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6. You don't know how to lie

Mio padre oggi mi ha svegliata con il familiare aroma dei pancakes a profumare tutta la casa. Una volta li faceva solo di domenica, ma con la scusa del mio ritorno ha voluto spostare questa tradizione anche al venerdì e non pare intenzionato a privarsene. Credo sia tutto un pretesto per prepararli due volte a settimana. Mia madre non ne sembra molto contenta – lei è sempre a dieta – eppure non dice niente.

«Buongiorno» sbadiglio e mi stiracchio, poi lascio un bacio sulla guancia a entrambi. «Vedo che papà non si è trattenuto.»

Mia madre solleva le spalle. «Ci teneva.»

Lui, invece, alza il mestolo e me lo punta contro nonostante sia a qualche metro di distanza. Una goccia di impasto cade a terra e subito si affretta a pulire il pavimento, terrorizzato che Francis Ford-Black si faccia forte del suo soprannome – "Satana".

«Sappi che tutto questo è solo per te, figlia ingrata» dice, una volta tiratosi su. «Non permetterti di schernire chi ti fa da mangiare.»

Gli faccio la linguaccia e mi passo una mano sul viso. Ho fatto fatica ad addormentarmi, stanotte, e sto subendo le conseguenze delle ore piccole proprio adesso che vorrei essere arzilla come non mai. Odio non essere in grado di intendere e di volere, appena alzata, ma soprattutto odio comportarmi come una ragazzina ed emozionarmi al pensiero di dover uscire con Jace.

Mia madre mi mette un piatto di pancakes davanti, poi ci sparge sopra un po' di zucchero a velo e mi lascia la ciotolina di fragole accanto. Arriccio il naso e accenno un sorriso, certa che ciò che sto per dire ferirà mio padre.

«Papà, anch'io sono a dieta. Quattro pancakes sono... troppi.»

E se Aaron Black è un uomo quieto, pacifico e quasi figlio dei fiori, in quel momento assume tutta l'aria di qualcuno che vorrebbe far sparire la propria figlia dalla faccia della Terra. Non lo biasimo, ma nemmeno mia madre riesce a non ridere.

«Mangia» mi ordina lui, dopo averci lanciato un'occhiata di fuoco.

Sollevo le braccia in segno di resa, poi comincio a mangiare. Non sono una "fissata" delle diete, della perdita di peso e dell'esercizio fisico – questo, soprattutto, men che meno –, e non voglio assolutamente tagliare fuori l'arrosto con le patate di stasera, ma un po' mi spiace di non avere la stessa volontà ferrea di tutti i giorni con mio padre e con i suoi pancakes. Alla fine, però, non riesco a farmene una colpa: sarebbe come se Eva provasse a resistere alla tentazione della mela – sebbene il mio sia un modo molto meno salutare, ovvio.

Gioco per qualche istante con la forchetta e poggio il mento sul palmo della mano. Ora che ci penso, non ho ancora detto ai miei genitori che stasera a cena non ci sarò. Sono piuttosto convinta che non mi faranno alcuna ramanzina – sanno bene che so come gestire i soldi –, eppure so anche che insisteranno fino allo stremo pur di sapere con chi sarò e dove.

"Sinceramente, non so quale delle due risposte sia peggio."

«Mamma, papà, volevo dirvi una cosa» comincio, maledicendomi non appena concludo la frase.

"Non potevo iniziare in modo peggiore..."

«Oh, per l'amor della lana, sei incinta?»

Mio padre fa cadere il mestolo a terra, mia madre non ha nemmeno il tempo di arrabbiarsi con lui per il semplice fatto che è troppo presa a spalancare gli occhi. Tutte le loro attenzioni sono su di me, ogni mio gesto viene osservato con la massima cautela – persino il movimento che fanno le mie labbra potrebbe essere un segnale, per loro.

"Ecco, appunto."

«No, mamma...» scuoto la testa e sospiro. «Ho ventiquattro anni, non ho un lavoro né una casa, e so come si fanno i figli. Non sono una sprovveduta.»

Lei rilassa le spalle e la fronte. «Menomale» mormora.

Mio padre, d'altro canto, si era accasciato sul fornello e ora si sta sventolando la mano davanti al viso. Ancora mi chiedo dove abbiano imparato a essere così melodrammatici.

«Stasera, a cena, mangio fuori» abbasso lo sguardo sul piatto e mi correggo: «Cioè, in realtà non mangio fuori. Non in un ristorante, almeno».

Francis Ford-Black, forse con un'espressione ancora più preoccupata di poco fa, mi osserva sospettosa e arriccia le labbra. Sa bene che, se avessi mangiato con Violet o con Jordan – o con qualcuno di cui ormai sanno vita, morte e miracoli –, non mi sarei fatta alcun tipo di problema a specificare. Ma io non ho specificato, e l'ombra di un sorrisetto le stira la bocca già tinta di rosso.

«Con un ragazzo?» chiede, soddisfatta della sua intuizione.

Annuisco. D'altronde, non è che possa fare molto.

«Un ragazzo? E chi è questo, adesso?» mio padre si fa avanti e muove un passo, tiene uno straccio tra le mani e lo stringe con forza. «Devo spezzargli le gambe?»

