scorrere di quel primo anno avevo visto crescere in lui la mia stessa passione, era diventato un degno rivale, uno stimolo indispensabile a migliorarmi, capace di rendere il gioco più interessante, persino la mia passione più intensa. Poiché era egli stesso parte degli unici momenti in cui mi sentivo vivo e in qualche modo felice, per una qualche assurda e insospettabile distorsione, da nemico della pace era diventato causa stessa di quella riscoperta felicità. Mi aveva insegnato che fare da solo qualcosa che amavo non era altrettanto vitale e piacevole, che poterlo condividere con qualcuno, capace di apprezzarlo allo stesso modo. Mi aveva insegnato che non bisogna credere alle apparenze, che non ero l'unico a sembrare diverso da ciò che ero, che forse non ero l'unico a nascondere qualcosa di me.

Una chioma rossa mi schizzò davanti all'improvviso. Quel colore non poteva che risvegliare il mio interesse. Guardai meglio attraverso gli alberi intricati e oltre il piccolo fosso. Una ragazzina dalla capigliatura ribelle correva attraverso il vialetto di ghiaia. Appena scomparve alla vista, sentii smuovere i cespugli accanto alla panchina, proprio dove si trovava l'unico accesso possibile (a causa della mancata cura di alberi e arbusti, nonché del canaletto di scolo). Proprio lei ne sbucò fuori, la testa china, stava piangendo. Appena sollevò il viso e mi scorse, si asciugò freneticamente il volto e mi puntò addosso due feroci occhi nocciola. Sembrava incolparmi di aver invaso il suo territorio. La scrutai freddamente, senza riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi sinceri, finché non parlò.

- Che diavolo hai da guardarmi in quel modo?! – disse con rabbia mal trattenuta.

Come se mi fossi risvegliato da un qualche incantesimo, spostai subito lo sguardo, cercando di celare l'imbarazzo dovuto alla pessima figura appena fatta; doveva essere molto buffo quel gesto da bambino capriccioso, accostato alla maschera indifferente che ostentavo, poiché la mia osservatrice all'improvviso scoppiò a ridere. Con naturalezza si sedette accanto a me, raccolse le gambe al petto e circondandole con le braccia vi poggiò la testa. Una brezza fredda ci soffiava addosso, e lei si perse ad osservare le poche foglie dorate che volteggiavano attratte dalla terra umida.

- Brutta giornata, eh? – mormorò quasi casualmente.

Mi limitai a fare un cenno del capo, deciso a non preoccuparmi se se ne fosse accorta o meno. Non riuscivo comunque ad ignorarla come avrei voluto; pensai che fosse proprio a causa di quella somiglianza, che subito avevo notato, e che contemporaneamente ravvivava e gelava il mio cuore. Il rosso dei suoi capelli era impossibile in natura, identico a quello del mio compagno di squadra. In fondo non era così strano incrociare qualche studente dai capelli tinti e quello non era neppure un colore così eccentrico da considerarsi raro, eppure accostato agli occhi nocciola e alla pelle naturalmente dorata (persino in quella stagione) componeva una singolare ed innegabile analogia.

- Beh...Probabilmente sei venuto qui per startene da solo, perciò...Scusa, se ti ho disturbato – continuò, mentre distendeva le gambe decisa ad alzarsi.

- Perché piangevi? – chiesi atono.

La fermai, prima che potesse farlo, anche se non volevo dimostrare particolare interesse nei suoi confronti.

- Certo che sei incredibile... - rispose ridacchiando, quindi si riappoggiò allo schienale e si stiracchiò, prendendosi il tempo di rifletterci un istante. – Potrei dirti che mi sento in gabbia e non posso avere quello che voglio, a volte vorrei persino che i miei non ci fossero più...Ma poi vedo mio cugino che i genitori li ha già persi, è solo e lavora dalla mattina alla sera, ma è sempre gentile e non si lamenta mai...Così finisce che mi sento viziata e colpevole, perché io non riesco a non detestare la mia famiglia...E, bada, non l'ho mai detto a nessuno, perché non ho alcun diritto di lamentarmi, prima o poi passerà... - fece una pausa - Insomma, è solo che sono stanca... – chiuse gli occhi e inspirò profondamente l'aria gelida. - E tu, riesci ad essere più patetico? – domandò, voltandosi a guardarmi con interesse.

Rimasi in silenzio, senza nemmeno guardarla. Dopo qualche minuto d'attesa si strinse nelle spalle e si alzò.

- Adesso devo scappare – disse, sorridendo lievemente - Ma pare che io abbia vinto questo match per ritiro dell'avversario – strizzò l'occhio e si voltò per passare nuovamente tra i cespugli.

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