10. Ma tu conosci il Grugno
– Io... non so se la voglio.
Gli esce così, di getto, in un borbottio, come se parlasse da solo. Con i pugni conficcati nelle tasche della felpa, la testa china al pavimento lurido. Non la guarda neanche in faccia, mentre le confessa la verità.
Oriana, invece, cerca i suoi occhi con insistenza, le pupille ridotte a un puntino, le gote in fiamme, l'aria che non passa dalla gola.
– Che cosa hai detto?!
Che "non lo sa". È con una formula dubitativa, da vigliacco, insomma, che ha espresso per la prima volta quello che pensa davvero, e che si è sottratto a qualsiasi responsabilità nei confronti della situazione.
Perché, a questo punto, non ha più importanza di chi sia la colpa. Se del Venanzi, dell'alcol, delle pasticche trovate in giro dal Grugno quella sera, di Monica Orsini, o magari addirittura di Oriana, o dell'adolescenza che è tanto difficile, del padre di merda che non gli ha mai dato un modello, delle pressioni del gruppo dei pari, o di qualsiasi altro ridicolo capro espiatorio possa venire in mente per spiegare lo stato di cose. Non ha importanza, se tanto Simone "non sa se vuole" un'altra occasione, e stare ancora con lei.
Un movimento, vicino all'entrata. Oriana si volta di scatto, fa un passo all'indietro. Anche Simone si sporge in avanti, proietta lo sguardo oltre lo spigolo del sottoscala.
Monica. Proprio lei, proprio ora. Se ne sta lì, in piedi, rigida come un cervo abbagliato dai fanali in mezzo alla strada. Non l'hanno sentita arrivare.
Da quanto è qui? Cosa ha sentito?
A quante persone lo riferirà...?
Perché, se c'era ancora una speranza, fino a un attimo fa, di far rimangiare al Venanzi quella frase, adesso la crepa tra loro è diventata impossibile da ricoprire.
Lui, di questo, ha solo un'intuizione vaga. Per Oriana, invece, il passaggio da uno stato all'altro è concreto come quello dal liquido al ghiaccio; o, peggio, dal legno alla cenere, poiché, nei fatti, irreversibile.
I pesanti anfibi di Monica prendono a pestare le scale prima ancora che chiunque di loro riesca a formulare una frase. Per un istante, è come sospesa sopra di loro: uno squarcio del suo passaggio è visibile attraverso la ringhiera, le sue dita sono sul corrimano. Poi il maniglione antipanico schiocca sotto al suo pugno e lei scappa nel corridoio. La porta si richiude da sé.
Oriana è in apnea. Fissa nel vuoto, la bocca socchiusa. Poi si volta verso Simone. Ha gli occhi arrossati.
E lui sa solo di voler scappare.
– Mi dispiace, Oriana... Io... non ci riesco.
– Simo...
Ma "Simo" l'ha già scavalcata: la sua voce rotta lo tocca soltanto di spalle.
E sa – non importa quanto tragica sia la situazione – che Oriana non può seguirlo. A prescindere che ne abbia o meno l'istinto e che lo desideri con tutta se stessa, non può permettersi un'altra sceneggiata in pubblico, non così, non in lacrime, non in un quadro in cui risulta perdente. Poiché questa – la sua capacità quasi innata di intercettare al volo cosa convenga e non convenga fare di fronte agli altri – è il suo più grande talento, ma al contempo il suo difetto fatale. E Simone lo sfrutta in piena coscienza, anche se non era nei piani. Se ne fa una corazza, pur di allontanarsi da lì.
E si allontana. Come una pallina del flipper schizza a zig-zag tra la folla, attraversa il piazzale, nuota contro corrente rispetto alla bolgia in procinto di entrare nell'atrio, raggiunge il cancello ed è in Via delle Logge. Libero: ha superato i confini della Leopoldo.
Ma il sollievo non dura a lungo, perché se vuole avere una speranza, domattina, che la sua firma falsa sul libretto delle giustificazioni venga presa per buona, deve allontanarsi adesso, e non può rimanere nei paraggi ad aspettare un bus. Ha già avuto fortuna a non incrociare nessuno dei suoi docenti, finora. Non è il caso di sfidare la sorte.