«Papà, è solo Jace» gli dico, ridendo. «Non devi fargli niente.»

Mia madre schiude le labbra. «Jace? L'amico di Jordan?»

Un po' mi dà fastidio che venga identificato solo come "amico di Jordan", ma non ho il diritto di lamentarmi più di tanto. Non siamo mai arrivati al punto tale da poterci definire amici, anche se tutti i trascorsi che abbiamo – e gli ultimi eventi – mi suggeriscono che forse siamo stati qualcosa di simile.

«Sì, lui» rispondo, dopo aver mangiato un boccone. «Mi ha invitata a uscire e abbiamo pensato che sarebbe stato meglio mangiare a casa sua. Per risparmiare, sapete.»

Mio padre aggrotta le sopracciglia e mi guarda in cagnesco. «Per risparmiare, eh.»

«Papà... Ti prego, no, non pensare male» mi porto le dita alla tempia e scuoto di nuovo la testa. «Usciamo così, giusto per passare un po' di tempo insieme. Il fatto che mangeremo a casa sua non significa niente.»

«Sarete soli?»

«Sì, ma...»

«Aaron, su, smettila» mia madre si intromette e lo raggiunge, poi gli posa una mano sul braccio e gli sorride. «Jace è un bravo ragazzo, lo sai anche tu, e fortunatamente nostra figlia è una giovane donna responsabile. Se vuole andare a letto con un ragazzo o meno, beh... Non è affar nostro, caro marito.»

Non posso vedermi, ma sono piuttosto sicura che le mie guance si siano colorate dello stesso rosso delle fragole nella ciotolina. Avrei preferito evitasse di parlare in modo così esplicito, soprattutto davanti a mio padre.

Lui scruta prima lei, poi me, poi di nuovo lei. Sembra volerle dire qualcosa, tuttavia resta in silenzio fino a quando il timer a forma di pomodoro non trilla e gli ricorda di togliere la torta salata dal forno. Lo lascia squillare ancora un po', infine sospira e torna a fare quelle che ha sempre chiamato le "sue" faccende di casa.

Non posso biasimare la sua reazione. Ho avuto diverse esperienze, in passato, ma una in particolare mi ha segnata e purtroppo anche lui ha dovuto subirne le conseguenze. So cosa vuole per me e so cosa non vuole che sia costretta a rivivere – ma una piccola parte del mio cuore spera sempre che anche le sue ferite guariscano. Le mie non l'hanno ancora fatto, eppure lui non merita di portare le cicatrici delle mie scelte sbagliate.

Dopo qualche minuto di silenzio imbarazzante, mia madre, ormai pronta per andare in ufficio, si ferma sulla porta della cucina e torna a guardarmi.

«A proposito di lavoro,» inizia, estraendo da una ventiquattrore un plico di fogli sistemato in una cartelletta, «in azienda c'è un posto vacante per un intermediario linguistico. Ho pensato che potesse interessarti.»

Arriccio il naso e prendo il plico. «Sai che non mi piace l'idea di...»

«Almeno chiedimi di cosa si tratta.»

La fisso intontita per qualche istante. «Di cosa si tratta?» chiedo poi.

Lei sbuffa. Non è mai stata completamente d'accordo sulla mia scelta di trovare un lavoro al di fuori dell'ambito familiare e, nonostante apprezzi la mia voglia di indipendenza totale da loro, tenta sempre di trovare un modo per farmi cambiare idea.

«Negli ultimi tempi abbiamo ricevuto diverse richieste dalla Germania e la persona che lavorava con noi è andata in maternità» mi spiega, piuttosto concisa. «Sarebbe solo per un anno, certo, ma se dovessi trovarti bene potresti restare. A noi farebbe piacere.»

Guardo di sfuggita i termini del contratto. È un'offerta appetibile, e soprattutto mi garantirebbe un po' di esperienza in più sul curriculum per scopi futuri, ma non mi è mai interessato fare un lavoro del genere. So di non dover essere troppo selettiva – voglio dire, ho fatto domanda anche per i negozi di abbigliamento, rinomati per avere una politica del tutto disumana –, però preferirei non finire a lavorare con i miei genitori. Rispetto ciò che fanno e ne vado molto orgogliosa, ma mi farebbe sentire una fallita perché, se non abitassi con loro, questo plico non sarebbe nemmeno tra le mie mani.

«Entro quando posso farti sapere?» le domando, appoggiando la cartelletta sul tavolo e finendo di mangiare gli ultimi pezzi di pancake.

«Una settimana, una e mezza al massimo» mi dice, mettendosi la borsa in spalla. «Sono felice che tu lo stia prendendo in considerazione. Anche tuo padre lo è, sebbene sia tutto silenzioso e assorto nelle sue torte.»

«Non farti illusioni» ribatto poi, alzandomi. «Firmerò soltanto nel caso in cui non riceva risposta dalle altre aziende.»

«Lo so, lo so. Non ti preoccupare.»

Mio padre solleva le spalle, io e lei lo sentiamo grugnire. Quando si volta finge di asciugarsi una lacrima e sospira: «La mia bambina verrà a lavorare con il suo papà...»

Scoppio a ridere e lascio un bacio sulla guancia di mia madre, poi afferro il piatto e lo metto nel lavandino.

«E menomale che non dovevate farvi illusioni.»

Mia madre solleva le spalle. «È un caso perso, ma lo amo anche per questo.»

*

Violet mi guarda con gli occhi sgranati, si tiene le mani davanti alla bocca per non urlare di gioia e svegliare quelle poche persone che ancora dormono sul piano del suo appartamento. Ha lasciato cadere sul pavimento i vestiti che aveva finalmente deciso di mettere via, ma ora tutte le sue attenzioni sono su di me e io non posso far altro che sorridere in modo piuttosto forzato.

«Oh, mio dio» mormora, spostando le mani sulle mie spalle e scuotendomi. «Stai scherzando? Scherzi, Avalon, vero?»

«Perché dovrei?»

Non so se sia possibile spalancare gli occhi in questo modo – a meno che non si tenti di far uscire i bulbi oculari dalla loro cavità –, eppure Violet ci riesce e si lascia scappare un grido dalle labbra. Mi lascia le spalle, poi comincia a saltellare in tutta la stanza e a mettere ancora più a soqquadro l'ambiente.

«Non ci posso credere!» torna da me, si allontana saltando, e ripete il ciclo due o tre volte. «Cioè, sì, ci posso credere eccome. Lo sapevo! Violet sa sempre tutto, signore e signori!»

Scuoto la testa e raccolgo la maglia che giace ancora a terra. «No, Vy, tua madre sa sempre tutto. Tu ti fai solo film mentali.»

Lei si blocca di scatto e mi guarda. I suoi occhi sembrano bruciare delle fiamme dell'inferno, la sua lingua si muove serpentina tra le sue labbra mentre impreca a bassa voce. Non mi stupirei se mi stesse maledicendo per l'eternità.

«Ma ti ha baciata» ribatte. «E ti ha invitata a cena a casa sua.»

Sollevo la mano e la blocco. «No, mi ha invitata a uscire. Come ho già detto, ceniamo a casa sua perché così non spendiamo troppi soldi.»

«Fa parte di una delle famiglie più ricche di Washington e vuole "risparmiare"?»

«Certo, non c'è motivo di spendere.»

Violet inarca le sopracciglia, la sua espressione è piuttosto chiara. Vorrei poter dire di non sentirmi in soggezione – e in imbarazzo, soprattutto –, tuttavia so bene cosa significa l'occhiata che mi sta rivolgendo e il mio desiderio di seppellirmi sotto la sua montagna di vestiti si sta facendo sempre più impellente.

«Secondo me vuole fare...»

«No» appoggio il palmo della mano sulla sua bocca. «Assolutamente no.»

Lei resta in silenzio per qualche istante. Mi scruta da capo a piedi ma resta immobile, forse consapevole che qualsiasi suo tentativo finirebbe con una fantasia pressapoco irrealizzabile, poi si lascia andare a un sospiro e si stacca.

«Perché siamo qui a riordinare e non a parlare di cosa ti metterai?» mi chiede.

Inclino la testa e sorrido. «Perché il tuo essere così disordinata mi impedisce di pensare ad altro.»

"E mi tiene occupata."

Violet si guarda attorno e tiene le braccia puntate sui fianchi. Sembra star valutando il danno che ha combinato in questi ultimi giorni – e non è poco –, così che poi il suo piano possa avere inizio. Piano che, se devo essere sincera, non comprendo per nulla.

In un secondo, però, sgrana di nuovo gli occhi e si batte la mano sulla fronte, lasciando un'ombra rossastra sulla sua pelle. Scappa nella sua camera da letto senza dirmi niente e, quando la raggiungo, la trovo intenta a buttare per aria i vestiti che le sono d'intralcio nell'armadio. Sussurra qualcosa, parlando più a sé stessa che a me, e solo nel momento in cui trova ciò che stava cercando si decidere a voltarsi in mia direzione.

«Tu,» mi indica, sorridendo beffarda, «spogliati subito.»

Se nella vita reale potessi avere un potere di qualche sorta, ora probabilmente sceglierei di poter disegnare un grande punto di domanda sulla mia testa. Violet fiuta il mio scetticismo, così tira fuori dall'armadio alcuni vestiti appesi alle grucce.

«Provati queste cose» dice. «E mettile stasera, se ti piacciono.»

Arriccio il naso e mi avvicino a lei, poi prendo gli abiti e li guardo attentamente. Violet ha sempre avuto buon gusto nel vestire, è brava a riconoscere ciò che più mi potrebbe piacere e non ho mai dubitato della sua precisione, eppure adesso non posso far altro che esitare.

«Non sono... eccessivi?»

«Come può essere "eccessivo" un completo del genere? È fin troppo semplice.»

Sollevo lo sguardo su di lei e tiro giù le braccia. «Non ho detto "elaborato", è solo che... Non lo so, non voglio che Jace pensi mi metta così tanto in tiro perché tra noi c'è stato un bacio dato di sfuggita.»

La mia migliore amica sospira e si porta le dita alle tempie. Pare quasi stia meditando – se la sua vendetta o per calmarsi, davvero, questo non lo so – e aspetta di aver fatto qualche respiro prima di rispondermi.