All'incrocio con Via Torquato Tasso getta un'occhiata al termine della lunga discesa. Laggiù, a duecentocinquanta metri di distanza, c'è un'altra fermata. Una di quelle generiche, non legate al servizio di trasporto scolastico della provincia.
Si tira su il cappuccio, perché con la coda dell'occhio gli è parso d'intravedere un gruppetto di ritardatari, e non ha alcuna intenzione di fermarsi per capire chi siano, o se possa permettersi di farsi notare da loro mentre fa sega. Mette tutto il suo impegno nell'evitare di incontrarne gli sguardi, finché non è sul marciapiede opposto, schermato dal fitto filare di ippocastani. E anche loro, dopo pochi passi, sono solo un vociare lontano.
Il sole, oltre il tetto in lamiera della Leopoldo, spazza via lo strato di nubi traslucide e inizia a tingere il cielo di un azzurro pastello. Ormai, la campanella è già suonata da qualche minuto.
E il Venanzi è lì che si chiede perché si ritrovi sempre a scappare, e perché ogni fuga coincida ogni volta con la delusione di qualcuno che si aspettava qualcosa di meglio; e perché non possa esserci, una volta tanto, una semplice concordanza d'intenti, sia pur casuale; quando, a un tratto, rialza lo sguardo dal selciato, e si accorge che c'è un ragazzo a cento passi da lui.
Si trova al lato opposto della strada, ma avanza nella stessa direzione, con la stessa gravità del passo. Chi diavolo è? Non lo riconosce, di spalle. Capelli neri, grosse cuffie in testa, zaino sulla schiena. Un altro studente della Leopoldo, senza dubbio. Forse del primo anno.
Lo segue distratto, sulle prime. Non è chiaro dove sia diretto, ma una cosa è evidente: neanche lui è a scuola. Quindi, le cose sono due: o tirerà dritto fino al centro del paese – magari è del posto – oppure, giunto in fondo alla discesa, si affaccerà sul ciglio della strada, guarderà a destra e a sinistra, attenderà che sia sgombra e poi attraverserà. In questo caso, il Venanzi se lo ritroverà alla sua stessa panchina, forse anche sul solito bus. Non che sia un problema, stavolta: due individui nell'illegalità si coprono di certo le spalle. Forse.
Questo pensa Simone. Finché, giunto all'altezza della fermata, quel pezzo d'idiota non si butta nella corsia senza guardare. Per poco una cinquecento non lo mette sotto. Quasi perfette, le sue previsioni.
– Attento a dove vai, imbecille! – Il guidatore si sbraccia come un pazzo fuori dal finestrino, le orecchie in fiamme, pare lì lì per scendere e prenderlo a pugni. Il ragazzino si gira, lo guarda in cagnesco, dà un calcio alla ruota anteriore e gli fa il dito medio. Cazzo. Poi allunga il passo senza parlare. C'è l'ha proprio davanti, in linea d'aria, quando si accascia a peso morto sulla panchina.
Simone ha rallentato il passo. Non sa bene se tenersi a distanza – non si sa mai, magari è pazzo – o se entrare in condivisione simpatetica: in fondo, pare avere il suo stesso umore di merda.
Quando si avvicina, il ragazzo è così concentrato a fissarsi le scarpe che non si accorge di lui.
Simone è ancora lì, in piedi, con i pugni ficcati in tasca, quando se ne rende conto:
"Ma io lo conosco".
Non è solo la rabbia così mal gestita a renderglielo familiare. Lui l'ha proprio già visto. Ma dove?
E soprattutto... dove ha già sentito... questa canzone?
Sì, perché le grosse cuffie del ragazzino non isolano un tubo, sono solo capaci di distorcere le note della traccia, perciò il Venanzi tende l'orecchio.
Neeeh-naaah-niiih-na-ahhh,
Neeeh-naaah-niiih-na-ahhh...
My pupils dance, lost in a trance
You sacred silence, losing all violence...
Ah, sì, cazzo. È Innervision, da Steal This Album!
– Oh, – gli fa. Ma quello non sente un tubo.
Allora cerca di richiamare la sua attenzione con dei gesti della mano. – O-oh!
E a quel punto si volta. Oltremodo perplesso, si fa scivolare le cuffie dietro la nuca.
– Oh, – ripete il Venanzi, ora che è sicuro di essere sentito.