«Mia bellissima moglie, cara, carissima Avalon,» comincia, «Jace deve pensare che tu ti metta in tiro per lui, perché tu ti metterai in tiro per lui. È palese.»

Rivolgo il capo verso il pavimento disseminato di camicie, camicette, pantaloni, gonne e abitini dai motivi più disparati. So bene che mentire a me stessa sarebbe stupido, ma sarebbe ancora più sciocco pensare che Violet non abbia già capito tutto. Alla fine, se voglio essere sincera con la mia povera coscienza, non posso negare di aver pensato a cosa mettere dal momento in cui Jace mi ha chiesto di uscire.

«Senti, so che per te è troppo presto e quindi non sto nemmeno a porti una domanda a cui so già darmi risposta» fa un passo verso di me, scavalcando i vestiti, e mi lascia un buffetto sulla guancia. «Però pensaci bene. Sì, è stato un bacio dato di sfuggita, ma è stato qualcosa. Avete condiviso un contatto fisico, Avalon, e da ciò che mi hai detto Jace non sembra intenzionato a ritirare la mano.»

«Un bacio non è peccato.»

«No, ma scagliare la pietra è» sorride e fa spallucce. «A questo punto sei tu a dover scegliere. Accusi il colpo o ti fai avanti?»

Non so se voglio pensarci, né so se la pietra di Jace possa farmi male. Non so perché le mie viscere si stiano contorcendo, né so perché il mio cuore sia tanto in subbuglio.

So, però, che non voglio più scappare e rifugiarmi tra le braccia della notte.

"Sono stanca di accusare colpi."

*

Il campanello suona e io, ancora chiusa dietro la porta della mia stanza, non ho il coraggio di scendere le scale e andare ad aprire. Forse lasciare che siano mio padre o mia madre a farlo non è una buona idea, ma so che non farei altro che mettermi in imbarazzo – con tutta probabilità cadrei dalle scale, nonostante sia abituata a portare stivaletti del genere, e finirei per strappare i pantaloni neri che mi ha prestato Violet. Per non parlare della camicetta: sono abbastanza sicura che, con la mia fortuna, precipiterei dritta dritta contro uno dei vasi di fiori di mia madre.

"E non ho intenzione di renderla trasparente. No, grigia va più che bene."

Sento la voce di Jace e d'istinto guardo l'orologio appeso al muro. Sono le sette precise, non un minuto in più e non uno in meno. Jace ha appena dimostrato di saper essere in orario... per gli appuntamenti con le ragazze. Ma questo non è un appuntamento, no.

È solo un'uscita tra amici, e non siamo altro anche se sento nella mia testa la voce di Violet che dice: "Amici con benefici".

«Sono un'idiota» mormoro, buttando un'ultima occhiata al mio riflesso. «A ventiquattro anni mi faccio ancora i complessi da adolescente alle prime armi.»

Mia madre mi chiama dal piano di sotto, Jace le dice qualcosa che non riesco a capire. Esito per ancora qualche secondo, tenendo la maniglia sulla porta, poi afferro la giacca di lana nera e mi decido a scendere giù da basso.

Mai più che in questo momento, però, vorrei scivolare nelle profondità della terra.

Un abisso senza fondo si apre sotto ai miei piedi quando, timida, incrocio lo sguardo di Jace. Lui se ne sta lì, poco più in là dell'entrata di casa, e rimane a osservarmi senza dire una parola. Di mia madre non c'è traccia – forse ci sta spiando da un angolo buio –, eppure vorrei che fosse qui per potermi reggere a lei.

«Ciao» gracchio, poi mi schiarisco la voce. «Hai tagliato la barba.»

Annuisce e sorride. «Ho cucinato cose troppo buone perché debba pensare a non sporcarmi i quattro peli che ho in faccia.»

«Io non li avrei definiti "quattro peli".»

Mi infilo la giacca e afferro le chiavi di casa dal mobiletto in corridoio dopo aver staccato il cellulare dal caricatore. Infilo tutto in borsa, un po' alla rinfusa ma non troppo, e resto in silenzio per qualche attimo. Dondolo sui piedi, stando attenta a non metterli in modo sbagliato per paura di cadere, e mi succhio l'interno della guancia.

«Vestita così sei davvero bella» mi dice, facendo qualche passo indietro e superando l'uscio. «Più del solito, se posso essere sincero.»

Vorrei chiedergli perché.

Vorrei chiedergli cosa ci vede di decente, in me, ma taccio.

"Non è il momento."

«Grazie» sussurro in risposta, chiudendomi la porta alle spalle. «Anche tu sei davvero bello, vestito così.»

«Così bello che non trovi altre parole se non le mie?»

Sgrano gli occhi e indugio sulla fossetta sul suo viso. «Sì» bisbiglio.

Jace sembra restare sorpreso dalla mia reazione e dall'unica parola che ho mormorato, eppure non fa ulteriori commenti. Si limita a sorridere un po' di più, poi si dirige verso la macchina e apre la portiera del passeggero. Ciò che mi fa scoppiare a ridere, però, è la sua espressione. Pare quasi voglia dirmi: "Signora, la carrozza vi attende".

«Proprio un vero gentiluomo» lo prendo in giro, ironica.

«Solo con chi ne vale la pena.»

Sale dal lato del conducente e mette in moto l'auto, poi accende la radio e abbassa il volume così che la musica non sia nient'altro che un tenue sottofondo.

Non parliamo molto – fuori dall'abitacolo fa freddo e la macchina, purtroppo, deve scaldarsi di nuovo –, ma qualche volta lo vedo guardarmi con la coda dell'occhio. Non so se lo faccia perché vuole accettarsi che sia ancora viva, ciononostante un brivido di soddisfazione mi percorre la schiena quando, dopo avermi lanciato una breve occhiata, sorride tra sé e sé.

Forse non dovrei illudermi, ma mi rendo conto di non sapere nemmeno di cosa potrei illudermi. Non sono quel tipo di persona che alimenta fantasie senza neppure avere una base sulla quale costruirle, eppure mi rendo conto di star sperando in un qualcosa che ancora non riesco a riconoscere. Una volta, magari, ero più ferrata in quelli che Violet chiama i "normali istinti sessuali di una persona", ma ora non provo alcun desiderio: tutto ciò che voglio è stare in questa macchina con lui per ore, passandole ad ascoltare buona musica e a godere di un silenzio che con lui sa di concerto.

Arriviamo davanti a casa sua in poco meno di venti minuti, la WHS si staglia sulla linea dell'orizzonte come l'enorme edificio che è. Una ventata di aria fredda calma il rossore sulle mie guance, una sensazione nostalgica dal sapore ignoto pervade il mio corpo. Poche volte ho avuto l'occasione di rivedere la mia vecchia scuola, ma è un'emozione che non sfiorisce mai.

«Mio padre, come ti avevo accennato, non tornerà molto presto» mentre chiude la macchina, Jace si lecca il labbro inferiore. «Possiamo aspettarlo, se ti va. Per me non è un problema uscire un po' più tardi.»

Annuisco, stringendomi nella giacca. «Mi farebbe piacere.»

Dopo aver salito le scalette che portano all'entrata della villa, si blocca per qualche istante non appena inserisce le chiavi nella toppa. Indurisce la mascella, poi sospira e si decide ad aprire, lasciando dietro di sé un insolito profumo.

Sin da quando lo conosco, Jace è sempre stato molto riservato per quanto riguardava casa sua. Essere il figlio del preside della scuola era già di per sé un qualcosa che avrebbe voluto tenere nascosto, ma che per ovvi motivi non ha mai potuto celare; la villa di proprietà dei Groove, invece, è stato un argomento poco discusso nel gruppo che lui stesso aveva formato. Di noi, solo Jordan, Andrew e Morgan vi hanno messo piede varie volte, e soltanto perché erano e sono gli amici più stretti; Bastian, d'altro canto, aveva messo le tende nel suo soggiorno.

Mi rendo conto di sapere ben poco della vita di Jace, a parte le cose che ha voluto far sapere a tutti, e un po' mi dispiace. Tutti sanno quali sono – o erano – i suoi interessi, tutti sono a conoscenza di chi è Jace Groove per sentito dire. Ma perché ho sempre avuto la sensazione di conoscerlo? Perché quelle poche informazioni mi sono bastate per anni e ora, invece, voglio scavare ancora più a fondo?

Vorrei potergli chiedere di più.

Vorrei potergli dire che sono incontentabile e ormai non mi basta più niente.

«Dammi pure la giacca» mi dice, riportandomi con i piedi per terra. «E la borsa, se ti fidi abbastanza da porgermela.»

Accenno un sorriso e scuoto la testa. «Non credo ci sia niente di interessante nella mia borsa. Niente che possa interessare un ragazzo, almeno.»

«Dipende,» appoggia la mia giacca all'appendiabiti all'ingresso e fa spallucce, «a Milano molti ragazzi pagherebbero per vedere com'è organizzato un portafoglio femminile.»

«Che esagerazione... Basta chiedere.»

«Sì? E come fate, allora?»

Socchiudo gli occhi. «Adduco maxima

Jace solleva le sopracciglia e schiude le labbra. No, decisamente non si aspettava che citassi l'incantesimo usato da Hermione Granger per moltiplicare lo spazio di una borsa.

O forse è per il quasi latino. Non saprei.

«Sei piena di sorprese» sussurra, precedendomi nel corridoio.

Ad accompagnare l'emozione di poter vedere casa sua per la prima volta c'è lo stupore, il quale mi lascia senza fiato non appena varchiamo la soglia del salotto. È collegato alla cucina da un varco senza porta, il divano e le poltrone si chiudono in cerchio attorno a un pianoforte a coda. Diverse librerie a muro, straripanti di libri di ogni genere, vengono illuminate dalla luce calda delle abat-jour che Jace accende passo dopo passo.

Mi porto una mano al cuore e stringo la camicetta tra le dita. Probabilmente, se gli dicessi che questa stanza ricorda uno dei salotti del Romanticismo, lo offenderei. È molto di più: è bella, spaziosa, accogliente, non solo di un'altra epoca, ma anche di un altro mondo.

In ogni suo più piccolo particolare richiama la personalità di Jace.

«Avalon?»

Solo nel momento in cui Jace pronuncia il mio nome mi accorgo di essermi avvicinata a una delle librerie a muro, e solo nel momento in cui sbatto le palpebre ritrovo le mie dita che si trascinano sui dorsi dei libri lì ordinati. Faccio un passo indietro e mi volto, imbarazzata e un poco a disagio a causa della mia distrazione.

«Scusa» gli dico. «Qui è tutto...»

«Strano?»

«Magnifico.»

Si lascia andare a una risatina, poi si dirige di nuovo in cucina e finisce di apparecchiare la tavola. Vorrei dargli una mano, ma non appena muovo un passo in direzione dei ripiani mi fulmina con lo sguardo e io mi congelo sul posto.

«Non osare» mi minaccia, puntandomi contro il calice. «Sei mia ospite, stasera, e noi Groove non schiavizziamo i nostri ospiti.»

Mi mordo il labbro e gli vado vicino, controllando oltre il suo corpo le pentole sul fornello. C'è un bel calore, qui, e il fuoco è ancora acceso.

«Sicuro di non volere una mano?»

«Sicuro» ribatte, piuttosto deciso. «Anzi, va' pure a sederti. È quasi pronto.»

Annuisco, ma lui non mi vede: è girato di spalle, la camicia arrotolata fin sopra il gomito mette in risalto uno dei tatuaggi che solitamente nasconde – un anello di spine che gli avvolge l'avambraccio e si chiude con un simbolo stilizzato che non riconosco. Ne sono sorpresa, eppure non dico niente per paura di fargli cambiare idea.

"Magari non vuole che conosca di più" penso. "Magari sono io che chiedo troppo."

«Hai fame?»

Mi chiudo su me stessa e mi sporgo un po' di più a guardare. Si muove con destrezza ai fornelli, una maestria che non ho visto nemmeno in mio padre – e lui adora cucinare.

«Abbastanza» rispondo. «Tu?»

Abbassa il fuoco della padella fino a spegnerlo, poi si volta verso di me tenendosi appoggiato al bordo del ripiano di marmo.

«Non ne hai nemmeno idea.»

In un gesto veloce spegne il forno, lo lascia aperto per qualche secondo e si avvicina di più a me. Il calore nella stanza si fionda sulle mie guance e io, incapace di distogliere lo sguardo, raccolgo tutte le mie forze per non allungare le dita verso le sue labbra.

"No, Avalon. È troppo presto."

Faccio un passo indietro e inspiro profondamente. Tutta la mia buona volontà di percorrere pian piano questa strada sta andando a farsi benedire.

«È pronto» mormora, socchiudendo gli occhi. «Spero che il tuo appetito venga saziato.»

*

Stare a tavola con Jace, questa sera, mi trasmette emozioni diverse da quelle che ho provato al ristorante. Non saprei dire se è perché siamo soli o perché l'atmosfera tra noi è cambiata, ma ogni risata e ogni parola hanno assunto un significato differente, un suono più dolce di quello che ho udito qualche giorno fa. In effetti tutto, in sua compagnia, sembra essersi fatto più piacevole.

«Ti ricordi quando siamo andati in quella discoteca?»

Sollevo le sopracciglia e mi porto il calice alle labbra. «Ti riferisci ai Grandi Magazzini, giusto? Violet aveva vomitato sul vestito di Athena.»

L'espressione di Jace si tramuta in puro disgusto, la sua bocca si piega in una smorfia schifata. Nonostante questo, però, i suoi occhi stanno ridendo e si soffermano sui rametti di rosmarino nel piatto, un po' perché sembra non voglia ammettere di essere divertito, un po' perché sembra gli manchi il sapore delle spezie fresche dell'Italia.

«È sempre stata un caso perso.»

«Non smetterà mai di esserlo» faccio spallucce e poggio il bicchiere sul tavolo. «E, se dovesse accadere, tenterò di riportarla a ciò che è ora. Violet piace a tutti proprio perché è fatta così.»

«Non è l'unica.»

Inclino la testa e lo osservo, piuttosto incuriosita dalle sue parole. Non ha ancora sollevato lo sguardo e pare quasi voglia evitarmi, ma mi convinco che sia solo una mia impressione. O, forse, non mi guarda perché si sta annoiando della mia presenza. L'avevo letto in un libro di psicologia. Sto per alzarmi e aiutarlo a sistemare quando le braccia di Jace scattano in avanti e precedono ogni mia intenzione. Si muove veloce, assicurandosi di non sparecchiare anche i bicchieri ancora pieni per metà, e si sposta verso il piano di marmo senza dire una parola. I muscoli delle sue spalle sono in tensione, le sue dita quasi faticano a stare ferme – ogni parte di lui, persino quella a cui nessuno presterebbe attenzione, emana un nervosismo tale da impregnare la stanza.

«Jace, tutto...»

«È quello il tuo unico ricordo?» mi chiede, tenendo le mani sul bordo dell'isola.

«Sì, perché?»

Sospira. «No, niente» ribatte, aprendo l'acqua del lavandino poco dopo. «Anche tu avevi bevuto molto. È normale.»

Corrugo la fronte e resto ferma a fissarlo per qualche secondo. Non sono sicura di aver capito il perché del suo atteggiamento, né sono sicura di ciò che dovrei rispondere, ma non mi va di starmene seduta mentre questo silenzio imbarazzante si fa largo tra noi. Mi alzo dopo aver svuotato il calice di vino – mi pentirò di essermi concessa tre bicchieri – e mi dirigo verso di lui. Quando sono alle sue spalle e lo vedo irrigidirsi ancora di più, mi viene naturale allungare la mano e sfiorargli la schiena.

«Va tutto bene?» domando, osservando le sue labbra stirarsi in una linea sottile. «Ho detto qualcosa di sbagliato?»

Chiude l'acqua e si gira verso di me. Ha gli occhi socchiusi e l'espressione severa, eppure non dice nulla che possa farmi pensare a una risposta positiva. Sembra, di fatto, che mi stia rimproverando con lo sguardo.

«Non hai fatto né detto niente di male, tranquilla» dice, poco dopo, mentre rilassa i muscoli. «È solo che credevo non te ne fossi dimenticata.»

«Che non mi fossi dimenticata cosa?»

Esita. La sua mano scivola lungo il bordo del lavandino e si aggrappa con forza a uno straccio poco distante. Jace sembra trovare conforto in quella presa, perché subito la sua espressione cambia e lui torna quello di sempre – sorride, persino.

«Mi vomitasti addosso.»

Schiudo le labbra e sgrano gli occhi, il colore scivola via dal mio corpo come gocce di pioggia sulla pelle. È vero che non ricordo nulla di quella sera, eccetto il momento in cui Violet ha rigurgitato i sette drink che aveva bevuto sull'abito super costoso di Athena e il ritorno sulla moto di qualcuno dei presenti, ma...

«Come?» faccio un passo indietro e mi copro la faccia. «Che schifo. Mi... dispiace, Jace, davvero. So di essere in ritardo di otto anni, però...»

«Avalon, non ti ho mai perdonato di avermi rovinato la giacca.»

Mi chiudo nelle spalle e abbasso la testa. So che sta scherzando, so che sta dicendo così solo per prendermi in giro, eppure non posso fare a meno di sentirmi mortificata. Amici d'infanzia, compagni di scuola da una vita o meno, l'idea di avergli causato tanto disturbo mi mette così a disagio che non riesco neppure a ridere del mio essere stata così patetica.

Forse Jace se ne accorge e, prima ancora che possa chiedergli scusa, mi mette una mano sul capo e si sporge verso di me. Mi lascia un bacio veloce tra i capelli, poi si stacca e torna a lavare i piatti.

Mi mordo le labbra e resto immobile dietro di lui. Ancora una volta, Jace mi precede prima che possa dire qualcosa.

«Se vuoi darti una rinfrescata, il bagno è in fondo al corridoio a destra.»

Annuisco anche se non può vedermi e, senza pensarci due volte, mi fiondo verso l'ingresso per recuperare la borsa. Non mi rendo conto di starmi muovendo troppo in fretta, di poter apparire agitata ai suoi occhi, ma colgo l'occasione di restare da sola con i miei pensieri quando mi chiudo la porta del bagno alle spalle.
Non so perché mi sento così in imbarazzo all'idea di aver vomitato sulla giacca di Jace otto anni fa – anche se chiunque si sentirebbe a disagio in una situazione del genere –, né perché il mio cuore abbia accelerato quando ho avvertito le sue labbra sulla mia testa. Mi è mancato il fiato e mi è parso di essere stata rinchiusa in una bolla, di essere sprofondata in un oceano senza fine, di non essere circondata da altro se non da litri e litri di acqua che mi soffocavano. Mi è mancato il fiato e persino ora, mentre mi sciacquo i polsi e cerco di lavare via queste reazioni da ragazzina, non faccio altro che aggrapparmi a un respiro che non mi appartiene più.

Sollevo lo sguardo sul mio riflesso e faccio una smorfia.

«Altro che rinfrescata,» scuoto la testa e mi asciugo le mani, «devi darti una svegliata, Avalon. Hai ventiquattro anni, cazzo. Non sei più una bambina.»

Mi soffermo a osservare una cornice di conchiglie su una delle mensole del bagno. C'è una foto di Jace e sua madre a Milano, presumibilmente scattata nel periodo in cui aveva appena preso il diploma. Annabelle è sempre stata una bella donna, da ciò che Dean raccontava di lei, ma mi ritrovo a pensare che nessuna storia avrebbe potuto rendere giustizia alla sua bellezza. Se dovesse mai trovarsi a contatto con Afrodite, sono certa che la dea greca sarebbe gelosa del suo aspetto. Jace somiglia molto a sua madre. Ha lo stesso taglio degli occhi, gli stessi colori, persino le stesse labbra. In effetti, se Jace fosse una donna, sarebbe identico a lei.

Dopo aver trascorso minuti interminabili a osservare una fotografia un po' sbiadita dagli anni, finalmente decido di uscire dal bagno e tornare da lui. Sono un po' più tranquilla, credo, ma voglio darmi fiducia e provare a non mettermi in imbarazzo di nuovo.

"Sarà difficile, ma almeno ho la volontà di agire per il meglio."

Poco prima di tornare in salotto, però, la porta socchiusa di una camera attira la mia attenzione. La stanza è a malapena illuminata dalla luce della luna che filtra attraverso le finestre, un pallido alone azzurro che si concentra sulla scrivania vuota, sgombra di tutto eccetto che un laptop dai toni scuri. Non dovrei entrare senza permesso, eppure mi accorgo troppo tardi di essere già lì, tra mura che non mi appartengono e di cui non so nulla, a scrutare nel buio alla ricerca di un qualcosa che non sono convinta di riuscire a trovare.

Ma quel qualcosa lo trovo – a pochi centimetri dalla scrivania, appeso al muro, un fantasma dimenticato in un luogo abbandonato.

Un calendario.

Mi avvicino.

Aprile di quest'anno, un cerchio che circonda il numero di oggi e una torta stilizzata nel quadretto bianco. Attaccato sotto, un post-it con una spunta – "Ringraziare mamma".

Ed è questo il momento in cui realizzo.

Esco in fretta dalla stanza, pronta a scusarmi con Jace per la mia stupidità, ma quando attraverso il corridoio e raggiungo la cucina, ancora impregnata del profumo dell'arrosto, Dean mi si para davanti e mi scansa appena in tempo.

«Oh, Avalon, che bello vederti!» dice, una volta sistematosi la camicia appena sbottonata sul collo. «Come stai, bambina? Sei cresciuta tantissimo!»

Accenno un sorriso e faccio un passo indietro. «È un piacere incontrarla, signor Groove» lancio un'occhiata veloce a Jace, che mi guarda di rimando e alza le mani in segno di resa. «Sto bene, grazie, ma non sono più una bambina. Ho ventiquattro anni, sa.»

Dean corruga la fronte. «Ventiquattro?»

«Sì.»

«Ventiquattro.»

«Sì, papà, Avalon ormai ha ventiquattro anni» Jace si intromette e si appoggia allo stipite dell'ingresso della cucina. «L'età avanza, eh?»

Suo padre si gira verso di lui e lo guarda con l'aria di un cucciolo ferito, poi torna a dedicarmi ogni sua attenzione. Vuole scusarsi, si capisce dal modo in cui si muove e cerca di trovare le parole, ma questa volta sono io a voler battere i Groove sul tempo. Non voglio farmi cogliere impreparata un'altra volta.

«Non gli dia ascolto. Lei è e resterà sempre piacente, signor Groove.»

Dean, allora, ammicca un sorriso a suo figlio. «Lei sì che sa riconoscere gli uomini di buona fattura.»

«Non credevo fossi diventato un capo d'abbigliamento.»

«Almeno posso scaldare le...»

«Prima che tu possa concludere la frase, noi ce ne andiamo» Jace si sposta e va verso l'ingresso, indossando la giacca ancora prima che Dean possa ribattere. «Ti ho lasciato la cena in forno, ma le patate saranno mollicce a quest'ora. Nel caso, trovi il numero della pizzeria sul frigorifero.»

Dean annuisce e solleva le sopracciglia.

Mi stringo nelle spalle, indecisa su come muovermi. Mi sembra scortese andarmene così, senza nemmeno aver avuto la possibilità di conversare seriamente con lui, ma d'altra parte capisco l'imbarazzo di Jace. Nemmeno io vorrei che mia madre dicesse cose strane al ragazzo con cui sto uscendo.

Arriccio il naso. Io non sto uscendo con Jace.

Stiamo solo passando un po' di tempo insieme. Sì, tutto qui.

Recupero la giacca e mi rivesto dopo aver salutato Dean. Quando usciamo da casa sua, Jace sospira e si passa una mano dietro la testa.

«Scusa, non riesce mai a contenersi quando si tratta di te.»

«Secondo me è stato carino.»

«Carino, certo» solleva gli occhi al cielo e apre la portiera della macchina. «Hai una strana concezione di ciò che è carino

«Anche tu lo sei.»

Rimane immobile per qualche istante; poi, quando mi siedo, chiude lo sportello e fa il giro dell'auto per mettersi al posto di guida. Dal modo in cui sta reagendo, credo di aver osato troppo con le provocazioni.

«Dove andiamo?»

«Shaw's?» propone. «Non dovrebbe essere troppo affollato.»

Mi tornano in mente il calendario, la torta stilizzata, il post-it. Scuoto la testa e mi stringo nella giacca. La macchina continua a fare fatica a scaldarsi.

«Insomnia» mormoro, appoggiando il capo al sedile.

«Perché?»

«Perché proprio lì?» annuisce e sorrido. «Così. Non c'è un motivo.»

Fingo di non sapere che l'Insomnia è sempre stato il suo locale preferito. Fingo di non sapere nulla del suo compleanno, anche se non riuscirò a mantenere il segreto di quella scoperta ancora per molto. Fingo persino di non notare la fossetta sulla sua guancia, le sue labbra che si piegano verso l'alto, i suoi occhi che ridono.

Ma non sono mai stata brava a fingere e Jace lo sa.

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