– Oh, – risponde l'altro.
– I System of a Down?
– Eh?
Simone indica le cuffie con una mossa del mento.
– Ah. Sì.
– Gran gruppo.
– Già.
Una conversazione tra plusdotati.
Finalmente a suo agio, il Venanzi si siede all'altra estremità della panchina. Per un po' non dice niente, tanto che il ragazzino sta per tornare nella sua bolla progressive metal, non troppo felice.
– Ma tu conosci il Grugno, – gli fa, quando le cuffie sono sollevate a mezz'aria, interrompendolo a metà dell'azione.
– Come?!
Simone scuote la testa. – Il Marco Gherardi. Non sei in classe con lui?
L'altro lo fissa a disagio.
– Ehm, no.
Simone si acciglia. – Oh, scusa.
Poi riprende a guardare verso la strada. Si gratta il mento, si rinfila la mano in tasca e non dice nulla per un altro po'. Di nuovo, l'altro afferra le cuffie, fa per rimettersele sulla testa...
– Ma quindi non sei il cugino del Bianco.
E questo, di botto, lo fa irrigidire. Le cuffie gli scivolano dalle dita.
– Quello che fa skating, – sente il bisogno di puntualizzare il Venanzi, – perché lui sta in classe col Grugno... Il Grugno è un mio amico.
Il ragazzino si volta senza respirare.
– Ehm...
Però scusa n'attimo, Simone, ma che cazzo dici? Come può essere il cugino del Bianco?! Ma te lo ricordi, il cugino del Bianco...?
– No, niente. Mi sono sbagliato, – Simone aggrotta le sopracciglia, in un'ondata d'imbarazzo. – Lui è castano chiaro, ora che ci penso. Ed è pure un po' brutto.
Va be', Venanzi. Quest'ultima cosa potevi anche non dirla.
E adesso è troppo preso dal pensiero di aver fatto una figura di merda per farci caso, ma il cuore di quel ragazzino si è aperto, per un'istante. E, subito dopo, è stato invaso dal panico. Perché quello che sta succedendo non gli era mai capitato prima di adesso, né credeva fosse possibile.
– Io... – borbotta.
E si incurva un po' con la schiena; infila le mani nella tasca della felpa, spinge le nocche in avanti, quasi volesse creare un vuoto sul petto.
– In realtà... non ho cugini.
Sforza le corde vocali, per qualche ragione. Forse per sembrare più grande.
– Fa niente. Errore mio, – risponde il Venanzi, E gli sorride.
Ma sì, dai. Non è stata una figura così tremenda. Può succedere, di scambiare due persone.
– Comunque, mi chiamo Simone Venanzi. – E si inclina di lato, a quel punto; supera la distanza che li divide per tendergli la mano.
Il ragazzino è... pietrificato. Sta lì, a fissargli le falangi come se fossero fucili puntati. Poi solleva il mento. Deglutisce. Lo guarda dritto negli occhi.
– Manuel, – risponde. – Manuel Reale.
Ore 08:23.
Dal principio di Via Torquato Tasso, alla loro sinistra, si vede arrivare un bus. È piccolo, ancora. È sulla cima della salita.
– Allora? – gli fa il Venanzi.
– Eh?
– Che bus c'hai, te? Dov'è che devi andare?
– Ah. Uhm. Boh? – risponde l'altro Premio Nobel. – Tu?
Simone si volta di nuovo verso sinistra. Aspetta che il bus si avvicini ancora un po', per decifrare le parole sul monitor.
C'è scritto... "Volterra"
– Allora. Io... penso che andrò a scoprire cosa c'è di speciale... a Volterra. – Si alza in piedi. Fa un segnale al conducente, poi si rimette la mano in tasca. – Non so se vuoi unirti.
Il bus si avvicina, si arresta e apre gli sportelli. Simone lo sta ancora guardando.
– Uhm. – Manuel ci riflette Poi, si stringe nelle spalle. – Va be', okay.
Pur di andar via di qui, qualsiasi cosa. Pure Volterra.
E così se ne vanno via, il Venanzi ed ex-Coyote Rosso.
Ma torneranno. Perché non è ancora tempo, per loro.
Né per Monica, né per Sebastiano.
Né per nessuno degli altri, di lasciare Borgonatio.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro